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Come nell’ora più buia, l’Europa va a pezzi

Come nell’ora più buia, l’Europa va a pezzi

    • La solidarietà tra membri della Ue è la vittima più illustre fatta dal coronavirus a Bruxelles. Senza collaborazione coordinata, davanti all’emergenza, i Paesi più forti si sono mossi anche a discapito dei più deboli. L’Unione del continente oggi è sempre più un guscio vuoto.
    • La risposta di Bruxelles all’emergenza Covid-19 ha mostrato la totale mancanza di coesione tra gli Stati membri. Che si sono mossi in ordine sparso. Guidati dall’egoismo e dal proprio interesse. Come la Germania, pronta a finanziare illimitatamente le sue aziende, ma rapida a bloccare l’export di mascherine all’Italia. E si profila un altro problema: l’ingerenza cinese…



    «Uccide più il machismo del coronavirus». Pomeriggio dell’8 marzo 2020: mentre l’Italia aggiorna la conta di morti e contagi, a Madrid 120 mila indomite mujeres sfilano lungo le vie del centro. Cuori in alto e striscioni al cielo: altro che Covid-19, sarà la misoginia a distruggere il pianeta. Tra la folla, si scorgono diverse ministre. C’è persino Begoña Gómez, la moglie del premier Pedro Sánchez. Nel giorno della festa della donna, in Spagna ci sono già oltre 600 persone positive ai test. Eppure la vita scorre ribalda come sempre.

    L’epidemia arrivata dalla Cina pare lontana. Anzi, si sorride della trincea sanitaria che, faticosamente, cercano di scavare i vicini italiani. Uguali commenti ironici, nelle stesse ore, si odono a Parigi. Il presidente francese, Emmanuel Macron, è il primo a tracciare la linea dell’indifferenza. Con la sua Brigitte, va persino a teatro: «Nonostante il coronavirus, la vita deve continuare» annuncia fatalista prima di raggiungere la platea. Intanto i pragmatici tedeschi, in ossequio alla fratellanza tra i popoli, cominciano a requisire mascherine destinate all’Italia. Sembra trascorso un secolo, invece sono passate appena due settimane. Due settimane che hanno sancito la fine dell’Europa. L’Unione, nell’ora più buia, ha spento la luce per andare a dormire serena. Salvo poi svegliarsi tremante e sudaticcia in piena notte. E se noi aspettavamo sgomenti i bollettini preserali, gli altri fischiettavano mani in tasca. L’apocalisse non sarebbe arrivata pure alle loro latitudini. Volete mettere il disastrato sistema sanitario italiano con quello dei civilizzati vicini?

    Altro che l’Europa libera e unita di Ventotene, il coronavirus ha esemplificato l’homo homini lupus di Thomas Hobbes. Tutti contro tutti, egoismi e sopraffazioni. La corsa ad attribuire la causale italiana ai contagi, per esempio, è stata a perdifiato. Ogni neoinfettato, guarda un po’, aveva incrociato un mangiaspaghetti. Eravamo noi i rei non confessi, mica i pipistrelli cinesi. Ma poi, sorpresa, si scopre che il paziente zero è un ligio teutonico. Avete dunque visto, cari tedeschi, che l’untore ce l’avevate in casa? E come mai i francesi hanno così pochi contagi? Semplice: non fanno i tamponi. E gli spagnoli? Non smettono di ingozzarsi di tapas in allegra compagnia. Nel momento più tragico della sua storia, l’Europa ha rivelato viltà e meschinerie. Soprattutto, non ha avuto nessun coordinamento: economico, politico o sanitario. Ed è ben poco consolante che, dopo aver fatto spallucce per settimane, tutti abbiano imboccato la derisa via della quarantena e del coprifuoco.

