Il dittatore della Corea del Nord aveva iniziato un dialogo con Donald Trump. Ora, con Joe Biden alla Casa Bianca, tutto torna in discussione. Intanto Pyongyang scalda i muscoli con un’offensiva informatica…
Chissà se Kim Jong-un riuscirà a resistere alla tentazione di accendersi una sigaretta nelle sue prossime apparizioni in giro per la Corea del Nord. Il governo ha imposto recentemente il divieto di fumo nei luoghi pubblici, per combattere il vizio di cui è preda quasi metà della popolazione. Peccato che anche il leader supremo sia un fumatore accanito, fotografato spesso e volentieri con una «bionda» in mano. Tra le preoccupazioni che potrebbero solleticare al leader coreano la voglia di tirar fuori il pacchetto ci sono le relazioni con gli Stati Uniti e con il presidente eletto Joe Biden.
Ancora prima di conoscersi, il vincitore delle elezioni a stelle e strisce e il rampollo della dinastia Kim, dinastia che tiene in pugno il Paese asiatico da settant’anni, si sono scambiati parole di fuoco. «Tiranno», «dittatore» e «delinquente» sono le stilettate rifilate in campagna elettorale dall’ex vice di Obama al giovane leader. Che ha affidato ai media di regime una risposta a tono, facendolo definire un «cane rabbioso» da «sopprimere a bastonate».
Ma tra poche settimane il candidato democratico sarà a capo della prima superpotenza mondiale e, volente o nolente, dovrà occuparsi di gestire le intemperanze nucleari dell’ultima dittatura assolutista sopravvissuta al secolo scorso.Anche su questo punto, come su tanti altri, la differenza con il suo predecessore sarà netta. Donald Trump, nei suoi quattro anni alla Casa Bianca, ha sostituito alle relazioni diplomatiche con la Corea del Nord il suo rapporto personale con Kim Jong-un, che ha spiazzato gli analisti politici di tutto il mondo. Dopo un inizio burrascoso, con scambi a distanza di insulti e minacce di distruzione, il vecchio magnate e il giovane «leader supremo» si sono riconciliati e incontrati più volte negli ultimi anni. Trump ha anche conquistato il primato come primo presidente americano a mettere piede in territorio nordcoreano.
Successivamente, i due si sono scambiati lettere dai toni quasi romantici, almeno a detta di chi le ha lette, e auguri di buona salute in tempo di Covid-19. La strana amicizia non ha portato risultati diplomatici concreti: il Paese ha interrotto bruscamente i negoziati l’anno scorso senza alcuna concessione alla denuclearizzazione. È infatti l’arsenale atomico dei Kim, stimato tra le 30 e le 40 testate, a guastare irrimediabilmente i rapporti con gli Stati Uniti e i loro alleati, in testa Corea del Sud e Giappone che si trovano a un tiro… di missile. La Corea del Nord ha peraltro costantemente migliorato la propria dotazione di missili balistici intercontinentali e col Hwasong-15, presentato pubblicamente tre anni fa, sarebbe in teoria in grado di colpire pure New York, a quasi 11 mila chilometri di distanza da Pyongyang.
Il regime ha svelato un nuovo modello di missile, di cui ancora non si conoscono le specifiche, lo scorso ottobre, durante una delle sue scenografiche parate militari. Una mossa che gli analisti interpretano come un tentativo di porsi in posizione di vantaggio nelle future negoziazioni con Washington, soprattutto in un momento in cui la vittoria dell’ostile Biden iniziava ad apparire possibile, se non probabile.
L’ossessione per le armi nucleari il dittatore coreano l’ha ereditata dal padre Kim Jong-il: si racconta che il «caro leader» sia rimasto terribilmente impressionato dalla sorte toccata a Saddam Hussein per mano americana. Tanto da convincersi definitivamente che solo un arsenale atomico avrebbe assicurato la sopravvivenza del suo regime e della sua dinastia. Secondo alcuni analisti, in linea di successione dopo l’attuale leader, in caso di prematura scomparsa, ci sarebbe la sorella Kim Yo-jong. Giovane ma determinata, cura l’immagine pubblica del fratello e negli ultimi anni è stata da lui innalzata a cariche sempre più importanti.
