Il programma Artemis, cui partecipano l’Agenzia spaziale italiana e quella europea, punta a produrre «carburante» su altri mondi. Lo scopo: lavorare sul nostro satellite, e colonizzare il Pianeta rosso.
Negli anni che verranno il problema dell’approvvigionamento di energia avrà una dimensione planetaria. Come e dove ricavarla sarà una questione che non riguarderà solo la Terra ma il Sistema solare, come Luna e Marte.
Centri di ricerca di tutto il mondo si stanno impegnando in progetti per produrre energia su altri pianeti. Al di là delle ricadute utili per affrontare i problemi di questa risorsa sulla Terra, lo scopo principale è fare in modo che l’uomo ne possa disporre per trascorrere lunghi periodi sul nostro satellite e sul Pianeta rosso, estrarre materiali, produrre ulteriore energia, effettuare ricerche e osservazioni e, un domani, raggiungere destinazioni ancora più remote del Sistema solare. Uno di questi progetti vede impegnata l’Italia, e in particolare l’Enea e l’Asi (Agenzia spaziale italiana), nella creazione di mini-reattori per la produzione di energia per le future basi lunari e la colonizzazione di Marte.
La previsione è infatti che entro il 2030, con il programma Artemis, a cui collaborano Nasa ed Esa (Agenzia spaziale europea), gli esseri umani vivranno per lunghi periodi sulla Luna, ci lavoreranno e faranno ricerca. «In vista di queste esplorazioni servono fonti di energia abbondanti, sicure e affidabili» dice Mariano Tarantino, direttore Divisione sicurezza e sostenibilità del nucleare del Dipartimento fusione e tecnologie per la sicurezza nucleare dell’Enea.«Al momento l’approvvigionamento di energia nello spazio si basa soprattutto sui pannelli solari, ma questa tecnologia ha limiti intrinseci. Richiede ampie superfici per erogare potenze relativamente contenute, con problemi di dispiegamento e controllo, e può perdere di affidabilità con il tempo a causa dell’irraggiamento cosmico. Inoltre in ambienti polverosi, come Marte, tende a “sporcarsi” e diventare sempre meno efficiente».
L’accordo Enea-Asi, dopo un primo studio di fattibilità, punta ad approfondire e proporre soluzioni per produrre energia sulla Luna con un reattore nucleare di piccole dimensioni capace di essere trasportato a bordo di un razzo cargo. «Nei prossimi 15 mesi, noi dell’Enea dovremo identificare le caratteristiche di questo reattore nucleare, considerando che potrebbe un domani essere collocato sulla Luna e anche su Marte. Sarà modulare per garantire alta affidabilità, e progettato in modo che ogni eventuale avaria al singolo modulo possa essere risolta con interventi meno impegnativi. Ogni modulo avrà una potenza di qualche centinaia di Kilowatt».
Se si pensa che una caldaia di un appartamento ha circa 20 Kilowatt, è come dire che questi reattori produrranno energia pari a quella necessaria a riscaldare alcune case. Nulla di paragonabile ai reattori nucleari terrestri, spesso raffreddati ad acqua, la cui potenza è diversi ordini di grandezza superiore. Per esempio, la tanto discussa centrale di Zaporizhzhia in Ucraina, catturata dalle forze russe nel marzo 2022, ha una potenza nominale di 5.700 Megawatt, con sei reattori installati, ed è la decima più grande al mondo.