    Partiamo dall’inizio, però. Da quando l’Italia comincia a fare test ai sintomatici. Gli altri, intanto, derubricano i decessi: è la solita influenza stagionale, non c’è da allarmarsi. E mentre noi finiamo sotto chiave, nel resto del continente prosegue il solito tran tran: lavoro, bar e pallone. Qualcosa non torna. Cominciamo a domandarci: com’è possibile? Siamo davvero i più stolti? O, magari, solo i più sfortunati? Ma il coronavirus, purtroppo, non ha fatto prigionieri: è arrivato ovunque, subdolo e silenzioso. Lo sfasamento temporale, calcolano gli statistici, è di una decina di giorni. A questo ritardo, si accumula l’inerzia dei governi. Se in Italia le scuole vengono chiuse il 5 marzo, in Spagna, Francia e Germania la serrata generale arriva soltanto il 16.

    Insomma, è l’Armata Brancaleone. Le conseguenze rischiano di essere drammatiche. «L’incognita adesso è rappresentata dal resto d’Europa e dalla Gran Bretagna» ammette Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università Statale di Milano. «Stiamo vedendo mancanza di coordinamento e azioni disomogenee che possono rovinare quello che si sta facendo in Italia». Walter Ricciardi, l’esperto dell’Oms accorso al capezzale del governo giallorosso, aggiunge: «Ci prendevano per stravaganti. Adesso tutti hanno adottato le nostre misure. È vero: l’Italia potrebbe venirne fuori per prima. Ma questa è una pandemia. Il coronavirus rischia di uscire da una finestra e rientrare dall’altra».

    E nessuno ha tenuto spalancata quella finestra quanto la Spagna. Le oceaniche manifestazioni per la Festa della donna, lo scorso 8 marzo, sono lì a dimostrarlo. L’edizione online del quotidiano El País, il più famoso e progressista, titola ribaldo: «Il femminismo mette in mostra i muscoli della mobilitazione, nonostante la paura del coronavirus». Ma sì. Del resto, per sconfiggere l’epidemia, è un rimedio infallibile: mezzo milione di femministe che corrono a riempire le piazze in tutta la penisola. Occasione imperdibile. Tanto che alle festose adunate partecipa persino Begoña Gómez, la moglie del premier Pedro Sánchez. Oltre che mezzo governo spagnolo: tra cui Irene Montero, ministra delle Pari opportunità, e Carolina Darias, a capo del dicastero delle Politiche territoriali. Qualche giorno più tardi, tutte e tre risultano positive al test. E la Spagna diventa, dopo l’Italia, il secondo Paese europeo per contagi. Le comunidad così si blindano. Sul governo piovono tardive e inevitabili critiche. E il ministero della Sanità ammette di non essere nemmeno in grado di fare i test necessari.

    «Pufferemo il virus» urlano invece i 3.500 nostalgici francesi che il 7 marzo 2020 scendono per strada vestiti da omini blu. L’obiettivo, senza dubbio, è audace: battere il record mondiale dei raduni sui Puffi. Eppure Macron aveva già vietato le manifestazioni con più di mille persone. Decisione sacrosanta. Cosa volete che accada a 999 transalpini che si radunano, stretti stretti, per un nobile ideale? Come noto, il virus infetta a partire dal millesimo partecipante. Qualche giorno dopo, Macron si ravvede: meglio rimanere sotto il centinaio di presenti. Ma soprattutto l’importante è correre in massa alle urne, il 15 marzo, per eleggere il nuovo sindaco di Parigi.

    En Marche!, il partito del presidente, candida l’ematologa Agnès Buzyn, ministro della Sanità, costretta alle dimissioni per tentare l’impresa. Dopo il voto, lei però rivela: «Avremmo dovuto annullare tutto. Le elezioni di domenica sono state una buffonata». Poi, aggiunge: «Quando ho lasciato il ministero piangevo, perché sapevo che l’onda dello tsunami era davanti a noi». L’ex ministro racconta di aver avvertito Macron del rischio coronavirus, ma invano. Intanto, il suo successore alla guida della Sanità, Olivier Véran, chiarisce: «Ogni francese dovrebbe limitare i contatti a non oltre cinque al giorno». Giusto: uno la mattina, due dopo pranzo e altrettanti la sera. Poi, passa la paura.

