Annunciati come imminenti, gli «aiuti» dell’Ue dovrebbero arrivare verso la metà del 2021. E a una condizione: addio a Quota 100 e Reddito di cittadinanza. Nel governo, intanto, la confusione regna sovrana, tra progetti strabilianti, idee inverosimili ed ennesime task force…
L’impresa appare ardua. E s’era già mestamente intuito due mesi fa, quando il turbopentastellato Sergio Battelli viene riconfermato alla guida della commissione per le Politiche dell’Ue alla Camera. Ruolo strategicissimo: ora più che mai. Che Battelli, a riprova delle ferree logiche grilline, promette di adempiere grazie a comprovate esperienze nell’economia e nello showbiz: dieci anni da commesso in un negozio di animali e chitarrista della band rock ligure Red lips. La sua scuola, come i veri self-made man, è la vita. Perché, quanto a studi, il deputato purtroppo non brilla: s’è fermato alla terza media.
Ma, al pari di tanti colleghi del Movimento, giura di supplire con inarrivabile onestà e spiccato senso del dovere: «In ballo c’è una partita troppo importante per il futuro degli stati membri, alle prese con la peggior crisi dal dopoguerra». Duecentonove miliardi, per l’esattezza: quanto sette o otto manovre finanziarie in tempi normali. E invece il momento pandemico richiede sforzi eccezionali. Così l’Unione europea farà piovere sul nostro paese il Recovery Fund: 81,4 miliardi di sussidi e 127,4 miliardi di prestiti. I governanti non parlano d’altro. Sperando che nei provati animi degli italiani la messianica attesa dei quattrini sostituisca la paura del contagio.
È l’andreottiano tirare a campare. Giuseppe Conte punta ormai tutto sul nuovo Piano Marshall: «Se perderemo questa sfida avrete il diritto di mandarci a casa». Ma più il consuntivo si allontana, più il premier si frega le mani. Annunciati come imminenti, gli aiuti potrebbero arrivare addirittura nella seconda metà del 2021. E non sarà facile superare l’ostracismo dei «frugali», da Olanda a Danimarca, che temono le concessioni ai paesi cicala, tra cui l’Italia. Sembravano cambiali in bianco. Ma purtroppo c’è una parolina discriminante: «Condizionalità». Prima vedere cammello, poi pagare moneta. Un’eterna logica che però il blocco di Visegrad, tacciato di labile senso del diritto, rifugge: Bruxelles non può interferire con i nostri intendimenti.
«Se la discussione continua così, con questi toni e queste minacce di veto, si potrebbe bloccare tutto» ammette il ministro per gli Affari europei, Vincenzo Amendola. L’Ue, in cambio del suo impareggiabile sostegno, chiede intanto la revisione delle riforme emblematiche dei governi guidati dal giurista di Volturara Appula: Quota 100 e Reddito di cittadinanza.
Insomma: la politica dei Cinque stelle, l’azionista di maggioranza, va cestinata. Con l’abolizione della pensione anticipata e la riforma dell’assegno di disoccupazione, tanto per cominciare. I grillini protestano timidamente. Ma nell’attesa dei 209 miliardi si preparano perfino a incassare il Mes, da sempre considerato più limaccioso di un girone infernale.
Non che si possano biasimare gli scettici, personificati da Mark Rutte, altero premier olandese. A tre mesi dall’annuncio del maestoso piano per la rinascita, in Italia le idee non sembrano chiarissime. Mentre sindaci e governatori, fiutata la confusione, continuano a srotolare papelli pieni di improcrastinabili richieste. Eppure Giuseppi e il prode portavoce Rocco Casalino hanno perfino organizzato lo scorso giugno i roboanti Stati generali a Villa Panphilj. Una pletora di «menti brillanti», con le idee più argute e i suggerimenti più preziosi. Ma il summit è già derubricato ad allegra scampagnata. E giace in un capiente cassetto di Palazzo Chigi l’attesa relazione finale della salvifica Task force, nata per lumeggiare la Fase 2 e presieduta dall’osannato manager Vittorio Colao. Anche il prosieguo non è stato incoraggiante. Ben 558 proposte consegnate dagli indomiti enti e gli infaticabili dicasteri al Comitato interministeriale Affari europei, creato dall’ex premier Mario Monti e ora guidato dal paziente Amendola. Per i sempre bistrattati funzionari è stata un’estate sugli scudi. Tutto il giorno a scervellarsi, festivi compresi, per escogitare i progetti più strabilianti.
E cos’è che ti tirano fuori, i nostri superburocrati? La Tav Torino-Lione, per esempio: un tempo considerata il male assoluto dai Cinque stelle. Preventivo parziale: un miliardo di euro. Oppure la ferrovia Palermo-Catania-Messina, in ballo da un trentennio. Costo: 4,5 miliardi. O l’alta velocità tra Napoli e Bari, solita eterna chimera. Spesa prevista: 2,6 miliardi. E, alla voce «mezzi urbani», un altro miliardino per aiutare chi non può permettersi biglietti e abbonamenti. La fulgida prospettiva del ministero dello Sviluppo economico, il pentastellato Stefano Pautuanelli, sarebbe l’«universalità del servizio». Insomma, mezzi gratis.
Un vecchio cavallo di battaglia di Beppe Grillo. Non esattamente in linea con il liberismo europeo, ma poco importa. I quattrini ci sono. In qualche maniera bisognerà pure spenderli. O no? Del resto, lo stesso Conte aveva promesso che quei soldi sarebbero stati usati anche per la ricostruzione nel centro Italia, colpito dal sisma nel 2016. Ipotesi che pare già definitivamente tramontata.
