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Sanità malata

Sanità malata

È (da sempre) la grande assente in ogni programma politico. Così, quella che una volta era un vanto nazionale, oggi è una realtà in drammatico declino, dove mancano medici e infermieri, gli ospedali non hanno abbastanza posti letto, i pronto soccorso non riescono a seguire tutte le emergenze. E non sarà il Pnrr a risolvere i tanti, troppi problemi del nostro sistema di assistenza e cura.


Erano i nostri eroi. Hanno salvato la vita di tanti italiani lavorando giorno e notte. Si sono ammalati, oltre 200 sono morti. Gli abbiamo dedicato inni dai balconi e murales. La foto di una di loro, Elena Pagliarini, infermiera dell’ospedale di Cremona accasciata davanti al computer, è diventata il simbolo della lotta alla nuova peste. Li abbiamo ringraziati e riempiti di promesse: assunzioni, aumenti di stipendio, nuove strutture. Ecco che cosa diceva il ministro della Salute Roberto Speranza il 23 dicembre 2020: «Il Servizio sanitario nazionale è il bene più prezioso. Lo hanno dimostrato l’instancabile lavoro, la generosità e lo spirito di abnegazione di medici e infermieri. Un esempio per tutti noi. A ognuno di loro va il mio grande ringraziamento».

Poi la pandemia Covid si è diradata, altre emergenze si sono fatte largo e del «bene più prezioso» ce ne siamo dimenticati. Nei programmi dei partiti di sanità se ne parla poco o niente. Nel faccia a faccia prelettorale del 12 settembre tra Enrico Letta e Giorgia Meloni, per esempio, non una parola su medici o infermieri o sanità.

Ma il sistema sanitario resta una ferita aperta. Dal 2020 i vari governi che si sono succeduti hanno preso alcuni provvedimenti, almeno sulla carta. La spesa sanitaria è aumentata. È stato introdotto il «premio Covid», un aumento stabile dello stipendio che dovrebbe far crescere la paga lorda dei dipendenti della sanità di circa 70 euro al mese: ma da due anni è rimasto bloccato in attesa di chiarimenti tra ministero dell’Economia, Ragioneria e Corte dei conti.

Sono state effettuate quasi 20 mila assunzioni, la maggior parte a tempo determinato, e prese misure straordinarie per il reclutamento di personale in deroga alla normativa sul pubblico impiego. E il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha stanziato una quindicina di miliardi per la sanità, di cui 7 per «reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale» e 8,63 per «innovazione, ricerca e digitalizzazione».

A corto di personale

Però non basta. La sanità appare come un grande cantiere a corto di personale. Si progettano servizi sul territorio, case e ospedali di comunità, ma mancano infermieri e medici: quelli specialisti ospedalieri sono circa 130 mila, 60 mila meno della Germania e 43 mila meno della Francia. Nei Pronto soccorso e 118 mancano ormai più del 40 per cento dei medici. Tra pensionamenti e licenziamenti si prevede se ne andranno in 40 mila (ospedalieri e di medicina generale) entro il 2024. Ancora peggiore la situazione degli infermieri: ne mancherebbero 70 mila. «L’Italia ne impiega di meno rispetto a quasi tutti i Paesi dell’Europa occidentale» sottolineano alla Fnopi, la Federazione degli ordini delle professioni infermieristiche «e il loro numero – 6,2 per mille abitanti – è inferiore del 25 per cento alla media Ue». Secondo Barbara Mangiacavalli, presidente della Fnopi, di infermieri in Italia non se ne trovano più, 20 mila se ne sono andati nel Regno Unito e nell’Europa del nord: li abbiamo formati per servire in altri Paesi. Il problema è che da noi sono pagati poco: 1.700 euro al mese lordi, sono al 25° posto tra i Paesi Ocse.

Intanto i Pronto soccorso sono al collasso (vedi riquadro sotto) con medici e infermieri in fuga verso lavori meno stressanti. E la figura del medico di famiglia andrebbe rivista, dopo tutti i limiti dimostrati in pandemia. Scenario aggravato dal fatto che l’emorragia dei camici bianchi, come segnalano le 30 Società scientifiche dei Clinici Ospedalieri e Universitari italiani riunite nel Forum, riguarda anche loro: sono 40.700, ma ogni anno 3 mila vanno in pensione. «Solo in Lombardia mancano mille medici, vuol dire in media un milione di persone senza assistenza» avverte Diego Foschi, presidente del Collegio italiano dei chirurghi. «Per ovviare in alcune regioni hanno elevato il numero massimo di assistiti a 1.800. Certo, così si aumenta il carico del medico ma si riduce di molto la sua capacità di dedizione, ascolto e comprensione».

Non stupisce perciò che a Caltanissetta si pensi di andare a cercare personale sanitario in Argentina e, in Calabria, a Cuba. O che a Genova il segretario provinciale per la continuità assistenziale Marco Cardini denunci che «oggi siamo circa 200 medici a livello ligure, quasi 100 meno rispetto al rapporto ottimale di un medico ogni 5 mila abitanti, con una continua riduzione dei medici in servizio, condizioni di lavoro difficili con interventi in aree sempre più popolate, 15 anni senza ammodernamento del servizio, né strumentale né formativo né organizzativo, una retribuzione ferma dal 2005 che rende questa professione tra le meno retribuite in Italia».