    Più risoluto è monsieur le Président: «Siamo in guerra» annuncia il 16 marzo, a scrutinio appena concluso. Ma se, come la Rossella di Via col vento, assicurava che «la vita deve continuare»? Beh, la situazione s’è rapidamente evoluta. I francesi devono prepararsi all’era bellica. Risultato: centinaia di persone in coda al supermercato. Urla, spintoni e panico. Pressapoco le stesse scene viste in Italia quasi un mese prima, accompagnate da compassionevoli sorrisetti. Ma anche da sciacallesche strategie commerciali: quelle denunciate da molte associazioni di categoria. Ovvero, le mire di aziende e gruppi transalpini pronti a sfruttare la nostra crisi sanitaria per accaparrarsi nuove quote di mercato. Dal settore alimentare a quello logistico.

    Ma è niente in confronto alla vil tenzone sulle mascherine. La Francia, all’inizio, le requisisce tutte. Lo stesso fa la Germania. «Gentile cliente» si legge in una lettera inviata il 6 marzo 2020 dalla multinazionale 3M alle società italiane «il 4 marzo scorso, il governo tedesco ha attuato restrizioni all’esportazione di specifici dispositivi di protezione individuali». Tra cui, appunto, quelle mascherine che probabilmente, visto il contingente dilagare dell’epidemia in Lombardia, avrebbero evitato contagi e salvato vite. Almeno stavolta la Commissione europea non rimane a guardare. Minaccia una procedura di infrazione. «Non avete ancora capito che oggi tocca all’Italia, ma domani potrebbe toccare a voi? In questo momento è doveroso aiutare chi ha bisogno» va dicendo in quei giorni Thierry Breton, il commissario al Mercato interno. Solo dopo il suo intervento ufficiale, la Germania annuncia l’invio di un milione di mascherine in Italia. E anche la Francia, suo malgrado, è costretta a sbloccare le forniture.
    Arrivati a questo punto, non resta che ripensare allo spericolato Boris Johnson, che ha condotto il Regno Unito fuori da questa Europa cinica e bara. Certo pure lui, salvo poi ravvedersi, sul tema non s’è risparmiato: «Preparatevi a perdere i vostri cari» spara in piena pandemia. BoJo rievoca la famosa «immunità di gregge»: l’inevitabile sterminio dei deboli permetterà la salvezza dei sopravvissuti. È l’universale legge del più forte. In Europa, invece, vige ormai la lombarda legge del menga: chi c’ha il virus, insomma, se lo tenga.

    E meno male che l’avevano chiamata Unione

    Quest’Europa confusa, lenta e un po’ egoista, in fondo non è cattiva. È che non ha proprio un’anima, sotto le belle parole seminate nei trattati. «L’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli». Ma di fronte alla pandemia, si capisce che il Trattato di Lisbona (articolo 2.1), nel benessere, non comprende la salute. E quando si scopre che l’Unione «combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali» (articolo 2.3), ecco, tocca un po’ interpretare. La risposta di Bruxelles al Covid-19, almeno per ora, dimostra che nei concetti di esclusione e protezione sociale non è contemplato il diritto di essere curati.

    Poi, certo, ci sarebbe anche una norma generale, sempre in quel Trattato di Lisbona che sostituisce l’abortita Costituzione Ue, ovvero il richiamo alla «solidarietà tra gli Stati membri» (articolo 3). Ma dopo aver ammirato la Germania di Angela Merkel farsi in 24 ore il suo New deal da 550 miliardi di euro, buttando alle ortiche il mito del pareggio di bilancio. Dopo aver visto negare mascherine e disinfettanti all’Italia che ne aveva bisogno. Dopo aver ascoltato il presidente della Bce, Christine Lagarde, affermare che ogni Stato membro è solo con il suo spread di fronte ai mercati impazziti. E dopo aver visto una decina di governi chiudere le frontiere a piacere, con buona pace di Schengen, è chiaro che anche la famosa solidarietà europea è una parola scritta sull’acqua. Quanto al feticcio di una politica estera comune, lo si sta ammirando nei confronti della Cina: tutti in ordine sparso al cospetto di Pechino, che divide l’Ue con i suoi fanta-aiuti umanitari. E intanto esporta la propria rete 5G.

