Bruce Springsteen: la recensione di "High Hopes"
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Bruce Springsteen: la recensione di "High Hopes"

Tutto sulle nuove canzoni e quattro ricordi d'autore dei leggendari live del Boss in Italia

C' è un evidente omaggio al re del rock'n'roll nella copertina di High Hopes, il diciottesimo album in studio di Bruce Springsteen. La cover del nuovo disco ricorda infatti ricorda il mitico “Doppio Elvis Presley” realizzato da Andy Warhol nel 1963. Elvis puntava verso la macchina fotografica una pistola, anzi due. Il Boss impugna, come sempre, una Fender Telecaster. Anzi due. 

Per questo lavoro Bruce ha messo mano alle sue vecchie session con l'obiettivo di dare una nuova veste sonora a una serie di canzoni che aveva già pubblicato o presentato dal vivo. Detto questo il risultato è eccellente: nel senso che tra le 12 tracce ci sono molte buone vibrazioni, quelle che non popolano gli album inutili.

Ma veniamo alla musica: la title track è la cover di un brano anni Novanta degli Havalinas (rock band californiana di Long Beach). Rispetto all'originale scorre molta più adrenalina: merito della chitarra di Morello e di una sezione fiati pulsante. 

Harry's place, composta all'inizio dei Duemila ha un incedere cupo, drammatico. Un gran pezzo, perfettamente compatibile  con lo stile chitarristico di Morello. American skin (41 shots)è di gran lunga uno dei brani migliori dell'ultimo Springsteen, uno di quei pezzi che fanno la differenza, che mettono a fuoco la misura dell'ispirazione e della sensibilità di un'artista. La ricordiamo nel cd live del 2001 in chiave soul-gospel. Ecco, questa versione è meno appassionata, più pop, ma altrettanto bella. La impreziosisce un solo memorabile di Mister Morello. 

Just like fire would è la cover di un classico della alternative rock band australiana The Saints. Springsteen la fa sua senza pigiare sull'acceleratore. Buono l'arrangiamento di fiati, potente ed orchestrale.  Down in the Hole, lo hanno già sottolineato in molti, sembra emanazione diretta di I'm on fire. Protagonista indiscusso è il suono del violino (c'è anche anche l'organo del compianto Danny Federici). Sul versante acustico brilla The Wall, delicata, ma pesante come un macigno nel testo che parla di un amico musicista pertito per il Vietnam e mai più tornato a casa. 

Non c'è traccia invece dell'impostazione acustica originale nel remake di The Ghost of Tom Joad. In High Hopes il brano si colora di suoni e tinte rock forti. Sette minuti e rotti di bellezza con la chitarra di Morello che tocca vette altissime. L'ex Rage Against The Machine è praticamente incapace di suonare note inutili. Lascia il segno e non ha mai quel retrogusto di già sentito. Questa versione di Tom Joad è la somma esatta di due talenti, artisticamente lontani, ma che messi al servizio dello stessa musica riescono ancora a emozionare.

QUATTRO CONCERTI ITALIANI DEL BOSS DA NON DOMENTICARE

Una buona parte dei brani di High Hopes il Boss li ha suonati dal vivo nel corso dei suoi concerti maratona. Show che sono a pieno titolo nella storia della musica live, mondiale ed italiana. Per questo noi di Panorama.it vogliamo farvi rivivere le emozioni e le sensazioni di quattro concerti milanesi che hanno lasciato il segno. Buona lettura!

- Milano, SAN SIRO, 21 giugno 1985 - di Luigi Gavazzi

San Siro era ancora San Siro senza il terzo anello, quel 21 giugno del 1985 . Bruce arrivò come un uragano con il suo Born in the Usa tour: unica data in Italia, nello Stadio che sarebbe negli anni diventato uno dei suoi luoghi preferiti. Metà di quegli anni '80, che molti di noi giudicavano stupidi e insipidi, in una città che in alcune sue parti pensava di essere diventata "da bere" e si sforzava, con contorcimenti caricaturali, di dimenticare quello che era stata.

Bruce e la E-Street ci portarono l'odore delle acciaierie e delle fabbriche, le corse notturne - trasformate in epica proletaria -  delle auto sulle highway, la disperazione causata dai conati di deindustrializzazione che portarono Johnny 99 a una rapina notturna perché la banca gli stava portando via la casa visto che non riusciva a pagare il mutuo; ci portò le disillusioni di chi aveva bruciato gli anni cruciali a far la guerra in Vietnam.

