Supercomputer che trovano cure mentre elaborano un vaccino. Sistemi quasi istantanei per esaminare i polmoni, applicazioni per smartphone che identificano i possibili malati tramite semplici domande e sorvegliano chi si trova in quarantena. Tutto l’arsenale tecnologico che ci aiuterà a fermare la pandemia
Uno è un essere agguerrito e microscopico, l’altra un poderoso concetto astratto. Uno risale all’alba della vita sulla Terra, l’altra è l’emblema della contemporaneità. E, a oggi, anche la sua più probabile via di salvezza: per quanto sia frutto dell’ingegno umano, dal coronavirus saprà proteggerci ciò che di più si avvicina al sovrumano, l’intelligenza artificiale. Anzi, lo sta già facendo a tutto campo, in una maratona supertecnologica globale che coinvolge governi, colossi dell’informatica, rampanti start-up. Che mira a scovare un vaccino, aumentare l’efficacia delle cure per i malati, tenere i sani alla larga dai soggetti positivi, prevenire una nuova pandemia.
La Cina, dove l’emergenza è in ritirata, ha dimostrato che la fantascienza è oramai un concetto sbiadito. La Repubblica Popolare ha schierato droni che vigilano sull’osservanza della quarantena e scoraggiano i tanto temuti assembramenti; ha educato robot a spruzzare disinfettanti per le strade, a farsi carico delle consegne di merci e medicinali, evitando il contatto umano; ha inventato due capisaldi che, pare, metteranno il turbo alle diagnosi di Covid-19. Uno è firmato Alibaba, l’Amazon d’Oriente: da una tac scova le complicanze legate al virus in 20 secondi, con un tasso d’accuratezza del 96 per cento; l’altro è un software di un’azienda di Pechino, Infervision, che già usava l’Ai per intercettare il cancro nel corpo. Dopo un adeguato, tempestivo aggiornamento, analizza una scansione dei polmoni in una manciata di attimi e «vede» se ci sono segnali associabili a Covid-19. In entrambi i casi, al confronto, i tamponi hanno il passo di una tartaruga.
Nella partita sono scesi i supercomputer, i quali vantano una rapidità di calcolo ed elaborazione che un cervello umano può soltanto misurare. Summit di Ibm, da poco arruolato dal governo americano, sa fare 200 milioni di miliardi di operazioni al secondo. Ha la potenza di un milione di pc di fascia alta. E, grazie ai suoi possenti neuroni di bit, ha identificato 77 composti che potrebbero impedire al virus pandemico di infettare le cellule ospiti. Spiragli verso una cura.
L’Italia non è da meno: il consorzio «Exscalate4CoV», che coinvolge nomi come il Politecnico di Milano e il Cineca di Bologna ed è guidato da Dompé farmaceutici, ha ricevuto 3 milioni di euro dalla Commissione europea per individuare farmaci per trattare subito i malati e contrastare i contagi futuri. Per riuscirci si affida a una macchina che valuta tre milioni di molecole al secondo per isolare le più promettenti. Pareggia con disinvoltura il lavoro di un plotone di scienziati chiusi giorno e notte in laboratorio.
«Vogliamo decifrare il teorema dell’intelligenza e usarla per risolvere qualsiasi altra cosa» è il mantra di Demis Hassabis, mente geniale (almeno la sua reale) a capo di DeepMind, controllata da Google. Che ha condiviso con il mondo le inferenze sulla struttura della proteina del virus compilate dai suoi algoritmi, gli stessi che hanno imparato da soli a battere i campioni mondiali di scacchi. Tale struttura aiuta a capire come si comporta ed evolve il virus per poterlo anticipare e sconfiggere.
L’intelligenza artificiale combinata alla chimica è dunque un avamposto nella caccia a un vaccino. E non è una prerogativa di privati o case farmaceutiche: per esempio, l’istituto di ricerca no profit Sri International, che ha sede nel cuore della Silicon Valley ed è emanazione dell’università di Stanford, sta tentando di sovrapporre chimica e bit. Ma al di là della ricerca, gli ambiti di applicazione della tecnologia sono molteplici e altrettanto dirompenti: «L’Ai può rapidamente condurre sondaggi tra i cittadini circa i loro sintomi. Questi sistemi possono avere a che fare con migliaia di pazienti l’ora, al posto dei call center, generando rapporti di alta qualità» assicura Mark Lambrecht di Sas, uno dei leader mondiali nell’analisi dei dati.