Come Biden deciderà di rispondere alle nuove sfide di Pyongyang sarà da vedere, ma i pareri sono concordi su un ritorno ai canali diplomatici tradizionali. Il nuovo presidente potrebbe usare come leva un ulteriore inasprimento delle sanzioni economiche. Le misure punitive sono state inasprite ed estese soprattutto a partire dal 2006, dopo il primo test atomico coreano. Nella versione attuale, aggiornata dallo stesso governo Trump nel 2017, vietano tra le altre: il commercio – salvo che di cibo, medicine e aiuti umanitari – e comunque solo se autorizzato; proibiscono ogni transazione finanziaria e sottopongono a confisca qualsiasi bene detenuto negli Stati Uniti dal regime e dai suoi associati.
In questa situazione la Corea del Nord non è in grado di risollevare la sua economia disastrata. Il Pil pro-capite è circa 1.700 dollari, contro gli oltre 10 mila della Cina e i 30 mila della Corea del Sud. La produzione agricola è insufficiente a sfamare adeguatamente i suoi 25 milioni di abitanti e si stima che il 20 per cento dei bambini soffra di rachitismo a causa della denutrizione. Tra agosto e settembre il Paese è anche stato colpito da tre tifoni che hanno causato danni estesi alle infrastrutture e ai raccolti.
L’evoluzione delle relazioni e dello scontro tra Corea del Nord e Stati Uniti è comunque condizionata pesantemente dal più ingombrante «convitato di pietra», ovvero la Cina. Il Dragone infatti è il principale alleato, partner commerciale e benefattore di Pyongyang, che ne dipende ormai economicamente, e usa la sua influenza sul Paese a proprio vantaggio nella rivalità con Washington.
«La Corea del Nord è uno Stato cuscinetto tra le truppe americane nel Sud e il confine di terra della Cina: è quindi importante, specie in questo momento, che resti saldamente sotto il controllo cinese per consentire spazi di manovra e una reazione eventuale della repubblica popolare» dice a Panorama Francesco Sisci, sinologo e professore di Relazioni internazionali all’Università di Pechino. «L’elezione di Biden non cambia nulla da questo punto di vista: negli ultimi mesi la Cina ha già rafforzato il proprio controllo sul governo di Pyongyang e non è ipotizzabile voglia concedergli più spazi di manovra».
Un ambito in cui i due Paesi stanno rafforzando la propria collaborazione strategica è quello del cyberwarfare, la guerra informatica. Un gruppo di hacker nordcoreani avrebbe cooperato insieme all’intelligence cinese durante la pandemia per lanciare ondate di phishing – email false per rubare i dati agli utenti – verso i principali Paesi rivali: Stati Uniti, Regno Unito, India, Singapore, Corea del Sud e Giappone. La base di questa operazione sarebbe situata in Nepal, il cui governo a guida comunista è fortemente influenzato da Pechino.
Gli hacker di Pyongyang, in particolare, farebbero parte dell’organizzazione Lazarus Group, che conduce la sua battaglia digitale almeno dal 2009 e che l’Fbi ha classificato come «sponsorizzata» dalla Corea del Nord. Il regime ha investito molto negli ultimi anni sulle attività criminali cyber, sia come metodo di guerra asimmetrica sia come fonte di guadagni illeciti. I giovani informatici più promettenti del Paese, raccontano alcune inchieste giornalistiche, vengono selezionati e mandati nelle migliori scuole cinese per addestrarsi. Un funzionario americano del Dipartimento di giustizia, John Demers, ha anche accusato la Cina di riciclare i proventi illeciti delle truffe informatiche messe a segno dagli «smanettoni» nordcoreani.
La digitalizzazione, d’altronde, oggi è indispensabile per rimanere competitivi. Anche per l’azienda-regime della famiglia Kim.
