Peter Gabriel torna con un disco e un tour dopo vent’anni di silenzio. E come lui, tante altre «vere» rockstar sono di nuovo in scena. Si scopre così perché l’assenza fa brillare molto più della presenza
Peter Gabriel è un artista che sa vivere il silenzio e la distanza dalle luci della ribalta, che non sente l’urgenza di riempire a ogni costo il vuoto quando non è in tour o non ha un nuovo disco da far ascoltare. Per vent’anni non ha inciso un album di canzoni inedite, negli ultimi sette non si è mai esibito dal vivo. Ha vissuto, ha viaggiato, si è goduto la famiglia. Non abbiamo saputo dov’era, che cosa mangiava, se aveva deciso di farsi tatuare o di seguire un corso di mindfulness. È la separazione, ormai sconosciuta in questo tempo, tra la dimensione privata e quella pubblica. Una scelta esistenziale ma anche artistica, nella consapevolezza che una bella canzone o un disco ispirato arrivano al pubblico anche se li scrivi a settant’anni.
Oggi Gabriel di anni ne ha 73: il nuovo disco (I/O) è in fase di pubblicazione, anticipato da una manciata di canzoni in preview che stanno piacendo molto e hanno riallacciato in pochi istanti l’antico legame con il pubblico che lo ha sempre seguito, prima come cantante dei Genesis e poi come artista solista. Lo stesso pubblico che in poche ore ha acquistato tutti i biglietti disponibili per le due date italiane, il 20 maggio all’Arena di Verona e il 21 maggio al Mediolanum Forum di Assago (Milano). L’assenza fa risplendere la presenza: è questo il segreto degli artisti che hanno una carriera, che non hanno una data di scadenza. Ieri come oggi. Se i Led Zeppelin, dopo la morte del batterista John Bonham nel 1980, si fossero messi a girare il mondo rifacendo sé stessi in maniera seriale adesso sarebbero considerati poco più di una cover band. Invece, il fatto che negli ultimi quarant’anni si siano esibiti tre o quattro volte, e solo in occasioni speciali, li ha trasformati in leggende viventi.
Diversa la scelta di Bob Dylan, che suona spesso e ovunque ci sia un teatro da riempire per poi sparire nel nulla alla fine di ogni show. Come un ologramma che si accende in scena e si spegne in coincidenza dell’ultima nota dell’ultima canzone in scaletta. In fondo, quel che non funziona nella musica contemporanea, sempre più usa-e-getta, è l’ossessione di capitalizzare la fama e rimanere famosi più che si può; finché non arriva un altro che prende il tuo posto in questa bizzarra gara fatta di canzoncine banali, balletti su TikTok, sequenze infinite di immagini sui social mentre si si gira il sugo davanti ai fornelli, si provano le scarpe o si fa shopping in giro per il mondo. Non sono tutti così i giovani artisti, ma nel corso degli anni si è oggettivamente ampliata a dismisura la platea di quelli che per avere un singolo in rotazione nelle piattaforme streaming sono a disposti a tutto. Anche a riprendersi con lo smartphone mentre fanno le flessioni.
Tornano allora in mente le parole di Lucio Battisti, un precursore (insieme a Mina) della teoria della totale assenza mediatica: «L’artista non esiste, esiste solo la sua arte. Chi fa musica comunica esclusivamente attraverso lo strumento che gli è proprio: la canzone». Già, ma per comunicare con le canzoni bisogna saperle scrivere, interpretarle e corredarle di parole capaci di diventare patrimonio collettivo. Bisogna avere molto talento e un profondo rispetto per la musica. Che non è solo intrattenimento, ma linfa per il cervello come spiega lo stesso Peter Gabriel nella prefazione del recente libro di Keith Blanchard, Reverberation (Corbaccio). «Molti la ascoltano senza pensarci, come quando respiriamo. Ma se riuscissimo a comprendere un po’ meglio questo oggetto dalle mille sfaccettature che è la musica, potremmo avere a disposizione uno strumento potentissimo da utilizzare in qualunque situazione, dalla medicina all’educazione e alla psicoterapia».
È l’assenza che fa risplendere la presenza, dicevamo. Lo sanno bene anche gli inglesi Radiohead, cinque musicisti che più di chiunque altro, nell’ultimo ventennio, hanno innovato i codici e il linguaggio della musica contemporanea. How to disappear completely è il titolo del brano che racchiude la loro filosofia: fare un disco e poi sparire in cinque direzioni diverse, dedicarsi a progetti paralleli, formare nuove band, scrivere colonne sonore. Come quella, splendida, composta dal cantante Thom Yorke per il remake, a cura di Luca Guadagnino, di Suspiria, il classico horror di Dario Argento. Spegnere l’insegna Radiohead (con cui hanno venduto 50 milioni di album fisici) per poi riaccenderla con un nuovo disco a sorpresa e riempire di nuovo le arene. Come se ogni ritorno fosse un nuovo inizio. Geniali.