Il reattore verrà costruito sulla Terra, trasportato, adagiato sul suolo lunare e avviato. Con l’energia così fornita, gli astronauti potranno fare molte cose, come riscaldarsi su un corpo celeste che ha enormi sbalzi termici; potranno anche sfruttare la regolite (polvere e frantumi di rocce) per ricavare materiale da costruzione, ottenere idrogeno e ossigeno dal ghiaccio per ottenere ulteriore energia da usare per la propulsione. Un problema da affrontare è quello della schermatura del reattore: sulla Luna gli impatti di meteoriti e asteroidi sono più violenti e più probabili rispetto alla Terra per l’assenza di atmosfera. «Pensiamo di incorporare strutture schermanti o di proteggere il reattore sotto la regolite». Un’altra possibile soluzione potrebbe essere individuare ripari naturali, come canyon, grotte e tunnel. Oltre a questo reattore nucleare, esiste anche il progetto Kilopower della Nasa, capace di produrre 10 Kilowatt di energia elettrica per 10 anni, l’essenziale per una stazione spaziale fissa su Marte.
Grazie alla sua bassa gravità, la Luna richiede meno energia e meno costi per far partire veicoli spaziali: un trampolino di lancio ideale verso altri pianeti. E qui si apre la sfida dei carburanti. L’Esa sta sviluppando una generazione di batterie per navicelle spaziali alimentate da radioisotopi (ricavabili anche dal trattamento delle scorie nucleari) anziché da pannelli solari con il programma Endure (European Devices Using Radioisotope Energy) per un totale 29 milioni di dollari di investimento.
L’idea è sfruttare l’americio-241, un elemento radioattivo sottoprodotto del bombardamento del plutonio con neutroni. A questa soluzione ha contribuito non poco la guerra in Ucraina. Russia e Stati Uniti utilizzano batterie a base di plutonio-238, che però è molto costoso da produrre e di non facile reperibilità. Ma ora che l’Esa ha reciso i legami con la Russia, ha un forte bisogno di produrre autonomamente i carburanti. A ciò bisogna aggiungere che le missioni Esa sono state finora limitate dalla mancanza di carburante a lunga durata, tanto che nel 2014 il lander Philae, trasportato dalla sonda Rosetta e atterrato sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, rimase operativo soltanto per tre giorni.
Insomma, se si vuole andare nello spazio profondo, in posti freddi e con poca luce, l’energia nucleare è essenziale. La scelta europea dell’americio riposa sul fatto che è meno costoso e più abbondante del plutonio; di fatto, è una sorta di «rifiuto» inutilizzabile per altri scopi sulla Terra. Inoltre ha una vita media più lunga del plutonio e quindi è un carburante di maggiore durata, sebbene custodisca meno energia per grammo.
Sono stati ricercatori inglesi del National Nuclear Laboratory del sito nucleare inglese di Sellafield ad aver mostrato che l’americio può essere ricavato riprocessando le scorie radioattive delle centrali nucleari a uso civile, e poi trasformato in cilindretti o granuli per formare il carburante di una batteria per la navicella spaziale. I progressi della ricerca in corso fanno pensare che sarà proprio questo elemento a essere usato come carburante nella futura missione sulla Luna sotto il programma Artemis. Intanto si pensa anche a come ottenere energia su Marte. In questo caso, la scoperta più interessante è apparsa su Nature Astronomy: la sua originalità sta nel fatto che gli autori hanno adattato un modello sviluppato per lo studio del clima terrestre all’analisi dei venti sul Pianeta rosso.
Per qualche tempo si era pensato che l’atmosfera marziana fosse così sottile da non poter essere utilizzata per costruire turbine che generino elettricità sufficiente agli usi dei futuri colonizzatori. Quello che invece i ricercatori hanno capito è che ci sono molte zone di Marte in cui il vento è abbastanza forte da poter produrre sufficiente forza per alimentare turbine. Le aree più adatte sarebbero quelle sugli altopiani vulcanici e attorno ai poli, dove i venti acquistano forza e velocità al di sopra delle formazioni di ghiaccio. In queste zone la potenza che si potrebbe raggiungere sarebbe maggiore di quella prodotta sfruttando l’energia solare. Significa anche che l’energia del vento compenserebbe le riduzioni giornaliere o stagionali di quella del Sole. La colonizzazione di altri pianeti diventa così sempre più una possibilità concreta.
