Tutti a porgere il braccio, certo. Restano però tante perplessità: se gli effetti collaterali in fondo sono un buon segno, se le cellule immunitarie così addestrate ci proteggeranno per pochi o tanti mesi, se nel 2022 dovremo rimetterci in coda e aspettare il nostro turno… Ecco tutte le risposte.
Dateci tempo. Tra qualche mese, al posto degli attuali convenevoli pandemici, ossia «quando?» (ti sei prenotato/vaccinato/richiamato) e «quale?» (AstraZeneca, Pfizer, Moderna…), la domanda chiave sarà: «quanti?». Quanti anticorpi hai sviluppato? Con tutte le fantasiose varianti del caso: io ho fatto il test e ne ho tantissimi, mio cognato non li ha ancora sviluppati, il mio collega dopo il richiamo ne ha giusto una manciata, pensa un po’.
E così, oltre alla spilletta gadget che ci regalano una volta immunizzati, la conta degli anticorpi sarà il nuovo status symbol, la conferma che il nostro sistema immunitario è ormai addestrato, armato e bellicoso come un soldato al fronte.
Salvo imprevisti. Le percentuali di efficacia dei due vaccini più usati in Italia, Pfizer e AstraZeneca, sono notevoli: dopo la seconda dose il primo protegge al 96 per cento, il secondo all’85 per cento (e lo stesso vale per il monodose Johnson & Johnson). Leggendoli all’inverso, significa tuttavia che quattro persone su 100 fra chi si è immunizzato con il siero a Rna, e 15 su 100 fra chi ha ricevuto quelli ad adenovirus, non risultano altrettanto al riparo. Sono i cosiddetti «non responders».
E però come facciamo a saperlo? Tutti a fare il test anticorpale dopo il richiamo, come un album immunologico delle figurine da confrontare a vicenda? Intanto, va chiarita una cosa, premette Francesco Broccolo, virologo dell’Università di Milano: «L’efficacia dei vaccini dichiarata dalle aziende si riferisce alla protezione dalla malattia severa, finora sono pochissimi gli studi che hanno quantificato gli anticorpi. Comunque, chi risponde meno al vaccino sono soprattutto i trapiantati, i dializzati, gli oncologici, le persone con malattie autoimmuni e in cura con farmaci immunosoppressivi. In questi pazienti, sono dati non ancora pubblicati che le anticipo, addirittura il 50 per cento può risultare negativo alla ricerca degli anticorpi contro il Covid. O negativizzarsi dopo dopo pochi mesi, come nel 5 per cento dei dializzati. Mescolati alla popolazione sana, fanno alzare la media».
Difficile insomma, a meno di non rientrare in uno di questi gruppi, che le difese immunitarie non vengano sollecitate. Al netto delle categorie già citate, succede nel due per cento dei casi, probabilmente a causa di fattori genetici ancora sconosciuti. Qualche giorno fa, però, la lettera di una farmacista al Corriere della Sera qualche dubbio lo sollevava: «Ho fatto il vaccino AstraZeneca, dopo cinque settimane ho ritenuto opportuno sottopormi al test ematico per gli anticorpi. Risultato: neanche uno! Possibile che nessun medico, struttura, organo competente valuti il mio caso?».
Calma. Intanto, la conta degli anticorpi fra una dose e l’altra ha pure poco senso. È abbastanza normale – dicono gli esperti – che se ne stiano «acquattati» per poi balzare in alto dopo il richiamo. Se è vero, come dimostra un nuovo studio su Nature medicine, che una soglia elevata di anticorpi neutralizzanti (dopo il vaccino o la malattia) può predire il livello di immunità acquisita, il loro semplice appello non racconta tutta la storia, né rende conto della complessità delle difese del nostro organismo.
La risposta immunitaria totale contro un’infezione, continua il virologo, comprende anche la mobilitazione dei linfociti T, un’altra fondamentale linea di difesa. «I test quantificano gli anticorpi neutralizzanti, importantissimi perché mirati contro il virus» spiega Broccolo. «Sono come proiettili che distruggono il nemico. Ma esistono anche le pattuglie di linfociti T, che sono un po’ come la polizia: non sparano contro il virus ma, se entra nell’organismo, ne impediscono la replicazione distruggendo le cellule infettate».
Entrando nel dettaglio, visto che negli hub vaccinali veniamo divisi in «pfizerizzati» e «astrazenecati»: il siero a Rna sollecita maggiormente i «proiettili» (con Pfizer il loro titolo anticorpale supera i mille, con AstraZeneca è più basso, intorno ai 100); mentre quello ad adenovirus punta in modo molto forte sulla «polizia» (i linfociti T). «In tanti mi chiamano preoccupati perché, dopo AstraZeneca, dicono di avere pochi anticorpi. Io rispondo sempre “non si disperi, avrà certamente sviluppato di più la risposta dei linfociti T”». Per i quali non esistono ancora test di routine, li fanno solo nei grandi centri di ricerca (si chiamano Elispot o Igra test).