    Le tasse non mentono. Alla vigilia della disgraziata sortita di Lagarde sulla Bce che «non è qui per chiudere gli spread», i capi di governo europei s’erano riuniti e avevano nuovamente fallito sul fronte dell’unificazione delle politiche fiscali. Ognuno resta libero di fare dumping sulle aliquote ai danni dei vicini, con i fenomeni ben noti come la migrazione di polizze vita e fondi d’investimento verso Irlanda e Lussemburgo, o la quotidiana transumanza di imprese italiane, grandi e piccole, verso il più benigno fisco olandese. Non solo un simbolo della mancata unificazione europea, ma anche una summa del deficit di solidarietà, perché drenare gettito fiscale dagli altri Stati significa indebolirne le pensioni, la scuola e la sanità.

    Ma personaggi come Lagarde, in realtà, non fanno gaffe. Quando era direttore generale del Fondo monetario internazionale, questa impeccabile signora della buona società francese ha imposto la ricetta dei tagli alla spesa pubblica, sanità compresa, a mezzo mondo. Ecco, in piena crisi del 2011, che cosa dichiarava: «I debiti sovrani devono essere riportati a un livello sostenibile. Questo non significa solo stringere la cinghia», ma affrontare il problema dell’aumento della spesa pubblica nel lungo termine, «come quella per le pensioni e quella per la sanità». Non è un caso che prima facesse l’avvocato: per lei solidarietà deve aver a che fare solo con la responsabilità in solido dei debitori.

    Nati per il bel tempo. Ha ragione Lucrezia Reichlin, economista che ha diretto il dipartimento ricerca della Bce e ora insegna alla London Business School: «Le misure annunciate da Ursula von der Leyen sono inadeguate. Questa Unione sembra essere stata pensata solo per quando c’è il bel tempo» (intervista alla Stampa del 14 marzo). Sarà già molto se si eviterà l’applicazione del Mes (Meccanismo europeo di stabilità), in ragione del quale l’Ue «aiuta» gli Stati membri in difficoltà (ce la può fare: ha in cassa 410 miliardi), ma in cambio di un commissariamento alla greca.

    Un meccanismo punitivo e umiliante, pensato per quando un’economia statale mette a rischio la stabilità dell’euro per azzardo e non certo perché arriva un virus dalla Cina. Al 16 marzo, il presidente della Commissione Ue, che i giornali adoranti chiamano già «Ursula» come fosse nostra zia, aveva stanziato per la crisi appena 25 miliardi. «Destinati ai 27 Stati dell’Unione e tra l’altro tratti dal bilancio dell’Unione e quindi pagati di tasca nostra», come ha osservato Giulio Tremonti (intervista alla Verità del 16 marzo). Eppure, sul Financial Times (13 marzo) è comparso un appello di vari economisti, tra cui gli italiani Riccardo Realfonzo e Antonella Stirati, che stimavano in almeno 600 miliardi l’importo della manovra necessaria da Bruxelles. Va detto che ci sono andati vicino, ma con la Germania.

    La Germania fa l’Unione (con se stessa). Il Sommo sacerdote della Bundsbank, Jens Weidmann, ha sancito che «siamo di fronte a una combinazione di shock dell’offerta e shock della domanda e che la politica monetaria è già abbastanza accomodante, la liquidità è abbondante, i tassi d’interesse sono già bassi» (intervista a Bloomberg Tv del 28 febbraio). A buoi in parte scappati, va detto che il 18 marzo la Bce ha annunciato liquidità aggiuntiva per 750 miliardi, ricordandosi che in fondo ha disponibilità illimitate. Intanto il governo di Angela Merkel prometteva alle imprese tedesche crediti a pioggia, fondi sociali e agevolazioni fiscali per 550 miliardi di euro. Non solo la cancelliera ha mandato in pensione il mitologico pareggio di bilancio che insieme a Weidmann ha imposto a Bruxelles e a Francoforte fino a ieri, ma ha anche fatto capire ai mercati che Berlino farà tutto quello che serve per difendere il benessere dei propri cittadini. Poteva darne un po’ all’Europa, di tutti quei miliardi?

