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La saga della serotonina

La saga della serotonina

Per anni l’idea che la depressione fosse dovuta a un calo di questo neurotrasmettitore nel cervello era data per (quasi) certa. Ora un’ampia analisi rimette tutto in discussione. Sono quindi inutili gli psicofarmaci che agiscono proprio su questa molecola?


In quei 100 miliardi di neuroni che si danno da fare nel nostro cervello, ognuno con un numero di sinapsi stimato fra 5 mila e 100 mila, difficile che le cose siano proprio semplici. Così, quando la scienza pensa di aver trovato una spiegazione verosimile per qualche «tempesta» neurologica o psichiatrica, il sollievo è comprensibile. Ecco la molecola, il neurotrasmettitore, la sostanza chiave di una certa malattia.

È successo così per l’Alzheimer e la proteina betamiloide, salvo poi rendersi conto che il legame non era affatto certo. Ed è quello che sta accadendo nel campo della depressione, inafferrabile e tormentoso malessere della psiche. Per decenni studi, convegni, esperti, riviste scientifiche (e sì, anche noi giornalisti), hanno trasmesso l’idea che nel cervello dei depressi, il «colpevole» fosse la serotonina: ai suoi scarsi livelli corrispondeva un abbassamento del tono dell’umore. Dunque, bastava far sì che ne circolasse di più.

Non che l’ipotesi fosse inattaccabile. Era la migliore, fino a prova contraria, ma non mancavano dubbi sulla sua solidità. Ora, un’ampia metanalisi coordinata da Joanna Moncrieff e Mark Horowitz e pubblicata su Nature li conferma in pieno: «Non c’è alcuna evidenza» scrivono gli autori «che la depressione sia associata a – o causata da – concentrazioni basse di serotonina. La maggior parte degli studi non ha individuato relazione tra una ridotta attività di serotonina in persone con depressione rispetto a soggetti sani; né i metodi per abbassarne chimicamente i livelli hanno portato a una diminuzione del tono dell’umore nei volontari sani».

I ricercatori sono andati a verificarne i livelli nel sangue e nei fluidi cerebrali, hanno indagato i geni e le proteine a essa collegati, e i suoi recettori. Paradossalmente, l’attività della serotonina risultava superiore in alcuni pazienti depressi. In sintesi: il mal di vivere non nasce dalla semplice latitanza di una molecola.

Colpo di scena? Sì. E no. Come si diceva, l’idea dello scompenso chimico era un’agevole scorciatoia divulgativa, oltre che un’ottimo punto di partenza della ricerca farmaceutica: quasi tutti i moderni antidepressivi agiscono, sostanzialmente, su tre neurotrasmettitori: serotonina, dopamina, noradrenalina.

L’idea dell’alterazione biochimica risale agli anni Cinquanta, racconta Giancarlo Cerveri, psichiatra e direttore del Dipartimento di Salute mentale dell’ASST di Lodi. «Il primo antidepressivo derivò, per caso, da un antibiotico dato a pazienti con tubercolosi. Non funzionava per l’infezione, ma produceva un inspiegabile innalzamento del tono dell’umore. Cercando di capirne di più si vide che quella molecola inibiva un enzima che degradava alcuni neurotrasmettitori, tra cui la serotonina. Da qui si iniziò a formulare teorie, per esempio che ci fosse un’alterazione nella trasmissione della serotonina, e che l’antidepressivo producesse una modifica riportando a condizioni di normalità. Un’ipotesi che ha sempre un po’ scricchiolato, però fu l’unica a sopravvivere».

A questo punto, che ne facciamo di tutti gli antidepressivi che agiscono, come si dice, sulla «ricaptazione della serotonina», praticamente tutta la classe degli SSRI? Funzionano o agiscono (quando lo fanno) con un fenomenale effetto placebo? Una cosa un po’ difficile da capire, per esempio, è come mai impiegano 3-4 settimane per avere effetto (un «tiro» di cocaina, per contro, provoca un rilascio immediato di dopamina e un altrettanto immediato ma effimero miglioramento dell’umore). «Una delle spiegazioni fornite era che l’antidepressivo dapprima innesca un’intensificazione della trasmissione, dando in acuto sintomi come aumento di ansia e insonnia, e solo dopo una certa latenza porta a una modificazione del tono dell’umore tramite meccanismi intracellulari» precisa Cerveri. «Ma mentre per il cuore sappiamo come funziona, in fondo è una pompa, un modello fisiologico di come il cervello fa a produrre euforia o depressione non ce l’abbiamo».

