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Boris al tramonto, ma il Regno Unito è già oltre

Boris al tramonto, ma il Regno Unito è già oltre

La sfiducia al premier Johnson è un passaggio drammatico della politica post Brexit. Il Paese, tuttavia, nonostante crisi interna e internazionale, ha posto le basi per un futuro. Anche senza Europa.


Game over, Boris. Curioso come anche le carriere politiche più sorprendenti possano concludersi di botto, scivolando sulla buccia di banana dell’ennesimo scandalo sessuale, sull’ultima bugia spacciata per dimenticanza. Il caso Christopher Pincher – il deputato scoperto a molestare ubriaco due colleghi, delle cui poco specchiate attitudini, denunciate in passato, il premier britannico si era detto ignaro – è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La lettera spedita da un ex funzionario del Foreign Office alla Commissione parlamentare incaricata di vigilare sugli standard di condotta dei politici nazionali (che rivelava come Johnson sapesse tutto fin dal 2019), ripresa poi dal blog di Dominic Cummings – ex braccio destro di BoJo che aveva giurato vendetta al suo vecchio boss da quando era stato defenestrato da Downing Street – hanno fatto il resto, dando la stura a un diluvio di dimissioni che hanno decretato la caduta del primo ministro in un gioco di ripicche e colpi di scena degni di una commedia shakespeariana.

Adesso il partito conservatore punta a rifarsi il prima possibile una verginità e a scegliere un successore, il prossimo 5 settembre, in grado di tracciare una frattura con tutto ciò che è stato il mandato Johnson, anche se questo significa affrontare il rischio di buttare il bambino con l’acqua sporca. Tuttavia sembra essere l’unica opzione possibile, per una forza politica in crisi d’identità che ha perso la fiducia dei suoi elettori e rischia una pesantissima sconfitta alle prossime elezioni politiche, la cui tempistica non è affatto scontata, viste le forti pressioni da parte dei partiti dell’opposizione per un voto anticipato. In lizza, tra i candidati figurano ex amici e avversari di sempre tra cui l’ex cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, osteggiato dai sostenitori del premier come la fedelissima ministra degli Esteri Liz Truss. Tutti pronti a sedersi sullo scomodo scranno che di BoJo e a guidare il Paese meglio di lui, almeno così promettono.

Johnson, che ha accettato di dimettersi come leader del partito, ma punta a rimanere come Primo ministro fino all’insediamento del suo sostituto, seppur con poteri ridotti, si appresta a lasciare un Paese che arranca, come tutto il mondo, con un’inflazione oltre il 9 per cento. Il debito pubblico percentuale resta molto più basso di quello di molti altri Paesi europei compresa l’Italia, ma in maggio ha toccato il 100 per cento e nei prossimi mesi potrebbe sfondare anche questo tetto. L’incremento dei prezzi e il conflitto in Ucraina hanno fatto innalzare il costo della vita con livelli mai visti negli ultimi quarant’anni, proprio mentre molte categorie di lavoratori essenziali nei settori dei trasporti, del Servizio sanitario nazionale e dell’istruzione scendono in sciopero chiedendo aumenti salariali che, se ottenuti, rischierebbero di aggravare la crisi.

La situazione che troverà il successore di Johnson sarà quindi difficile, ma chi ora accusa che il suo governo non abbia fatto nulla di buono e l’unica notizia positiva sia stato il rialzo temporaneo della sterlina scattato alla notizia delle sue dimissioni, è perlomeno ingeneroso. Il mondo della finanza, dato continuamente per spacciato, non è mai stato così florido e negli ultimi anni il governo ha messo a punto strategie ad hoc per sostenere e promuovere scienza, ricerca e innovazione. Nel luglio 2021 l’allora ministro per l’Innovazione e ricerca del business Kwasi Kwarteng ha illustrato un piano denominato «Innovation strategy» che si propone di spingere grandi, piccole e medie aziende britanniche, a investire in progetti sperimentali. Le risorse economiche che verranno stanziate coprono la cifra record di 22 miliardi di sterline e serviranno anche ad attuare la formazione del personale, trascurata negli anni precedenti alla pandemia. Tra le sette strategie tecnologiche indicate nel sito del governo consultabile da tutti, ha la priorità quella relativa alle tecnologie che utilizzano l’energia verde, divenuta essenziale, soprattutto quando la Russia ha chiuso i rubinetti del gas ai «nemici occidentali».

