Home » Mal di brevetto

Mal di brevetto

Mal di brevetto

Bruxelles vuole imporre nuove norme per la vendita dei medicinali, tra cui accorciare la durata dell’esclusività di mercato dei farmaci. Ma così facendo si scoraggiano gli investimenti sulla ricerca. Penalizzando sia le aziende europee sia i consumatori.


Dopo le auto, le case, l’agricoltura, l’alimentare, un altro settore industriale è vittima della politica di Bruxelles. La Commissione europea ha varato una normativa che, con l’intento di favorire i farmaci generici, accorciare le procedure autorizzative per la vendita dei medicinali e di abbassarne i prezzi, rischia tuttavia di trasformarsi in un boomerang penalizzando l’intera industria farmaceutica europea, compresa quella italiana. Se le proposte legislative supereranno l’esame delle varie istituzioni (ora sono all’Europarlamento) dovranno essere adottate dai singoli Paesi. La conseguenza, evidenziata da Farmindustria, sarà di favorire i concorrenti soprattutto americani e cinesi, che potrebbero assorbire una buona quota dei 1.600 miliardi di dollari di investimenti previsti da qui al 2028, a livello internazionale, per scoprire nuovi principi attivi. Per il sistema Europa sarebbe una sconfitta.

Veniamo al punto. La riforma voluta dalla Commissione Ue prevede la riduzione dei brevetti, per i nuovi farmaci, dai 10 anni attuali a 8, cioè 6 anni di protezione dei dati (oggi sono 8) e altri 2 anni di esclusiva di mercato. I tempi di autorizzazione diventeranno più veloci, dicono a Bruxelles. Le procedure dell’Ema (l’Agenzia europea del farmaco) si esauriranno in 180 giorni dagli attuali 400. Si punta a snellire l’iter per l’immissione sul mercato soprattutto dei medicinali generici. E poi la digitalizzazione delle informazioni elettroniche sui prodotti, compreso il bugiardino (ma questo non aiuterà gli anziani, i maggiori fruitori di medicinali ma poco pratici con la tecnologia). Non poteva mancare una nota green: una terapia avrà più possibilità di essere approvata se dimostrerà un basso impatto ambientale.

La Commissione sottolinea che tagliare la durata dei brevetti e velocizzare l’approvazione dei medicinali non comprometterà gli elevati standard di qualità, sicurezza ed efficacia dei prodotti. L’obiettivo, come si diceva, è incoraggiare l’ingresso dei farmaci generici o biosimilari, che hanno costi più bassi. Ma questo meccanismo, se da un lato viene incontro al consumatore, dall’altro allontana gli investimenti delle Big Pharma. Scoprire e sviluppare una nuova molecola costa molto e un’esclusiva più lunga sul mercato è un incentivo importante. Già oggi, su 10 medicinali autorizzati dall’Ema, oltre 5 sono americani, 2 cinesi e il resto arriva dall’Europa. E i dati sugli investimenti in ricerca e sviluppo dimostrano che già oggi il vecchio continente fatica a stare dietro ai competitor. Mentre nel 2001 Stati Uniti ed Europa erano quasi appaiate (44 per cento contro 41 per cento) vent’anni dopo gli Usa attirano il 52 per cento degli investimenti contro il 31 della Ue, tallonata da Cina e Giappone al 17 per cento.

Bisogna anche dire, come dimostra uno studio condotto da un gruppo di economisti e pubblicato sul British Medical Journal, che le multinazionali da tempo spendono molto più in pubblicità e marketing che in ricerca. Dall’analisi dei dati delle 15 maggiori aziende biofarmaceutiche al mondo dal 1999 al 2018, è emerso che su un fatturato di 7.700 miliardi di dollari, 2.200 sono andati in attività di «vendita, generali e amministrative», marketing e pubblicità compresi e 1.400 in ricerca e sviluppo. Ma è anche vero che quest’ultima voce, negli anni, è andata sempre aumentando. E le misure della Commissione, circoscritte all’Europa, la renderebbero poco attrattiva per gli investimenti che si sposterebbero altrove.

La proposta di Bruxelles prevede la possibilità di estendere l’esclusiva a 12 anni, ma con condizioni che difficilmente possono realizzarsi. Una di queste è l’obbligo di garantire l’accesso al nuovo medicinale in tutti e 27 mercati europei. Però ogni Paese dell’Unione ha un sistema diverso sulla negoziazione dei prezzi e sui criteri di rimborsabilità, il che rende arduo ottenere il prolungamento del brevetto. La riforma prevede anche una serie di incentivi per allungare la tutela del brevetto oltre gli 8 anni fissati: se il farmaco risponde a un’esigenza medica insoddisfatta come la ricerca sugli antibiotici o sulle malattie rare, nel caso in cui vengano effettuate sperimentazioni cliniche controllate, oppure se il principio attivo è efficace per altre malattie oltre all’indicazione principale. Ma è un sistema macchinoso e che moltiplica la burocrazia.

Stefan Oelrich, responsabile delle attività farmaceutiche di Bayer, sostiene che la riforma «potrebbe avere un impatto catastrofico per l’Europa». E Nathalie Moll, direttore generale dell’Efpia (la Federazione europea delle Associazioni e industrie farmaceutiche) ha sottolineato che il rischio per la Ue è di «diventare semplicemente consumatrice dell’innovazione medica fatta altrove, mentre i pazienti dovranno aspettare a lungo per ottenere i più recenti progressi nelle cure».

In Italia c’è naturalmente la levata di scudi da parte di Farmindustria, con il presidente, Marcello Cattani, che parla di «conseguenze pesantissime sulla competitività e l’attrattività dell’industria farmaceutica e quindi sugli investimenti e sull’occupazione. Con il rischio di vedere arrivare prima i nuovi farmaci e vaccini nei Paesi che garantiscono un quadro più favorevole». Negli Stati Uniti, per fare un esempio, il periodo di esclusiva oscilla tra i 10,5 e i 12,5 anni, a fronte dei 6+2 dell’Europa. «È evidente» continua Cattani «il vantaggio dei Paesi extra Ue che hanno adottato politiche fortemente incentivanti negli ultimi 20 anni, mentre l’Europa nello stesso periodo ha perso un quarto degli investimenti in ricerca. I danni maggiori li avranno gli Stati con più alta presenza industriale come Italia, Germania, Francia e Danimarca, tutti pronti a dar battaglia.

Il nostro Paese ha una posizione di leadership in Europa con circa 183 aziende aderenti a Farmindustria, 49 miliardi di produzione, 47,6 miliardi di export e 3,2 miliardi di investimenti (in produzione 1,4 e in ricerca e sviluppo 1,8) in crescita del 15 per cento in 5 anni. Nel settore sono occupati oltre 68 mila addetti che diventano 150 mila includendo i fornitori. Ogni anno vengono investiti in studi clinici, svolti prevalentemente nelle strutture del Servizio sanitario nazionale, 700 milioni di euro. Numeri che danno la misura della posta in gioco. Il ministro agli Affari europei, Raffaele Fitto, ha già manifestato la contrarietà dell’Italia alla nuova normativa. Anche l’Ema è scesa in campo sottolineando che in questo modo (contrariamente a quanto si dichiara) aumentano incertezza e burocrazia: i primi nemici di chi investe. Le uniche reazioni positive vengono dalle associazioni dei consumatori, che accolgono la possibilità di «rendere più facile e veloce per i pazienti l’accesso a farmaci generici più economici».Vantaggi però illusori, secondo gli industriali, perché questo clima sfavorevole agli investimenti porterà a «un minore accesso alle cure e all’innovazione».

© Riproduzione Riservata