Altro problema legato agli attuali farmaci psichiatrici: i pazienti che rispondono al primo antidepressivo sono circa il 45 per cento, al secondo sono un altro 20 per cento, ma il resto non risponde alla terapia, ed è una cifra molto alta. «Attenzione però a non dare il messaggio che questi farmaci sono inefficaci, perché così non è» avverte Massimo Clerici, ordinario di Psichiatria all’Università Milano Bicocca e direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze, alla ASST di Monza. «Ricordiamoci che prima ai pazienti si facevano bagni gelati o venivano legati pensando di contrastare gli “umori negativi”. Certo, non c’è un sistema univoco di spiegazione che possa attribuire a un neurotrasmittore o recettore la risposta definitiva dei disturbi mentali, il loro ruolo deve essere inserito in un modello più ampio e complesso della depressione: legato alla vulnerabilità, allo stress, o alla predisposizione ad ammalarci. Il che però non significa che la serotonina non c’entri nulla».

E il flop frequente degli antidepressivi che agiscono su questo così come su altri neurotrasmettori? Com’è che il 30 per cento dei pazienti non ne trae beneficio? I motivi, in realtà, possono essere più di uno, precisa Clerici: interferenze con altri sistemi di neurotrasmettori che regolano la complessità del nostro cervello; la rilevanza dell’evento che un paziente sta vivendo (arduo contrastare un lutto o un trauma con una pillola); le componenti genetiche che predispongono. O motivi più banali: «Per esempio un dosaggio inadeguato» dice Clerici. «Molti colleghi preferiscono trattare i loro pazienti depressi al di sotto di una certa soglia terapeutica per vedere se rispondono anche a bassi dosaggi o se sviluppano effetti collaterali. La terapia dovrebbe sempre essere mirata e personalizzata, e spesso non è così. Ed è poi fondamentale conoscere la storia naturale della malattia non trattata, prima di affrontarla».

Nella genesi inestricabile del mal di vivere (non sappiamo ancora perché esista l’umore depresso, o quale sia la sua funzione adattiva) si cercano – negli ultimi tempi – altri indiziati. Ecco che sul ruolo del microbiota, ossia l’insieme dei batteri che abita il nostro intestino e sulle sue potenziali alterazioni, esiste oggi un ampio filone di indagine: la possibilità di trattare le persone modificandone la flora intestinale è, in effetti, piuttosto promettente. «Un’altra area di ricerca molto interessante punta sul ruolo dell’infiammazione, soprattutto nelle persone anziane che soffrono di patologie croniche di questo tipo» spiega Cerveri. «L’infiammazione è qualcosa che sollecita tutto l’organismo compreso il sistema nervoso centrale, e predispone al rischio di depressione».

Infine, nel tentativo di mettere a punto farmaci più efficaci e rapidi nella loro azione (non mirati sul circuito serotoninergico), si punta sulla medicina «psichedelica», i cui primi passi in ambito psichiatrico risalgono agli anni Sessanta, poi tutto si interruppe perché la Food and drugs administration americana proibì qualsiasi uso medico di queste droghe. Ora è proprio la Fda ad aver autorizzato, nel 2019 negli Usa, uno spray nasale alla esketamina (un derivato della ketamina, potente anestetico ma anche una droga da abuso): Spravato, indicato nei casi di depressione resistente. In Italia ha avuto l’ok dell’Aifa, e viene somministrato in ambienti clinici. Sempre nel segno di un ritorno al passato riveduto e corretto, si prova anche con la psilocibina, derivata dai funghi allucinogeni (i «magic mushroom» dei college americani degli anni Cinquanta). I test fin qui condotti da scienziati dell’Università della California a San Francisco e dell’Imperial College di Londra, mostrano che, dopo averla assunta sotto controllo medico, la mente risulterebbe più interconnessa, più fluida, meno intrappolata in quella «ruminazione negativa» tipica della depressione.

«In psichiatria, ci avviciniamo alla comprensione dei fenomeni per approssimazione, grazie a ciò che osserviamo sul campo: alcune teorie vengono rafforzate, altre smantellate» riflette Clerici. «Negli anni Sessanta e Settanta, per esempio, c’era la convinzione che la malattia mentale fosse molto più diffusa tra i poveri che non tra i ricchi. Un’idea completamente sbagliata: la sofferenza psichiatrica non dipende né dal reddito né dal ceto sociale. E ormai è chiaro che proporre una logica dicotomica, per cui un solo modello spiega tutto, non porta da nessuna parte».

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