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Le relazioni pericolose di Erdogan

Le relazioni pericolose di Erdogan

Il presidente turco ha radicato il suo enorme potere sul clientelismo e sulla corruzione. Ancora più preoccupanti i legami con gruppi «in stile mafioso», vere strutture parallele allo Stato con le mani su economia, magistratura e media.


L’aspetto più preoccupante della Turchia di Recep Tayyip Erdogan non è la grande concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo. Non è la potenza delle sue forze armate, né la pervasività della sua repressione interna. E nemmeno la centralità di Ankara nell’Islam politico. L’aspetto più pericoloso della Turchia di Erdogan è Erdogan stesso.

Un uomo spregiudicato che, pur d’inseguire il suo sogno neo-ottomano, s’indebita con le banche europee, svaluta la moneta nazionale e continua a bruciare riserve di valuta estera in tutti i mercati. Un presidente interventista, la cui espansione ha però isolato diplomaticamente la Turchia dalla Nato e dall’Ue, mentre il suo esercito continua ad aggredire militarmente i curdi e a mettere zizzania in Libia come in Siria, in Armenia come nel Corno d’Africa.

Un politico che ha anche elevato a sistema l’inserimento di familiari, amici e gruppi d’interesse a lui affini nei gangli dell’apparato istituzionale turco. Al punto che oggi, dalla giustizia all’esercito, dalla Banca centrale alle moschee, al vertice di ogni ente che conta in Turchia conta su un uomo di sua fiducia. Uno di questi è Berat Albayrak, genero del presidente e figura chiave del «clan Erdogan»: dopo averne sposato nel 2004 la figlia Esra, prima è divenuto ministro dell’Energia a soli 37 anni (2015), poi del Tesoro e delle Finanze (2018) senza vantare alcuna esperienza: non a caso sarà costretto a dimettersi nel novembre 2020, quando la lira turca precipiterà dopo aver perso fino al 40% del suo valore.

La presenza di Albayrak in uno dei posti chiave dell’economia del Paese si spiega con la sua appartenenza al cosiddetto «gruppo Pelican», una struttura parallela al governo ufficiale: uno «Stato nello Stato» che questo esponente di punta del regime guida personalmente. Il gruppo rappresenta l’ala governista del partito del presidente Akp, ed è particolarmente influente all’interno della magistratura turca, così come nei media: dal quartier generale (una villa in stile ottomano affacciata sul Bosforo, secondo alcuni pagata dal medico personale del presidente, Fahrettin Koca), il think tank controlla i dossier più delicati dei singoli magistrati e sorveglia gli oppositori politici, vantando anche un apparato di disinformazione molto aggressivo, specie sui social network.

Quando il network informativo Deutsche Welle nel 2019 svelò l’esistenza di un rapporto interno del comune di Istanbul secondo cui il municipio aveva erogato 146 milioni di dollari a fondazioni e associazioni affiliate all’Akp, l’attenzione andò subito al gruppo Pelican. Si scoprì così come il più grande beneficiario di quel denaro era il terzo figlio del presidente, Bilal, la cui fondazione ha ricevuto 13,2 milioni di dollari; mentre un’altra, nel cui board siede sempre Bilal, ha beneficiato di 9 milioni. Una terza fondazione a lui riferibile – che si occupa curiosamente di addestramento al tiro con l’arco – avrebbe avuto poco meno di 3 milioni di dollari. E via così, fino a un quarto ente no profit, stavolta guidato dal fratello del leader turco, Mustafa, cui il comune ha versato 2,8 milioni.