Aggiunge l’immunologo Mario Clerici, Università di Milano e Fondazione Don Gnocchi: «Dati di adesso mostrano che anche i vaccinati privi di anticorpi hanno un buon livello di linfociti T. Il test dopo il vaccino si può fare per tranquillità personale. Ma tenendo presente che la risposta immunitaria comunque c’è. Per esempio, una percentuale di chi si è vaccinato per l’epatite B non sviluppa anticorpi, però si è visto che risulta protetta proprio grazie ai linfociti T».
Altra domanda ricorrente tra i neofiti della vaccinazione anti-Covid (tutti noi): perché, dopo la prima o seconda dose, io ho avuto tre giorni di febbre a 39, dolori articolari e la sensazione di aver preso un pugno in faccia, mentre lui, o lei, non ha fatto un plissé? Per consolarci, ci diciamo che gli effetti collaterali dopo l’iniezione sono la conferma che la fabbrica degli anticorpi si è messa in moto.
Ammesso che sia vero, ci coglie il dubbio che, se la puntura è passata «inosservata», la fabbrica non stia lavorando così alacremente… Al di là delle reazioni individuali, estremamente variabili, chi ha ricevuto il siero ad adenovirus ha sperimentato più spesso episodi febbrili: il motivo, spiegano i medici, è che questo tipo di vaccino mette in circolo una quantità maggiore di citochine (e, fra queste, le interleuchine) che fanno alzare la temperatura corporea; molecole cruciali per la risposta dei linfociti T, che è appunto quella più sollecitata dal vaccino di AstraZeneca.
Se la febbre indica che gli anticorpi sono effettivamente in produzione, la sua eventuale assenza non significa affatto il contrario. «Io non ho avuto alcun tipo di sintomo o effetto collaterale, ma sono pieno di anticorpi. Lo so perché rientro in un protocollo di studio post-vaccino, ho sia linfociti T che anticorpi neutralizzanti pronti a sparare» risponde Clerici.
Ma questo splendido arsenale contro il coronavirus, alla fine, quanto dura? Se dopo un certo periodo il Sars-CoV-2 si rifarà un altro giro in mezzo agli umani, saremo indifesi come prima? A distanza 7-8-10 mesi gli anticorpi neutralizzanti scendono, certo. Rimane però l’«immunità di memoria» che, come indica la parola, è lì per ricordare. E reagire di conseguenza. «È fisiologico, del resto» precisa Clerici. «I proiettili, cioè gli anticorpi, vengono sparati finché c’è il nemico, poi basta. La gente si spaventa ma non c’è motivo. Ad affrontare l’eventuale comparsa del virus, anche con anticorpi diminuiti, saranno i linfociti di memoria, pronti a produrne di nuovi in caso di necessità». In questo caso ci si potrà magari riammalare, però non in modo grave. Così come, con un pizzico di sfortuna, il contagio è possibile anche dopo la seconda dose del vaccino, quale che sia. Ma con una malattia assai meno severa. E con una carica virale più debole, dal momento che il sistema immunitario in qualche modo tiene a bada il virus, sarà meno probabile anche un ipotetico contagio.
Mentre aspettiamo il nostro turno per la prima o la seconda iniezione, senza stressarci troppo per la conta degli anticorpi, sappiamo però che l’anno prossimo potremmo tornare alla casella di partenza: una seconda campagna di immunizzazione, forse, non ce la toglierà nessuno. «Ciò che succederà nel 2022 è una questione molto dibattuta» riflette Clerici. «Io non sono affatto certo che dovremo nuovamente vaccinarci. Secondo me, potrò sbagliare perché nessuno ha la palla di vetro, una campagna di immunizzazione potrebbe bastare, con due dosi saremo protetti a lungo». Ma come, e tutte le varianti che spuntano come funghi? «Sì, ma questi vaccini hanno dimostrato di essere efficaci anche nei confronti dei ceppi mutati. E le varianti emerse in fondo sono poche, se confrontate all’enorme diffusione del coronavirus. Che ha un genoma grosso, complesso e abbastanza stabile. È ormai endemico, certo. Ma se anche dovesse continuare a circolare fra una certa percentuale di individui non vaccinati, finirà disperso all’interno di una popolazione protetta dall’immunità di gregge. È successo per tanti virus, a un certo punto si attenuano e non fanno più danni. Non li vedi più. Sono fiducioso che accadrà così anche con questo».
