I termovalorizzatori sono una risorsa per trasformare l’immondizia in energia. In Europa se ne contano centinaia. Ma in Italia c’è chi, ancora, dice «no». Cominciando da Roma…
Se a uno straniero, che magari abita a Copenaghen o a Vienna, gli racconti che a provocare la defenestrazione di Mario Draghi è stato il no dei Cinquestelle a un termovalorizzatore, be’, quello rimane certamente di sasso, visto che nella sua città questi impianti sono in funzione da anni. In effetti l’opposizione all’inceneritore voluto dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri suona incomprensibile, almeno da un punto di vista razionale: questo strumento è un pezzo del ciclo dell’immondizia che parte dalla raccolta, prosegue con gli impianti di riciclo e di trattamento dell’umido e finisce con la gestione dei rifiuti che non possono essere smaltiti e che quindi o vanno in discarica o vanno bruciati.
Oltre a occupare grandi spazi, le discariche entro il 2035 non potranno assorbire in Europa più del 10 per cento dell’immondizia mentre gli inceneritori, che mostrano ormai dati sull’inquinamento estremamente bassi, rappresentano per ora la soluzione più logica per chiudere il ciclo dei rifiuti. Non a caso in Francia ci sono 126 termovalorizzatori, in Germania 96 e in Italia solo 37, soprattutto al Nord, mentre dal Lazio in giù se ne contano appena sette e ce ne vorrebbero almeno altri quattro. Quando all’amministrazione regionale dell’Emilia-Romagna i contestatori degli inceneritori hanno proposto la chiusura di cinque impianti entro il 2027, la risposta dell’assessora all’ambiente Irene Priolo è stata che «è impossibile spegnergli altrimenti dovremo realizzare più discariche, che sono molto più inquinanti». Aprendo una parentesi, c’è da chiedersi se sono più fessi quelli del Nord che accettano senza protestare gli inceneritori o quelli del Sud che non li vogliono, ma è meglio sorvolare.
Chiusa la parentesi, a rendere ancor più antistorica la battaglia contro l’inceneritore di Roma è il tema energetico. Rischiamo un inverno al freddo, stiamo cercando con ogni mezzo di ridurre la nostra dipendenza dagli idrocarburi (quelli russi soprattutto) e i termovalorizzatori possono fare la loro parte, trasformando spazzatura in energia. «Dei 37 impianti attivi in Italia, 35 producono elettricità e 13 anche energia termica» spiega Filippo Brandolini, vicepresidente di Utilitalia, la federazione che riunisce le imprese dei servizi pubblici dell’acqua, dell’ambiente, dell’energia elettrica e del gas. «Questi impianti coprono così circa il 2,2 per cento del fabbisogno nazionale di elettricità. E se si costruissero quelli necessari per soddisfare gli obiettivi dell’economia circolare al 2035, la produzione di tutti gli inceneritori coprirebbe il 3,1 per cento per cento della domanda nazionale di elettricità». A titolo di esempio, in Emilia-Romagna gli impianti di incenerimento producono più del doppio dell’energia necessaria a far funzionare l’illuminazione pubblica dell’intera regione.
A chi ancora sostiene che gli inceneritori sono superati e che quello famoso di Copenaghen con la pista da sci sul tetto non avrebbe abbastanza rifiuti da bruciare, Brandolini di Utilitalia replica ricordando che vari Paesi, come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, stanno realizzando nuovi impianti e che, conoscendo bene l’amministratore delegato di quello nella capitale danese, non gli risultano particolari problemi.
Oltre a produrre elettricità, 13 termovalorizzatori contribuiscono anche a riscaldare case e uffici, permettendo di eliminare migliaia di caldaie e di ridurre così l’inquinamento nelle città. Questi impianti si collegano alle reti di teleriscaldamento, un sistema considerato un po’ una Cenerentola a livello nazionale ma che invece svolge un ruolo importante nell’abbattere le emissioni di CO2 e di polveri sottili, visto che riscaldamento e condizionamento degli edifici rappresentano il 50 per cento dei consumi finali di energia in Italia. A 50 anni esatti dal suo esordio nel nostro Paese, oggi il teleriscaldamento porta l’acqua calda in circa 1,36 milioni di appartamenti e uffici, copre una lunghezza di 4.600 chilometri ed è presente più o meno in 400 comuni: comprese città come Milano, Torino, Brescia, Ferrara e Parma, dove il termovalorizzatore tanto osteggiato dai grillini e poi sponsorizzato dall’ex pentastellato Federico Pizzarotti, è collegato alla rete di teleriscaldamento della città emiliana. Anche il Palazzo di Giustizia e il Duomo di Milano usufruiscono di questo sistema.
«Grazie al teleriscaldamento non si immettono nell’atmosfera 1,7 milioni di tonnellate di CO2» dice Lorenzo Spadoni, presidente di Airu (Associazione riscaldamento urbano). «Se guardiamo ai dati sulle emissioni di polveri sottili e mettiamo a confronto l’intero Piemonte con la città di Torino, nella regione il grosso del Pm10 viene dal riscaldamento, mentre nel capoluogo, dove c’è il teleriscaldamento, l’inquinamento proveniente dagli edifici si abbatte quasi del tutto». Ad alimentare il teleriscaldamento sono principalmente tre fonti. Le prime sono le centrali elettriche di cogenerazione, che oltre a produrre elettricità recuperano il calore della combustione degli idrocarburi e lo cedono alla rete di acqua calda. Queste coprono oltre il 50 per cento dell’energia termica. C’è poi un gruppo di fonti formato da termovalorizzatori, geotermia, impianti industriali energivori come acciaierie e vetrerie che contribuiscono con circa il 25 per cento. Infine, ci sono impianti gestiti dalle società energetiche che hanno come scopo principale quello di scaldare l’acqua per la rete di teleriscaldamento e che utilizzano combustibili tradizionali e biomasse. I cittadini e le aziende che vengono serviti da queste reti non sono dunque del tutto al riparo dall’andamento dei prezzi dell’energia, ma ne subiscono i rincari in misura ridotta.
In teoria ovunque il calore viene dissipato da un’attività industriale, potrebbe essere recuperato, usato per riscaldare case e uffici e contribuirebbe a diminuire le emissioni climalteranti e la dipendenza energetica. Sono richiesti forti investimenti, ma ci sono Paesi come appunto la Danimarca dove il teleriscaldamento arriva a coprire l’80 per cento delle abitazioni e degli uffici, altri come la Francia o la Germania che si assestano sul 15 per cento, mentre noi siamo intorno al 3 per cento. «Il potenziale di sviluppo del teleriscaldamento è elevato» sostiene Spadoni. «Potrebbe riscaldare o provvedere al conzionamento all’equivalente di 5-6 milioni di appartamenti e ridurre il consumo di 2,3 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Peccato che in Italia il questo sistema termico sia poco considerato e di conseguenza poco incentivato». Tornando a Roma, una rete di teleriscaldamento collegata al termovalorizzatore permetterebbe non solo di riscaldare interi quartieri, ma anche di raffrescarli d’estate. Ma cerca di farlo capire ai grillini rimasti in trincea.