Anche un’altra fondazione desta interrogativi sul ruolo occulto del presidente: è la Turkish Foundation for political, economic and social research (Seta), posseduta e finanziata dalla famiglia Albayrak – sì, proprio quella del genero – e che si occupa di rapporti con i media. A guidarla è Serhat Albayrak, fratello del genero di Erdogan. Stessa dinamica per il Kalyon Group, un conglomerato con grandi interessi nelle costruzioni e che possiede anche il Turkuvaz Media Group, che controlla il quotidiano Sabah e i principali canali televisivi turchi AHaber e ATV. Kalyon Group prende il nome dalla famiglia Kalyoncus, una delle due più ricche del Paese; l’altra è quella dei Demirören. Insieme, le due famiglie detengono più del 60% dei media turchi.

Un impero che non poteva non far gola. Infatti entrambe sono state benedette da Erdogan in persona nel lussuoso hotel Ciragan Palace di Istanbul, un opulento ex serraglio imperiale: qui il 26 aprile 2019 il presidente ha presenziato alle nozze dei giovani rampolli delle due famiglie. Un’unione definita «in stile mafioso», che ha sancito i legami sconvenienti dell’uomo forte di Turchia anche col Gruppo Demirören: attivo nei settori energetico, minerario, manifatturiero, edile e immobiliare, ma soprattutto proprietario del gruppo mediatico Dogan, che annovera i giornali Hürriyet e Posta e le emittenti Kanal D e Cnn Türk.

A proposito di «stile mafioso», il governo ha appena approvato una nuova amnistia che ha liberato oltre 90.000 prigionieri per crimini non politici (ben attento a escludere giornalisti e dissidenti). Sono così usciti dal carcere personaggi del calibro di Alaattin Çakici, capomafia legato al partito di estrema destra Mhp (alleato dell’Akp) e ai servizi segreti turchi, il Mit. Entrato nei Lupi grigi, la più nota organizzazione di destra radicale turca, Çakici nel 1991 sposerà Nuriye Ugur Kiliç, figlia del padrino di mafia Dundar Kiliç, allo scopo di sostituirvisi. Difatti Çakici commissionerà prima l’omicidio della moglie (20 gennaio 1995) e poi anche del braccio destro di Kiliç, Nurullah Tevfik Agansoy. Ottenuto il potere, Çakici diventerà trait d’union tra Akp, servizi segreti e criminalità organizzata.

È grazie a lui se il futuro presidente eviterà per un soffio una condanna per corruzione, dopo che un’indagine indipendente della polizia nel 2013 troverà ingenti somme di denaro e persino macchine conta soldi nelle case dei figli dei ministri degli Interni e dell’Economia del suo governo. Quei proventi erano stati ottenuti grazie a commissioni illecite stornate da ogni contratto, appalto e affare che gli uomini di Erdogan avevano messo in piedi favorendo gli amici.

In un’intercettazione telefonica si sente l’allora premier in preda al panico ordinare al figlio Bilal di far sparire il denaro di famiglia: si tratterebbe di almeno un miliardo di dollari, nascosti in un caveau di una delle sue molte ville. L’indagine puntava a scoperchiare il piano del leader dell’Akp di rilevare il gruppo mediatico Sabah attraverso tangenti.

Ma, grazie alla complicità di Çakici, i magistrati inquirenti saranno sostituiti con nuovi giudici, che nel 2014 archivieranno la vicenda in concomitanza con l’elezione di Erdogan a presidente della Repubblica. Dopodiché, il mancato golpe del 2016 rimuoverà ogni ostacolo residuo allo strapotere personale del presidente.

Non tutto è andato come voleva lui, però. Oggi, a dargli filo da torcere sono le rivelazioni di Sedat Peker, gangster latitante che da qualche tempo diffonde su YouTube video nei quali accusa il «clan Erdogan» di ogni malefatta: si è scagliato contro il suo ministro degli Interni, Süleyman Soylu, considerato il futuro presidente e accusato di abuso di potere e di aver fornito a Peker persino una scorta armata.
Ha indicato l’ex ministro degli Interni Mehmet Agar quale mandante dell’omicidio irrisolto di un giornalista nel 1993 e accusato suo figlio Tolga, tuttora autorevole esponente dell’Akp, di aver violentato e ucciso nel 2019 una giovane giornalista kazaka, Yeldana Kaharman. Vero o meno che sia, più ci si avvicina a Recep Tayyip Erdogan, più ci s’imbatte in un sistema di potere basato sul clientelismo, la violenza e l’intimidazione. Forse è proprio per questo che Mario Draghi, parlando esplicitamente di quelli come lui, ha puntualizzato: «Chiamiamoli per quel che sono, dittatori».


