Il blocco, avvenuto nelle scorse settimane in Texas, evidenzia criticità nella produzione e distribuzione dell’elettricità. Un problema che interessa anche Italia ed Europa. E che le sole fonti rinnovabili per ora non possono risolvere.
Accendere la luce, caricare uno smartphone, avviare un computer. Gesti banali. Soprattutto in Occidente, dove l’elettricità è data per scontata come l’aria o l’acqua. Eppure dietro il semplice movimento di azionare un interruttore si nasconde una complessità crescente che rischia di incepparsi e di farci stare al buio e al freddo.
I segnali non mancano. Il più clamoroso è arrivato dal Texas, uno Stato americano ricco di risorse energetiche e talmente convinto di avere una sufficiente capacità di produzione elettrica da aver deciso storicamente di non collegare la propria rete a quella degli altri Stati. Una scelta dovuta al desiderio, tipicamente texano, di mantenersi indipendenti dalle autorità federali perfino in campo elettrico. Ma l’eccezionale ondata di freddo che ha investito lo «Stato della stella solitaria» a metà febbraio, con temperature di 16 gradi sotto zero, ha paralizzato gli impianti eolici, in quanto non dotati di sistemi anti-ghiaccio, ha bloccato il reattore di una delle due centrali nucleari e ha fermato impianti a gas e a carbone. In quella situazione l’unica soluzione del gestore della rete Ercot (Electric reliability council of Texas) è stata staccare la corrente in alcune aree, lasciando per giorni milioni di persone senza corrente e al gelo. Uno scenario incredibile per un Paese avanzato. Ma assolutamente non straordinario: in agosto, a causa del gran caldo, la California è stata teatro di una serie di blackout programmati che hanno tolto l’elettricità a milioni di famiglie.
Nel caso del Texas i problemi principali sono la mancanza di collegamenti con il resto della rete americana e i modesti investimenti in manutenzione. Nel caso della California c’è invece una spinta eccessiva sulle fonti rinnovabili (soprattutto solare, ma anche eolico) e una scarsità di centrali nucleari o a gas che garantiscono un flusso stabile di energia.
Guai tipicamente americani, si dirà, di un’economia eccessivamente competitiva e poco regolata. Ma anche l’Europa, con tutti i Paesi interconnessi in un’unica rete continentale, sta rapidamente scivolando verso una situazione critica. «Scordiamoci un futuro stabile. Per ora quello che ci salva è la domanda fiacca di elettricità. Se avessimo un’economia che cresce ai ritmi californiani, il sistema europeo sarebbe già collassato» sostiene senza tanti giri di parole Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. «Nei Paesi industrializzati tutti stanno puntando su liberalizzazioni e decarbonizzazione. Due fenomeni che stanno creando seri problemi alla rete elettrica, come quelli che si sono verificati in Texas».
In Europa fino agli anni Novanta l’elettricità era in mano ai monopolisti pubblici, per i quali non contavano tanto l’efficienza o la lotta all’inquinamento quanto la sicurezza della fornitura: quindi sistemi con centrali elettriche grandi, a carbone, a olio combustibile o nucleari, e con un eccesso di capacità di produzione nell’ordine del 20 per cento rispetto al picco di domanda. Con l’avvento prima delle liberalizzazioni e poi della lotta alle emissioni di CO² il panorama è completamente cambiato. «Con le privatizzazioni e l’apertura del mercato alla concorrenza» spiega Tabarelli «sono stati chiusi gli impianti più grandi e inefficienti, mentre la diffusione delle fonti rinnovabili ha moltiplicato in misura incredibile il numero di fornitori di energia elettrica: oggi l’Italia conta un milione di impianti tra fotovoltaici (800 mila), eolici, idroelettrici. In Germania sono un milione e mezzo. Il risultato è che l’eccesso di capacità si è ridotto al 5 per cento scarso e la gestione della rete è molto più complessa. Così, in caso di eventi estremi, il sistema è più fragile».
