L'umanità in panchina
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L'umanità in panchina

Un'ora di attesa in una serata d'inizio di primavera e una scena commovente, specchio di ciò che abbiamo perduto e che dobbiamo recuperare.

Devo aspettare un’ora che le bimbe escano di danza. E’ giovedì sera e sembra primavera, i bar mettono i tavolini fuori e nei balconi interni si iniziano a vedere panni stessi. Mi siedo al bar di tapas della piazzetta, di fronte alla libreria e chiedo un bicchiere di Malbec findelmondano che mi ha consigliato una mia amica.

Mi appoggio sullo schienale della sedia e vedo un uomo seduto sulla panchina della piazzetta, al suo fianco riposa un carrello con sopra una valigia coperta da una giacca. Sulla panchina accanto a lui c’è una lattina di birra. Non è ubriaco, ha solo quella tranquillità che dà la stanchezza.

Guarda tutti come se fossero un paesaggio, un quadro fiammingo: due bambini che giocano con i monopattini, la signora che passa con il cane al guinzaglio, il ragazzo che parla al telefono e la donna che spinge una carrozzina con dentro un bebè che strilla con la tenacia che hanno soltanto quelli che credono ci sia al mondo qualcosa che possa dargli sollievo.
Ha i capelli e la felpa puliti, jeans sbiaditi e scarpe da ginnastica camminate a lungo, la pelle del viso spessa e abbronzata. E' stato un inverno soleggiato.

In quel momento arriva un uomo camminando a saltelli con in mano un grosso mazzo di rose rosse avvolte in carta di giornale. Si siede accanto al uomo in panchina, posa il mazzo e gli stringe la mano con un impulso che parte da lontano. Si guardano negli occhi, poi per terra e sorridono; lui gli offre la sua lattina di birra, l’uomo delle rose la prende e beve l’ultimo sorso, schiaccia la lata e si alza a buttarla nel cestino della spazzatura. Torna a sedersi. Si guardano ancora con gentile tristezza. L’uomo delle rose lo abbraccia di lato e lui nasconde la testa sulla sua spalla, e l’uomo delle rose gli grata testa, con la mano tra i cappelli lo spettina un po’, glieli tira, poi gli preme la fronte con due dita e fa dei circoli, gli prende il naso la sù dove gli occhi s’incontrano e preme, e quell’uomo alto abbandonato come un bambino a un signore che vende rose, mi fa tanta voglia di piangere.

Piango un’attimo, tanto sono da sola e nessuno guarda niente che non abbia uno schermo. “I barboni non si amano e perciò non possono amare nessuno” mi disse un amico, ed è una riflessione che mi torna ogni volta che ne vedo uno. L’uomo della panchina non sembrava incapace di amare ma travolto da una tragedia con la quale battaglia ogni giorno con tutta la compostezza di cui è capace.

Alza un po la testa e sorride all’uomo delle rose, che togliendo l’abbraccio le da una pacca sulla schiena e un bacio sulla guancia, prende il suo mazzo di fiori e se ne va com’è arrivato, saltellando sulla punta dei piedi.
L’uomo resta ancora lì qualche minuto e dopo se ne va anche lui trascinando il suo carrello.

Devo aspettare un’ora e trovo l'umanità in panchina,  quell'umanità che abbiamo perduto a tutta velocità nelle nostre autostrade mentre chiudevamo i finestrini e accendevamo l'aria condizionata, che sopravvive nonnostate noi e non chiede niente, che aspetta, osserva, consola e abbraccia, che condivide anche se è l'ultimo sorso, che porta rose rosse avvolte in notizie scadute, che trascina una valiggia con l'esenziale e un ricordo,  che ora si alza e cerca un posto dove sopravvivere un’altra notte alla fine di una giornata d’inizio di primavera.

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Mercedes Viola