Le relazioni pericolose di Erdogan
La moschea di piazza Taksim a Istanbul (Getty Images).

I minareti sono alti oltre 60 metri. Sembra quasi li abbiano costruiti così svettanti per chiarire a tutto il quartiere che la musica è cambiata per sempre. Lì vicino, la statua che raffigura il fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Atatürk, tradizionale punto di ritrovo per chi vive a Istanbul, appare piccola piccola, come se il periodo laico e riformatore vissuto dal Paese sia stato solo una parentesi.

Una volta, dove adesso si staglia la moschea di piazza Taksim, c’era un’area vuota che funzionava come posteggio abusivo. Nelle viette vicine, le coppiette, o chi voleva bere l’ultima birra della serata in santa pace, trovavano un rifugio sicuro. Scene da una metropoli che sta scomparendo anno dopo anno e dove la costruzione dell’ennesimo luogo di culto islamico nello spazio per eccellenza della «vita all’occidentale», è parso a molti, oltre che un atto di arroganza, anche un messaggio simbolico ben preciso.

A tagliarne il nastro è stato ovviamente il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan in persona, alla vigilia del 29 maggio, il giorno in cui si celebra l’anniversario della Caduta di Costantinopoli e a un anno dalla conversione di Santa Sofia da museo in ennesimo luogo di preghiera. Il leader islamico accarezzava il sogno di una moschea in piazza Taksim fin da quando era sindaco della megalopoli sul Bosforo, negli anni Novanta, e ha provato più volte a trasformarlo in realtà anche da primo ministro.

Ma fra piani regolatori, proteste della popolazione e sentenze della magistratura, alla fine aveva sempre dovuto fare un passo indietro. Finché non è diventato il padrone assoluto del Paese. Il presidente non vuole smettere di ammaliare la platea internazionale con cantieri faraonici. A fine giugno inizieranno i lavori per il Kanal Istanbul, il «secondo Bosforo», che costerà oltre 15 miliardi di dollari. Panorama ne aveva parlato nei mesi scorsi: il canale artificiale rischia di diventare una nuova occasione per scatenare dispute tra Stati e provocare uno scempio ambientale senza precedenti.

In realtà, Erdogan ha utilizzato la costruzione di moschee anche all’estero, trasformandole in una sorta di pedine per marcare la presenza (e l’influenza) turca su un determinato territorio. Si calcola che negli ultimi 10 anni Ankara abbia fatto realizzare almeno 2.000 moschee in giro per il mondo. Tutto merito dell’efficienza del Toki, la potente Authority per la pianificazione edilizia, ma dietro c’è di più. «Erdogan da tempo sta cercando di elevare la Turchia a un livello superiore nello scacchiere globale» dice a Panorama Selim Koru, analista del think tank Seta. «Per fare questo ha bisogno di aumentare l’influenza del Paese all’estero e la religione può rappresentare un alleato molto prezioso per raggiungere questo scopo».

Il leader turco sa di poter contare sull’aiuto, anche economico, dei Fratelli musulmani, che in lui vedono l’elemento di punta per penetrare in Stati dove la loro influenza era ancora relativamente ridotta. I luoghi di culto, una volta realizzati, vengono gestite dalla Diyanet, l’Autorità per gli Affari religiosi turca, di nomina governativa, con il compito importante di scegliere gli imam che predicheranno nelle strutture. Erdogan ha avviato questa politica nelle nazioni dove la minoranza turca è maggiore, quindi soprattutto in Germania.

