Home » L’italia? È rimasta senza acqua

L’italia? È rimasta senza acqua

L’italia? È rimasta senza acqua

Oggi il Po fa registrare fino all’80 per cento in meno della sua normale portata. Intanto, sono fermi i lavori per realizzare nuovi invasi che raccolgano le precipitazioni. Ecco che per la prossima estate si annuncia già una nuova emergenza idrica.La neve e le piogge di queste settimane non devono trarre in inganno.


La siccità continua ed è preoccupante soprattutto perché si manifesta in un periodo dell’anno in cui dovrebbero ricostituirsi le riserve idriche necessarie per affrontare i mesi estivi. L’Osservatorio dell’Anbi, l’Associazione nazionale consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue, ha lanciato l’allarme sul dramma del Po. Dall’ultimo rapporto emerge la situazione di «crisi idrica endemica» al Nord, mentre al Centro-sud riappare lo spettro delle alluvioni anche se nemmeno le regioni del Mezzogiorno possono dirsi al sicuro dalla siccità dal momento che non riescono a immagazzinare l’acqua piovana. In Piemonte tutti i fiumi si stanno prosciugando, ma «è il Po a rappresentare meglio l’immagine di una crisi idrologica senza fine» afferma l’Anbi. L’ex Grande fiume ha una portata inferiore a quella dello scorso anno.

A Torino, il deficit si attesta attorno al 50 per cento, ma in altre stazioni di rilevamento supera addirittura l’80 per cento, prolungando tale condizione in Lombardia ed Emilia-Romagna dove, a Piacenza, registra nuovi minimi storici. Francesco Vincenzi, presidente dell’associazione, sottolinea che «la critica condizione idrica del Po si trascina da dicembre 2020 e condiziona pesantemente la situazione della Pianura padana, che è la “food valley” principale dell’agroalimentare made in Italy». I grandi laghi del Nord hanno livelli abbondantemente sotto la media.

L’acqua contenuta nel Garda è dimezzata rispetto a un anno fa. La portata del fiume Adda ha il livello più basso degli ultimi anni, compreso il 2017, anno di grave siccità. Anche l’Adige ristagna e la Livenza registra il decremento più vistoso: -86 centimetri in una settimana. La neve caduta questo mese rappresenta davvero una goccia nel deserto. Ha solo lievemente rimpinguato le riserve idriche cresciute di quasi il 6 per cento sul 2022, ma inferiori alla media del periodo del 47,2 per cento. Solo la Valle d’Aosta, si legge nel rapporto dell’Anbi, ha beneficiato delle precipitazioni e la portata della Dora Baltea è aumentata di quasi cinque volte rispetto alla media storica di gennaio. Ma si tratta, appunto, di un’eccezione. Altrove alluvioni ed esondazioni. Nelle Marche i fiumi ingrossati sono al limite, in Campania si sviluppano «bombe d’acqua» quando nell’arco di 24 ore precipitano circa 100 millimetri di pioggia, poi ci sono alluvioni nel Casertano e nel Beneventano con lo straripamento dei fiumi Calore, Sarno e Volturno, il cui livello è cresciuto di oltre 6 metri in 2 giorni. Ma anche in questi casi l’acqua si disperde e non si trasforma in «tesoretto» per i periodi estivi di magra.

In Sicilia c’è il paradosso che occorre svuotare i bacini delle dighe perché quando si riempiono oltre una certa soglia non riescono a reggere la pressione. E mentre la primavera si avvicina, il Servizio meteorologico nazionale del Regno Unito (Met) ha lanciato l’allarme, prevedendo un aumento complessivo della temperatura globale tra 1,08 e 1,32 gradi, con un valore medio di 1,2 gradi in più. Questo vuol dire che il 2023 potrebbe essere uno degli anni più caldi mai registrati. Non è una novità, già l’estate scorsa è stata torrida, ma anche questa volta il cambiamento climatico, nonostante gli annunci e le avvisaglie, rischia di trovarci impreparati. L’Italia sconta infrastrutture insufficienti e vetuste. Un problema che in anni passati non è mai stato un’emergenza, perché coperto da precipitazioni copiose, e semmai interessava aree limitate del Paese, specie nel Mezzogiorno, in poche settimane l’anno.