Un esempio? L’8 gennaio, forse a causa delle temperature rigide, si è verificato un guasto sulle linee elettriche della Croazia che ha rischiato di provocare una serie di blackout e che è stato sventato grazie all’intervento delle società di gestione della rete di Francia e Italia. Racconta Francesco Del Pizzo, responsabile strategie di sviluppo rete e dispacciamento di Terna, la società che governa il sistema elettrico nazionale: «L’8 gennaio è avvenuta quella che in gergo si chiama “separazione”, cioè si sono interrotte a cascata tutte le linee di interconnessione tra l’Europa occidentale e i Balcani. In Croazia sono saltate due linee di interconnessione in simultanea, questo ha provocato un sovraccarico sul sistema che a sua volta ha fatto interrompere altre 13 linee. Con l’effetto di spaccare in due la rete europea con l’Est che stava esportando ed è andato in sovrafrequenza (a 50,7 hertz) mentre l’Occidente stava importando energia».
Le reti di trasmissione devono rimanere a una frequenza di 50 hertz per funzionare senza problemi e qualsiasi sbalzo può danneggiare le apparecchiature collegate. Se le oscillazioni non vengono corrette immediatamente possono provocare l’interruzione progressiva di linee elettriche con un effetto domino.
«In quel momento l’Europa stava consumando 350 gigawatt» ricorda Del Pizzo «e ne ha persi apparentemente pochi, circa 6, ma abbastanza per rischiare un primo blackout continentale seppur a macchia di leopardo. Sono subito (e per subito si intende millisecondi) scattati i meccanismi di difesa che hanno fatto staccare dalla rete alcuni grandi consumatori, i cosiddetti interrompibili». In Italia e in Francia è stata così interrotta temporaneamente la fornitura di elettricità per 1,7 gigawatt a grandi aziende come acciaierie o cementifici che accettano, a fronte di un corrispettivo, di essere staccate dalla rete in caso di emergenza. Un intervento che ha salvato l’Europa da una serie di possibili blackout. E sono stati i francesi e gli italiani a farlo, perché hanno le tecnologie più avanzate per scollegare dalla rete immediatamente e automaticamente in caso di emergenza i clienti selezionati.
L’incidente dell’8 gennaio ha scatenato un acceso dibattito in Germania. L’associazione tedesca delle industrie elettriche ed energetiche (Vik) ha segnalato che «non si deve perdere di vista la questione della stabilità della rete e della sicurezza dell’approvvigionamento. L’8 gennaio deve essere un segnale di allarme per tutti noi. La Germania non deve basarsi sull’approvvigionamento da altri Paesi europei, se non produciamo abbastanza energia».
Un tema che in Italia dovrebbe essere esaminato con grande attenzione. Quando fa freddo importiamo 4 gigawatt e tra i grandi Paesi europei siamo quello con il maggior deficit di potenza installata. Dal 2005 non si investe in nuove centrali e dal 2013 abbiamo dismesso impianti da 14 gigawatt. In più abbiamo come obiettivo al 2025 di chiudere le centrali a carbone e saranno altri 7,2 gigawatt che mancheranno all’appello. Così ci troveremo a dove affrontare una riduzione di capacità termoelettrica nell’ordine dei 20 gigawatt. Se confrontati con la domanda di picco, pari a 60 gigawatt, stiamo parlando di un taglio del 30 per cento. Un buco che le fonti rinnovabili faranno fatica a colmare.
Come uscirne senza finire in blackout? «Bisogna avere fonti programmabili, che consentano di fornire elettricità quando ce n’è bisogno» risponde Del Pizzo. «Per esempio batterie o impianti di pompaggio, cioè invasi di acqua che vengono riempiti utilizzando l’elettricità prodotta in eccesso dalle rinnovabili e che poi producono energia idroelettrica quando necessario. Il punto è che dobbiamo avere una capacità di accumulo sufficiente per gestire un sistema con sempre più fonti rinnovabili non programmabili. Un meccanismo che abbiamo proposto al governo e che è stato approvato anche a livello europeo, incentiva chi vuole investire in nuova capacità programmabile, sia centrali a gas, sia sistemi di batteria, garantendo un contratto di 15 anni con una base di prezzo garantito. Ma dobbiamo anche investire tanto nella rete elettrica che deve essere in grado di gestire un sistema sempre più complesso: entro il 2050 dovremo moltiplicare per tre la dimensione della rete elettrica attuale. Terna ha un piano di sviluppo che vale 15 miliardi di investimenti nei prossimi dieci anni per costruire le reti per la transizione energetica, per la sicurezza e l’intelligenza della rete».
E comunque non illudiamoci: anche tra 20 anni sarà difficile avere un parco di fonti rinnovabili talmente grande da poter coprire l’intera domanda del Paese.