Black Butterfly al cinema: lo scrittore è sotto sequestro - La recensione
Antonio Banderas e Jonathan Rhys Meyers protagonisti di un thriller patologico dove un artista fallito diventa ostaggio di un killer sadico e violento
È fiaccato nel fisico perché beve come una spugna. E lo spirito, devastato, non è da meno, specie da quando la moglie l’ha abbandonato evaporando in un bosco. La creatività, poi, s’è dissolta seguendo il destino della consorte e il suo medesimo, accompagnandolo in un’emigrazione depressiva dalla Spagna al Colorado, dove vive isolato in una baita montana.
Può capitare qualcosa di peggio, rispetto a questa condizione, all’accasciato Paul (Antonio Banderas), scrittore spagnolo dalla penna logora, con un passato ambiguo e fuligginoso protagonista di Black Butterfly (in sala dal 13 luglio, durata 1h 33’)? Sì, può capitare di peggio come racconta la regìa di Brian Goodman. Per esempio che s’imbatta in Jack (Jonathan Rhys Meyers), un killer guizzante e fobico con farfalla nera tatuata sulla schiena che prima gli evita di soccombere ad un camionista nerboruto e rissoso, poi accetta di farsi ospitare a casa sua.
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E la baita del romanziere diventa la sua prigione
Il romanzo forzato È là, nel silenzio verde dell’habitat rupestre, che si consuma il tracciato patologico di un rapporto bizzarro, che pare stringersi come un cappio attorno al collo di Paul: perché l’altro, prendendo lentamente il sopravvento con violenza vischiosa e progressiva, lo costringe, per così dire, al lavoro forzato, obbligandolo a ritrovare lo smalto perduto per scrivere il “loro” romanzo. Cioè la cronaca di quel rapporto fatto di efferatezze e sadismo incontinente, dove lo scrittore finisce per diventare ostaggio: prigioniero del terrore al pari della sua agente immobiliare Laura (Piper Perabo), intrappolata anche lei in quel gioco coercitivo dopo avergli incautamente fatto visita.
Quei “segni” rivelatori disseminati lungo il racconto
Il romanzo nero del romanziere. Quasi ai limiti dell’autogol. Con improvvisata finale, proprio all’apogeo dell’orrore. In un thriller psico-letterario a tensione controllata e progressiva, dove spadroneggia la follia e certi “segni” rivelatori disseminati lungo il racconto restano ben annidati sottotraccia per manifestarsi solo all’epilogo. Frutto di una sceneggiatura furbacchiona con echi alla Stephen King che sembra volersi specchiare nei metodi della sua stessa scrittura. L’atto dello scrivere, d’altra parte, sembra dominare non solo il racconto in sé ma le sue stesse ragioni d’essere all’interno della storia: che è ispirata ad un film francese di qualche anno fa, Papillon noir di Christian Faure con Eric Cantona, proprio lui, l’ex genio e sregolatezza del calcio.
Gli sceneggiatori Marc Frydman e Justin Stanley, comunque, si divertono ad alimentare tensioni , canagliate e perfidie volanti in quella baita carceraria, ben istigati dagli attori capaci di sfoderare convincenti richiami espressivi. Specie nei due antagonisti e in un cast non proprio esteso dal quale però, altra sorpresa, sbuca Abel Ferrara con un imperturbabile cameo.