Ma da quando il cambiamento climatico da bizzarria episodica è diventato una realtà con cui dover fare i conti, il tema delle infrastrutture colabrodo s’impone come priorità. Invasi gruviera, miliardi di litri d’acqua che finiscono in mare invece di irrigare le campagne riarse dal sole, dighe abbandonate o con «lavori in corso» da oltre un secolo. Ancora: condutture invecchiate che perdono per mancanza di manutenzione, reti idriche interrotte. Per fare un esempio: quando un rubinetto perde acqua per una guarnizione logora, riesce a sprecarne circa 10 mila litri in un anno. Figurarsi gli acquedotti che hanno oltre mezzo secolo di vita. Il 60 per cento ha più di 30 anni e il 25 per cento oltre 50.

A questa situazione si aggiungono i veti ambientalisti. A Rimini i movimenti green hanno contestato le proposte di Romagna Acque per gli invasi appenninici mentre in Piemonte, sempre gli ultrà dell’ambiente hanno protestato contro il progetto di una nuova diga in Valsessera, un’opera strategica per le risaie, già bloccata tra il 2014 e il 2017 da un contenzioso locale. In Val d’Enza, tra Parma e Reggio-Emilia, il progetto della diga è fermo da ben 162 anni. Se ne parla dal 1860 e i primi lavori risalgono al 1988 ma presto si interruppero, per tutelare la presenza in quell’area, della lontra. Oggi il bacino potrebbe alimentare i prati foraggieri della filiera del Parmigiano Reggiano e produrre energia elettrica. Ecco la situazione del nostro Paese. «È necessario realizzare il piano invasi per aumentare la raccolta di acqua piovana, che oggi arriva ad appena l’11 per cento» dice il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini. Le risorse non mancano. Ci sono i fondi del ministero degli Affari europei e delle politiche di coesione. E poi c’è il capitolo all’interno del Pnrr con 880 milioni di euro, dedicato a opere di ammodernamento e di efficientamento della rete irrigua esistente.

Coldiretti, insieme ad Anbi, ha presentato un piano per la realizzazione di 10 mila laghetti artificiali di piccola e media dimensione da attivare entro il 2030 che consentirebbe di alzare la percentuale di acqua piovana raccolta da quell’11 per cento al 30-35 per cento. Il 60 per cento di questi invasi è realizzato da privati con cofinanziamento pubblico. La prima tranche ammonta a circa 3,2 miliardi di euro. Il programma però procede a rilento. I primi 223 progetti sono già esecutivi, ma rappresentano poco più del 2 per cento degli interventi previsti. Il direttore generale di Anbi, Massimo Gargano, spiega che è fondamentale l’attenzione delle istituzioni e degli enti locali «per dare una forte accelerazione e arrivare a raccogliere l’acqua nel corso dell’anno per renderla disponibile nei periodi in cui c’è invece carenza». Il piano avrebbe un ritorno in termini occupazionali: si calcolano 16 mila nuovi posti di lavoro. Inoltre sia Anbi sia Coldiretti sottolineano la neutralità dell’impatto ambientale in quanto non si prevede la costruzione di dighe che sarebbero fortemente osteggiate dagli ambientalisti con notevoli ritardi od ostacoli nella realizzazione.

Piuttosto verrebbero utilizzate le vecchie cave abbandonate, trasformate spesso in discariche a cielo aperto, e le cosiddette «casse di espansione», cioè le aree ai margini dei fiumi che la piena sommerge. Quest’ultime potrebbero essere strutturate in modo tale da conservare l’acqua e trasformarsi in oasi naturalistiche con riserve idriche dalle quali attingere. Gli invasi inoltre si prestano allo sfruttamento energetico. Il progetto prevede che si possano installare pannelli fotovoltaici galleggianti o utilizzare i salti d’acqua. Il «piano dei laghetti» è un passo in avanti ma non basta. Ci sono situazioni di opere avviate e mai terminate o in disuso perché senza manutenzione. L’Italia conta 90 bacini idrici, la cui capacità è ridotta di oltre il 10 per cento, perché interrati, o perché ricolmi di sedimenti portati da fiumi e torrenti.

Per ripulirli, dice Gargano, occorrerebbero quasi 291 milioni di euro ma poi si disporrebbe di un enorme serbatoio idrico. C’è inoltre l’anomalia di 16 bacini incompiuti. Per essere completati si calcola che servirebbero circa 451 milioni di euro, e si attiverebbero oltre 2.200 posti di lavoro. Nell’Italia dei paradossi, esistono casi come la diga del Pappadai, in provincia di Taranto, un’opera idraulica mai utilizzata. Potrebbe convogliare il corso del Sinni e distribuire 20 miliardi di litri di acqua per uso potabile e irriguo invece di ricorrere a pozzi e autobotti.

© Riproduzione Riservata