Con una mossa che non ha mancato di suscitare polemiche anche da una parte dell’imprenditoria nazionale, sempre il governo conservatore ha deciso di riservare 4 miliardi di sterline da investire entro il 2030 in tecnologie che adotteranno l’idrogeno, una potenza «green» in grado di convertire attività ora inquinanti, ma utilizzabile pure nel settore del trasporto pesante e ferroviario. «Il nostro obiettivo» aveva proclamato Kwarteng, «è creare 9 mila nuovi posti di lavoro entro i prossimi 10 anni fino ad arrivare a 100 mila nel 2050». Se l’attuale crisi politica potrebbe, alla fine, pesare negativamente sulle rosee prospettive di breve e medio termine del ministro conservatore, è lo stesso Paese a essersi portato avanti negli ultimi due anni. Il lockdown durato mesi, il temporaneo svuotamento della City, la diffusione dello smartworking hanno indotto le imprese a tener conto delle esigenze modificate dei dipendenti, soprattutto dei pendolari su tratte di lunga percorrenza.

Dallo scorso giugno più di tremila lavoratori di 60 compagnie sparse in Gran Bretagna – dalla Royal Society of Biology alla società di dispositivi medicali di Manchester, fino a un negozietto di fish and chips nel Norfolk – stanno prendendo parte a un progetto pilota che si protrarrà nei prossimi mesi e prevede una settimana di 4 giorni lavorativi a stipendio pieno. L’esperimento è diretto dai ricercatori delle Università di Oxford e Cambridge, in collaborazione con i colleghi del Boston College e con il gruppo che promuove la campagna 4 Day Week Global, convinti che un ridotto orario di lavoro possa effettivamente aumentare la produttività dei dipendenti migliorandone allo stesso tempo la qualità della vita. «Rimettere indietro le lancette dell’orologio e tornare a un sistema prepandemico non è possibile» ha spiegato l’amministratore delegato di 4 Day Week Global, Joe O’Connor. «Sempre più manager e imprenditori adottano modelli lavorativi nuovi, focalizzati sulla qualità dei risultati e non sulle quantità di ore lavorative. Anche perché i loro dipendenti sono usciti dalla pandemia con aspettative diverse e puntano a un rapporto più equilibrato tra lavoro e tempo libero».

Persino la tanto controversa Brexit, certamente non scevra da criticità, sta già portando vantaggi al Paese. Con il divorzio dall’Europa, il Regno Unito non accetta più lavoratori senza specializzazione sul suo territorio se non a particolari condizioni. Questo irrigidimento delle regole da una parte ha inasprito la carenza di forza lavoro in alcuni settori, dall’altra sta trasformando l’Inghilterra nel più grande bacino di risorse lavorative ad alta specializzazione, che invece continuano a essere le benvenute. Un mercato sempre più ampio per i cacciatori di teste brillanti che qui trovano incarichi prestigiosi e ottimamente retribuiti. Non è un caso che per i giovani italiani le fiere tech londinesi rimangano, anche dopo la Brexit, la vetrina migliore per far conoscere le loro start-up. E se i dati della Company House registrano la chiusura di 150 mila imprese nell’anno e mezzo successivo all’uscita dall’Europa, gli stessi dati fotografano la nascita di altre 200 mila, tra le quali aziende italiane. «La situazione al momento è mista» conferma il commercialista Francesco Quagliano, della società Attilio Accounting, sottolineando come la Gran Bretagna rimanga uno dei luoghi scelti dai suoi connazionali per motivi legati al fisco, assai più snello di quello italiano. L’ottimismo dell’ultima ora di chi, in Europa e nello stesso Regno Unito, intravede nella caduta di Johnson la possibilità di un rientro di Londra nell’Unione, pare destinato a infrangersi contro il famoso pragmatismo britannico, proprio della sua classe politica.

Lo ha compreso persino il leader laburista Keir Starmer. Smentendo la sua posizione di convinto «remainer», più volte ribadita ai tempi del predecessore Jeremy Corbyn, nel suo ultimo discorso che anticipava la campagna elettorale, ha deciso di «far pace con la Brexit» e considerarla un’opportunità da cogliere e migliorare, anziché un’eredità da azzerare. Indietro, insomma, non si torna. Perché se il Paese è già oltre Boris, l’unica possibilità per mantenere il vantaggio è seguirlo.

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