Perché il Pnrr non è la panacea

Pensare che il grande Piano possa risolvere tutti i problemi è un’illusione. «Il Pnrr sarà usato in investimenti su tecnologie avanzate, per la telemedicina, certo settori importanti, e per strutture del territorio, ma poco o nulla per gli ospedali» chiarisce Francesco Cognetti, coordinatore delle Società scientifiche del Forum permanente sul Servizio sanitario nazionale nel post Covid. «Ma qui c’è da fare una riflessione che emerge dai dati: il territorio prevede la realizzazione di due strutture, da una parte le case di comunità ossia ambulatori gestiti da specialisti o medici di medicina generale o infermieri; e poi gli ospedali di comunità. Peccato che in Italia non abbiamo né medici né infermieri a sufficienza. E gli infermieri dove si prendono? Dagli ospedali, ovvio. Ci sarà quindi un fortissimo esodo da questi alle strutture territoriali, con le conseguenze che si possono immaginare».

La politica smemorata

«La sanità e la medicina sono risultate all’anno zero nella campagna elettorale, per la scarsità delle proposte su difesa della salute, tutela delle professioni mediche, capacità di prevedere riforme e risorse per il personale» lamenta Pina Onotri, segretario generale del Sindacato medici italiani. «Il report della Fondazione Gimbe sui programmi dei partiti fotografa la realtà. La pandemia ha confermato che la principale carenza strutturale del servizio sanitario è quella del personale. A parte la promessa stabilizzazione di una parte degli assunti per fronteggiare la pandemia, nulla sembra muoversi verso un aumento del personale, nemmeno per far funzionare quanto previsto nel Pnrr, come dimostrano dati statistici e recenti studi. E ciò rischia di aggravare le disuguaglianze nelle cure».

Ricorda Foschi che «15 anni fa il nostro sistema sanitario era invidiato da tutti, un gioiello considerato per efficienza al secondo posto in Europa dopo la Francia. Ma per mantenere un prestigio simile bisognava investire in quella direzione, non economizzare. È vero che in Italia abbiamo un’aspettativa di vita lunga, ma non possiamo essere al 23° posto in Europa per posti letti in rapporto ad abitanti: tre letti per 10 mila, mentre la Germania ne conta otto, una sproporzione incredibile. E questo è emerso nella crisi Covid, con l’Italia che è stata il Paese occidentale con mortalità più alta, 176 mila morti».

Troppo poche lauree

A creare una carenza di medici è lo sbarramento degli esami di ammissione ai corsi di laurea, che ora dovrebbero essere allentati. «Si tratta di un grave errore di programmazione» denuncia Foschi. «I dottori entrati in sanità dal 1975 al 1985 escono intorno al 2020-2025 e sono tanti. Dobbiamo sostituire migliaia di pensionamenti e dovevamo pensarci per tempo. Per costruire un medico ci vogliono 6 anni e altri 5 per uno specialista e quando un ministro dice che ha aumentato i posti il risultato lo vedremo dopo 10 anni».

Molti medici poi preferiscono lavorare all’estero perché in Italia, secondo Foschi, ci sono troppi meccanismi che li penalizzano: assicurazioni sempre più costose (basta un qualsiasi contenzioso, anche senza avere torto, e il premio assicurativo sale) e assurde incombenze burocratiche-amministrative che rubano tempo ai malati.

I soldi che mancano

«Noi chiediamo una revisione profonda dei parametri ospedalieri, con un aumento dei posti letto, ora 350 per 100 mila abitanti contro una media europea di 500; nelle terapie intensive andrebbero quantomeno raddoppiati» sollecita Cognetti, secondo il quale sono stati disastrosi i tagli alla sanità di tutti i precedenti governi: i cosiddetti piani di rientro, che hanno commissariato le Regioni che spendevano «troppo». «Non si può risparmiare sulla sanità. Abbiamo una spesa pubblica in questo settore rispetto al Pil di almeno 3-4 punti inferiore rispetto ad altri Paesi occidentali. È vero, è aumentata dal 2021 ma solo per il Covid, e nei prossimi tre anni, in accordo con il Documento di economia e finanza 2023-25, è destinata a scendere di nuovo».

Il grosso della spesa ospedaliera è costituita dagli stipendi, ma dal momento che questa voce non si può comprimere, per far quadrare il bilancio i direttori generali di queste strutture di assistenza riducono le spese su strumenti e mezzi, e scoraggiano il numero di prestazioni.

«Ma la spesa sanitaria non è un costo, è un investimento» taglia corto Mangiacavalli della Fnopi. Ci vogliono più soldi. E l’unica via per averli è far crescere il Paese più velocemente: al prossimo governo l’arduo compito di salvare il soldato Sanità.

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