"So they put a rifle in my hand, Sent me off to a foreign land, To go and kill the yellow man" cantava Bruce in Born in The Usa, la canzone che aprì quel concerto. Poi inanellò altri 28 pezzi con quasi tutto il meglio di quel che aveva scritto. Le storie di Bruce ci tagliavano in due il cuore e il cervello, erano entrate, in quei dieci anni passati dalla pubblicazione di Born To Run, nella storia della cultura Usa, accanto a Bob Dylan, agli scrittori che amavamo di più, al cinema di impegno e qualità degli anni '70, a quel che avevamo letto di Martin Luther King e Rosa Parks; insomma: il meglio dell'America. Che, nel caso di Bruce, era attaccata alla forza trascinante e felice del rock 'n roll.Al tredicesimo posto della set list arrivò Thunder Road, già allora la mia preferita in assoluto. Ma quella fu la prima volta dal vivo, che ovviamente portò lacrime di commozione. Lacrime che tornano ogni volta che la sento in concerto.

MIlano, TEATRO SMERALDO, 11 aprile 1996 - di Carla De Girolamo

Tutti seduti in silenzio, come in chiesa. Il palco si illumina e Bruce Springsteen, solo, seduto, con chitarra e armonica, canta The Ghost of Tom Joad.

Era l’11 aprile 1996 a Milano, al Teatro Smeraldo, la seconda volta del Boss a Milano. Per me, tra tutti, il concerto più memorabile. Perché eravamo solo in duemila, pochi come non è mai più capitato, con la sensazione di avere il grande, egoistico privilegio di non doverlo condividere con una folla oceanica. E anche se abbiamo ballato di meno, sudato di meno, urlato di meno, forse tutti, quella volta, l’abbiamo amato un pochino di più.   

Milano, FORUM, 12 maggio 2006 - di Gianni Poglio

"Siamo per qui divertirci" disse profeticamente il Boss all'inizio di quello che si sarebbe presto rivelato qualcosa di molto lontano da un suo normale concerto. 12 mila fan e una band di 17 elementi sul palco per lo show meno rock del Boss in Italia. O meglio, del rock c'era l'energia, ma il senso di marcia dell'esibizione puntava verso il gospel, il folk e il blues. Era la sera dell'omaggio a Pete Seeger, leggenda folk made in Usa, l'uomo di We hall overcome

Per ricreare un mondo sonoro antico il Boss aveva portato in scena sassofono, tromba, trombone, basso tuba, quattro vocalist e poi ancora banjo, violini, violoncello, chitarre acustiche e contrabbasso. Fu subito delirio anche senza la consueta scaletta di successi senza tempo. Uno show caldo, per un pubblico caldo in un Forum bollente. Ricordo bene l'inizio: luci spente, le immagini di un cielo rosso intarsiato di strisce blu come sfondo del palco e un esercito di musicisti che lentamente prende possesso della scena. La folla rumoreggia: Poi nel buio, una voce inconfondibile urla nel microfono:  "Ciao Milano, ciao Italia". Si parte con Jesse James e si balla per tre ore, fino al roboante finale con When the saints go marching in. Ma è gia finito?

- Milano, STADIO MEAZZA, 7 giugno 2012 - di Ilaria Molinari

Lo ammetto: mi sono arresa da due anni agli springstiniani. A tutti quelli che per anni mi hanno detto: “è il migliore al mondo dal vivo”, “non hai idea: come lui nessuno”, “un concerto del Boss ti segna per la vita”, “dopo che hai visto il Boss, non c’è niente che sarà mai lo stesso”. Ho sempre pensato: manie da fan.

E invece, lo ammetto: sbagliavo. È il 2012 quando arriva la proposta: “Dai andiamo al concerto di Bruce!”. È l’anno di Wrecking Ball, lui torna a San Siro, a Milano, città che (mi dice chi lo conosce meglio di me) ama davvero. Ok, andiamo a vedere cosa combina. È il 7 giugno.

E (ammetto anche questo), è stata una folgorazione. Un concerto di Springsteen e della Legendary E Street Band (spettacolo e professionalità puri) non è solo un concerto. Sono 4 ore di musica di altissimo livello, classe, armonia, voce. Sound folk, rock, nero. È rispetto per il pubblico, è devozione, partecipazione per ore con chi è lì e non vorrebbe andarsene mai anche se ha cantato, saltato, ballato, pianto di commozione per oltre 4 ore, anche se non ha più fiato in gola, anche se ha le gambe che fanno male.

Non dimenticherò mai le versioni di My City of Ruins e Tenth Avenue Freeze-out nel punto in cui cita la E Street Band: "When the change was made uptown and the Big Man joined the band". Il riferimento è al sassofonista Clarence, mancato proprio nel 2012, amico di una vita del Boss oltre che mago del sax. In quel momento il Boss si è fermato per almeno due minuti e ha girato il microfono verso il pubblico mentre sul maxi schermo comparivano le immagini di Clarence. Mi sono girata, ho guardato tutti in lacrime, chi applaudiva con le braccia alzate, chi aveva le mani sul volto per nascondere gli occhi bagnati. Mi sono venuti i brividi e ho capito finalmente cosa significa far parte del popolo del Boss.  

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Gianni Poglio