Poi il trend delle «moschee made in Ankara» ha iniziato a prendere piede in modo consistente e ne sono spuntate come funghi a centinaia, di diverse dimensioni, nei principali continenti. L’ultima inaugurata in pompa magna all’estero è stata quella nel centro di Tirana, in Albania, nella zona dei Balcani dove la Turchia sta facendo sentire maggiormente il suo «soft power». L’edificio, per gli standard locali, è mastodontico tanto da mettere in ombra anche il Parlamento, che si trova poco lontano. Questo in un Paese dove i musulmani sono il 57% della popolazione. Proprio i Balcani rappresentano una regione dove i piani edilizi del presidente sono stati particolarmente esuberanti. Prima di costruirne di nuove, ha provveduto a fare restaurare le moschee di epoca ottomana, anche per dare una continuità storica fra l’impero di ieri e l’ambizione della Turchia di oggi.

Per il resto sono comparsi cantieri ovunque, spesso inaugurati da Erdogan, che sfrutta queste occasioni e si accredita come punto di riferimento per i musulmani di ogni Paese, non rinunciando quasi mai a una retorica che sottolinea la compattezza del mondo islamico, in chiave di contrapposizione all’Occidente. Ad Accra, in Ghana, la Turchia ha edificato il centro di preghiera più grande di tutta l’Africa occidentale, per la tutto sommato modica cifra di 10 milioni di euro. In Somalia, solo nel febbraio scorso, hanno finito di costruirne tre, che si vanno ad aggiungere alle decine già presenti.
Ankara è molto attiva anche in Asia centrale, una maxi regione altamente strategica che sta cercando di contendere alla Russia e dove deve vedersela con la presenza sempre più importante della Cina.

Ma la Mezzaluna sa di poter contare su legami linguistici e religiosi. I primi li consolida con le scuole, i secondi appunto con le moschee, in territori dove spesso, a causa della laicizzazione forzata durante il periodo comunista, la fede ha conosciuto un forte risveglio. Detto fatto: a Bishkek, in Kyrgyzstan, è stata eretta la moschea più grande in quest’area asiatica. Edificata sulle rovine di un teatro e prima ancora di un cimitero cristiano, è la copia esatta della moschea principale di Ankara, la Kocatepe, e ora rappresenta uno dei monumenti più visitati della capitale kirghisa.

Ma luoghi di culto sono stati costruiti anche in posti non a maggioranza musulmana, come il Maryland. Ankara è da tempo in trattativa con il Venezuela e persino con Cuba, perché venga realizzata una moschea anche lì. Finora, ovunque sia andato, Erdogan ha trovato porte aperte ai suoi progetti, che spesso, oltre alla costruzione di moschee e scuole coraniche predono anche grandi infrastrutture.

C’è però un Paese che si prepara a lanciare un guanto di sfida al numero uno di Ankara. In Francia, la costruzione della maxi moschea di Strasburgo, una delle più grandi d’Europa, è bloccata. Il motivo è che il luogo di culto dovrebbe essere gestito dal Millî Görüs, organizzazione vicina ai Fratelli musulmani, in cui ha militato Erdogan in gioventù e che non ha firmato, a gennaio, la «Carta dei principi per un Islam francese» promossa da Emmanuel Macron contro l’Islam politico ed eversivo a seguito dell’orribile omicidio del professor Samuel Paty, lo scorso ottobre.

La vicenda potrebbe generare nuove, forti tensioni fra il numero uno di Ankara, che aveva fatto presente di voler inaugurare la struttura, e il capo dell’Eliseo. Fra i due leader c’è freddezza e Macron ha già accusato Erdogan di intromissione negli affari interni francesi. Il presidente della République, in questo momento, sembra l’unico ad aver capito che l’abitudine della Turchia di fare politica in altri Paesi attraverso nuove moschee va fermata.

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