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La nuova frontiera dei trapianti

La nuova frontiera dei trapianti

Il 2022 in Italia è stato un anno record per le donazioni di organo. E oggi siamo ai primi posti in Europa per qualità (e complessità) di interventi: da Bergamo a Catania, ecco che cosa avviene in sala operatoria.


E’ sempre, alla fine, una storia di «destini incrociati». La morte, la vita: da un lato la sofferenza di chi perde i propri cari e riesce comunque a dare un senso all’angoscia, dall’altra la gioia di chi riceve un regalo che vuol dire anni e anni di possibilità davanti a sé. La trapiantologia, eccellenza italiana: lungi dall’essere solo tecnica, solo medicina, è un insieme di etica, dolore, speranza, altruismo.

Il 2022, per i trapianti, è stato nel nostro Paese un anno record: le donazioni di organi solidi sono state 1.830 (1.461 da donatori deceduti e 361 da viventi), mai così tante. Questi numeri, che fanno segnare un +3,7 per cento rispetto al 2021 e il superamento dei dati pre-Covid, ci pongono all’avanguardia in Europa, dietro la Spagna e insieme alla Francia. Restano però grandi differenze regionali, con ottime performance al Nord e numeri bassi al Sud, dove cresce l’opposizione alla donazione: i No pronunciati dai familiari alla richiesta di donare gli organi dei propri cari in stato di morte cerebrale.

Dietro questi numeri ci sono équipe che lavorano giorno e notte, con risultati che ci pongono all’avanguardia: è a Bologna che è stato fatto il primo trapianto al mondo di vertebre, a Torino si è dato inizio in Europa ai «combinati» di quattro organi (polmoni, fegato e pancreas), a Padova è stato trapiantato per la prima volta nella storia un fegato su un paziente con metastasi epatiche inoperabili; così come è interamente italiana la tecnica dello «split liver», grazie alla quale un unico fegato viene diviso in due per impiantare la parte più grande a un adulto, la più piccola a un bambino.

Sono solo esempi, dietro ai quali si celano eccellenze, anche dove meno te le aspetti: proprio dal sud dell’Italia, che vede scendere i numeri dei donatori, arriva la storia forse più bella degli ultimi anni di trapiantologia. Al Policlinico G. Rodolico di Catania, struttura che fa parte della rete trapianti assieme al più conosciuto Ismett di Palermo, è accaduto solo pochi mesi fa quello che potrebbe suonare come un miracolo e invece è un risultato della perseveranza e della tecnica: «Il nostro è l’unico centro in Italia e uno degli unici cinque o sei al mondo autorizzato ai trapianti di utero» afferma Pierfrancesco Veroux, direttore del Centro Trapianti dell’ospedale etneo. «Finora ne abbiamo eseguiti tre, e lo scorso settembre la prima donna trapiantata (l’intervento era stato eseguito nell’agosto 2020, ndr) ha dato alla luce una bambina, Alessandra. L’idea che l’utero di una donna deceduta sia stato in grado di dare la vita una volta trapiantato nel corpo di un’altra signora, è qualcosa di indescrivibile, che travalica i confini della scienza e tocca le corde più profonde della nostra emotività».

Non si spiegherebbe altrimenti la commozione che ancora adesso traspare dallo sguardo del professore per questo intervento, frutto della collaborazione con un altro ospedale della città, il Cannizzaro, e con il direttore dell’Unità di Ostetricia e Ginecologia, Paolo Scollo: il trapianto è stato complicatissimo, ha richiesto tre anni di trafila burocratica per le autorizzazioni e un’operazione durata – tra prelievo e trapianto – quasi 24 ore con la presenza di 25 tra chirurghi, anestesisti e addetti alla sala. «L’utero è un organo molto vascolarizzato» spiega Veroux «e tecnicamente è assai complesso trapiantarlo. Inoltre è un intervento anomalo rispetto a tutti gli altri, perché non serve a salvare una vita bensì a mettere le donne in condizione di poterla dare. Ha implicazioni etiche fortissime: si va a operare una persona sana, che si espone a rischi molto alti nella speranza di poter avere un figlio. Ma siamo ormai al terzo trapianto perfettamente riuscito, con già una gravidanza portata a termine felicemente. Abbiamo altre sette pazienti già in lista d’attesa, con richieste che arrivano da tutta Italia».

Peccato che proprio l’Isola sia fanalino di coda in termini di donazioni: «La Sicilia sta facendo un grande lavoro di sensibilizzazione» dice Giovanna Amato, psicologa del Centro Regionale Trapianti siciliano. «Bisogna però tener conto del fatto che noi psicologi, insieme a tutta l’equipe, interveniamo, parlando con i parenti del potenziale donatore, in una situazione drammatica: nelle sale rianimazione, dove la gente è disperata perché sta perdendo i propri cari. In poco tempo devono prendere una decisione difficilissima, mentre entrano in gioco sentimenti di dolore, rabbia, conflittualità, colpa, non accettazione».

E c’è anche, purtroppo, la sfiducia nella scienza: cresciuta in maniera esponenziale dopo il Covid, in una regione come la Sicilia che – non è un caso – è tra le meno vaccinate d’Italia. All’estremità opposta della penisola, all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, il 2023 è iniziato con un altro record: l’equipe guidata da Michele Colledan, direttore del Dipartimento di Insufficienza d’organo e trapianti, ha eseguito pochi giorni addietro il primo trapianto in Italia di polmone da donatore vivente, su un bambino di cinque anni. Il lobo polmonare gli è stato donato dal padre. «Tecnicamente, saremmo stati pronti a compiere questo tipo di intervento, come immagino altri centri, già da diversi anni» spiega Colledan «ma il trapianto di polmone da donatore vivente non viene attuato in Europa e in Italia. Si tratta infatti di una procedura molto complessa, che coinvolge in genere due donatori, perfettamente sani, che corrono il rischio di un intervento chirurgico maggiore per un ricevente le cui probabilità di successo a lungo termine sono decisamente inferiori che con il trapianto di altri organi. Questo perché nel polmone il rigetto cronico è particolarmente frequente e poco controllabile: il rapporto rischio/beneficio è quindi meno favorevole».

Stavolta, invece, al Papa Giovanni XXIII avevano la situazione «perfetta» per l’intervento: un bambino che aveva già ricevuto dal padre il midollo per una patologia ematologica e quindi, avendo lo stesso sistema immunitario del genitore, non rigetterà l’organo. Lo sforzo organizzativo e operatorio è stato immane: due chirurghi hanno lavorato sul donatore, tre sul ricevente, più i cardiochirurghi che hanno gestito l’Ecmo (la tecnica di ossigenazione extracorporea a membrana, ndr), anestesisti, infermieri di sala, strumentisti, tecnici per la perfusione, per ore e ore di lavoro e ansia. «E questo solo dentro la sala» continua Colledan «ma in caso di trapianti così complessi, fuori c’è tutto l’ospedale che lavora per il risultato; dal laboratorio di analisi alla banca del sangue, fino alle terapie intensive». Il trapianto è stato effettuato il 17 gennaio: il padre è uscito dall’ospedale dopo nemmeno una settimana di degenza, il piccolo è ancora in terapia sub intensiva ma è già staccato dall’Ecmo e dal respiratore: «È ancora presto per dire come evolverà la situazione» conclude il primario «ma finora tutto è andato per il verso giusto». Come per la piccola Alessandra, nata a Catania, che oggi ha cinque mesi, e domenica scorsa è stata battezzata. Al suo fianco, impegnandosi a sostenerla per tutta la vita, c’erano i professori Scollo e Veroux: perché in fondo un trapianto non è solo medicina.

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