    I mercati? Un buon giudice… Certo, all’Italia verrà concesso di spendere in deficit e sfondare il tetto del 3% sul Pil. Del resto serve anche alla Francia di Emmanuel Macron, quindi si può fare. Il film della crisi che potremmo dover affrontare, purtroppo, non richiede di essere degli indovini per essere sceneggiato. L’attività economica si ferma, causa pandemia, le imprese private vanno in crisi di liquidità e non pagano gli stipendi. I consumi crollano, le banche non rivedono i soldi prestati e sfondano i coefficienti patrimoniali di rischio fissati dalla Bce.

    Gli Stati devono intervenire con aiuti e garanzie pubbliche al sistema del credito, ma così facendo, chi ha un alto debito sovrano come l’Italia vede aumentare lo spread. Con lo spread che schizza oltre quota 300 sulla Germania, banche e assicurazioni, imbottite di Btp, a loro volta entrano in un «loop». E se in un mese, tra l’11 febbraio e l’11 marzo, quando l’Oms ha dichiarato la pandemia, lo spread è aumento del 47%, nel medesimo arco temporale, i Credit default swap a 5 anni sull’Italia (i Cds, in pratica la scommessa sul nostro fallimento) sono saliti del 118 per cento. Si chiama speculazione, non giudizio divino. E alla Bce non c’è più Mario Draghi, che con tre paroline («A qualunque costo») fermò i lupi.

    Libero mercato? No, liberi tutti. Al Mef sanno bene quanto sia severa l’Antitrust europea, guidata dalla vicepresidente della Commissione, la socialista danese Marghrete Vestager. Sui dossier Alitalia e Monte dei Paschi di Siena, l’Ue ha il fucile puntato da tempo. E anche la futura unificazione della rete in fibra ottica di Telecom Italia con quella di Open Fiber, per non parlare dell’alleanza di Fincantieri con Stx-Navalgroup, sono sotto la spada di Damocle dell’Antitrust. Ma se nel decreto Coronavirus Giuseppe Conte ha infilato la nazionalizzazione di Alitalia, è perché ha capito che era il momento buono: con le rispettive Casse depositi e prestiti, i principali governi europei si preparano a una svolta colbertista. Perché il libero mercato è bello, ma solo quando devi esportare.

    Sicurezza in ordine sparso. La commedia della famosa solidarietà europea è andata in scena anche alle frontiere. Il 17 marzo, il Consiglio dei capi di Stato e di governo ha sospeso l’accordo di Schengen con l’esterno per almeno 30 giorni. Ma la trattativa per salvare l’accordo sulle frontiere interne è in alto mare, dopo che Germania, Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Danimarca, Polonia, Lituania, Spagna e Portogallo hanno notificato a Bruxelles «sospensioni temporanee». Ma c’è un’altra sicurezza, ben più sottile e difficile da percepire, ed è quella che riguarda le telecomunicazioni. Nell’ultimo decreto per l’emergenza Covid-19, i piccoli fan della Cina nel M5s e in mezzo Pd hanno lasciato che Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri infilassero una clamorosa apertura a Huawei sulla rete 5G, la stessa che Casa Bianca e Pentagono bloccano da mesi per motivi di sicurezza nazionale.

    Carmelo Miceli, deputato del Pd esperto di sicurezza e che siede nelle commissioni Giustizia e Antimafia, promette battaglia, come ha fatto sulle speculazioni di Borsa prima che Consob si muovesse: «La Cina ci offre il suo aiuto, ma intanto si riapre il problema di Huawei, sul quale l’Ue si muove in ordine sparso. La posizione europea dev’essere comune e non può essere molto diversa da quella Usa». Già, gli Stati Uniti. Almeno con gli egoismi da coronavirus ci siamo tolti di mezzo il surreale dibattito sugli Stati Uniti d’Europa. Non siamo uniti e non siamo Europa.

    Francesco Bonazzi

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