L’idea è che, anziché intasare i centralini, risponderemo a una serie di domande poste da un sistema automatico, che escluderà ogni falso allarme o, almeno, darà la prelazione alle situazioni più urgenti, evitando sfibranti attese al telefono. In Georgia, negli Stati Uniti, la Augusta University ha pensato a qualcosa di analogo: sta sviluppando un’applicazione che, da alcuni quesiti sullo stato di salute posti agli utenti, troverà chi ha maggiore probabilità di essere positivo e gli garantirà un accesso preferenziale ai test per confermarlo o smentirlo. La app sarà disponibile a breve.
In realtà, è ancora poca cosa rispetto a quanto è già prassi in Oriente, veicolato dal più irrinunciabile compagno di vita: lo smartphone. Il ministero dell’Interno della Corea del Sud ha creato un software che, attraverso il monitoraggio del Gps, si assicura che chiunque debba rimanere in quarantena non abbandoni il suo domicilio. A Hong Kong, per evitare che i destinatari del provvedimento vadano a concedersi un’allegra passeggiata senza il telefono, si sono messi a fare videochiamate di controllo. Evidentemente, nemmeno il più abile dei furbi sa far passare un parco o una strada per gli arredi del salotto. Inoltre, sono stati forniti dispositivi medici identici agli smartwatch ai malati, per rilevarne battito cardiaco e irregolarità respiratorie e osservare per un tempo prolungato come il virus modifica il funzionamento del corpo. A tirare le somme sarà, naturalmente, l’intelligenza artificiale.
Ma è in Cina, dove in materia di sorveglianza di massa sono campioni del mondo, che la tecnologia ha raggiunto il picco del suo potenziale. Non bastava la monumentale rete di 200 milioni di telecamere installate in tutto il Paese: il sistema di riconoscimento facciale si sta adeguando a questi tempi malati e potrà funzionare anche in presenza di mascherina sul volto. Così, incrociando i risultati della scansione con i database di soggetti sottoposti a quarantena, chi sgarra verrà sorpreso comunque. Senza bisogno di agguati telefonici a sorpresa. Di più: per circolare ci vuole il semaforo verde. Non quello di un incrocio, ma del telefono. Il lasciapassare lo rilascia sullo schermo un algoritmo che pondera diversi elementi, a partire dalle aree a rischio nelle quali si è stati (il cellulare tiene traccia di tutti i nostri spostamenti). Se il codice sanitario, così si chiama, diventa giallo o rosso, occorre chiudersi in casa per sette o quattordici giorni. Altro che l’autocertificazione scritta a penna.
Quelle di Pechino sono logiche stringenti non importabili da noi perché suonano, comprensibilmente, come invasioni della privacy. «Ma in certe situazioni limite, dovrebbe vigere ciò che diceva il signor Spock in Star Trek: il vantaggio dei tanti, vale più del vantaggio di uno» ragiona con Panorama Piero Poccianti, presidente dell’Associazione italiana per l’intelligenza artificiale, l’organismo accademico tricolore di riferimento sul tema. «L’Europa si svegli» esorta Poccianti «e investa in infrastrutture che siano in grado di elaborare i dati vicino a dove sono prodotti. Devono transitare nei corridoi giusti, non essere affidati a colossi tecnologici il cui obiettivo primario rimane il profitto». Un quadro più virtuoso, meno legato agli interessi economici di pochi, più ancorato al bene collettivo, potrebbe consentire di riprodurre alcune di quelle soluzioni anche da noi. Se non in via definitiva, almeno in circostanze d’emergenza.
Di certo, l’intelligenza artificiale non deve dimostrare i suoi talenti, né sottoporsi a esami di maturità: si era già accorta del virus. Quasi dieci giorni prima della comunicazione ufficiale dell’Oms, la piattaforma di analisi di dati sanitari BlueDot, aveva segnalato come sospetti gli eccessi di polmoniti che si stavano registrando a Wuhan. Faremmo bene a prestarle attenzione la prossima volta.