Insomma, vista la storica portata innovatrice delle idee avanzate, il dubbio sovviene: non è che i ministeri hanno tirato fuori dagli armadi solo impolverate liste dei sogni? Eh, no. A far auspicata chiarezza, interviene Roberto Gualtieri: «Non faremo centinaia di microprogetti, ma pochi e grandi progetti» assicura il ministro dell’Economia. «A loro volta, questi saranno anche collegati da una logica a missione. Ciò che conta non è la logica burocratica del singolo progetto ma l’obiettivo complessivo che si vuole raggiungere, che richiede poi un intreccio di investimenti, riforme, policy».
Questo sì, che è parlar chiaro! Dunque, il governo passa all’azione. E, mutuando il fortunato linguaggio del tornito influencer Gianluca Vacchi, presenta lo scorso 15 settembre il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Gli amanti degli acronimi già lo chiamano Pnrr. A qualcuno ricorda il rumore di una flatulenza? Maleducati e miscredenti. Stavolta si fa sul serio: i 209 miliardi del programma Next Generation dell’Ue non possono sfuggire. Ed ecco le quaranta succose paginette che annunciano l’Italia del futuro. Un paese con una crescita che raddoppia: dallo 0,8 all’1,6 per cento. E il tasso di occupazione che vola dal 63 al 73,2 per cento. Quando accadrà il miracolo? «Nel lungo termine».
Ma occorre aver fede, ora più che mai. Il piano smussa, accorpa, condensa. Fino ad arrivare a sei, sorprendenti, «missioni» di intervento: innovazione, infrastrutture, istruzione, equità, salute e rivoluzione verde. Accipicchia. E nel dettaglio? Scorrendo le slide, ecco il completamento della fibra ottica, lo sviluppo del 5G, la digitalizzazione della pubblica amministrazione, la lotta all’abbandono scolastico, le politiche per il lavoro e il rafforzamento del sistema sanitario.
A essere puntigliosi, sembrano cose dette migliaia di volte in migliaia di convegni e interviste. Mancano cifre, budget, dati e tabelle. Ma i giallorossi, si sa, volano alto. Certo, bisognerebbe definire costi e tempi. Come ha fatto, per esempio, il pedante governo transalpino con il piano France Relance. Prevede tre macro-aree, ognuna con un budget: ecologia, competitività, coesione sociale e territoriale. A loro volta, suddivise in singole voci di spesa. Ma vuoi mettere con gli italici riassunti, coltivati da anni di sintetiche schede e poi tutti al coffee break?
Sui giornali amici, si comincia però a delineare la strategia. Intanto, Giuseppi pensa a mettere in piedi l’ennesima task force. Che si affiancherà alla già costituita cabina di regia di democristiana memoria. E al comitato interministeriale, che nell’attesa ha già ridotto il numero dei progetti: da 558 a un centinaio. Tra i sopravvissuti, ci sarebbe quindi il prolungamento ad libitum del già impossibile ecobonus per il 110 per cento. O l’istituzione di un altro bonus, green stavolta, per i manager che puntano sulla riconversione ecologica. E proprio sul verde, tema carissimo alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si punterà senza i soliti balbettamenti. Parchi, verde e zero rifiuti.
Ma, ovviamente, non mancheranno le eterne incompiute: strade, autostrade, ponti e ferrovie. Già, ma chi sceglierà? A parole, chiunque: ministri, parlamento, comitato, commissioni, sindaci, governatori. Ma l’ecumenico premier ha già assicurato che la platea dei protagonisti sarà ancor più ampia: opposizione, confederazioni, aziende e sindacati. Con il rischio che prevalga il solito consociativismo: accontentare tutti, dunque nessuno.
Entro il 15 ottobre, salvo rinvii, l’esecutivo dovrà comunque fornire a Bruxelles le linee guida, da approvare entro marzo 2021. Proprio mentre in Italia infurierà la battaglia politica per le elezioni amministrative. Non a caso, i primi cittadini d’area giallorossa in cerca di riconferma sono quelli che sventolano in alto la bandiera del Recovery. «Abbiamo presentato progetti come Roma capitale per 25 miliardi» annuncia trionfante la sindaca capitolina Virginia Raggi. Segue sterminato elenco di 159 proposte: molto più di quelle prospettate nell’intera penisola. Dalle metropolitane A, B, B1, C, e D alla cabinovia di Monte Mario, fantasmagorico impianto a fune per collegare piazzale Clodio al Ponte della Musica. E poi il rifacimento delle martoriate strade, caditoie e fognature comprese.
Indispensabili, per carità. Ma non esattamente in linea con i dettami europei. O forse sì? Del resto, nel supergenerico intento di spalleggiare le nuove generazioni, il governo italiano punta a infilare di tutto. Difatti, Giuseppi annuncia: «Nel Recovery plan ci sarà un’attenzione significativa anche per Roma. Penseremo a dei progetti rispettando caratteristiche storiche e culturali. La vogliamo più bella che mai».
Una schiarita è prevista comunque nella primavera del 2021, proprio quando si avvicineranno le elezioni. Con i Cinque stelle disposti a ogni cosa pur di non perdere almeno la guida della capitale. Ragionamenti sobri come d’uso, ma ugualmente pragmatici, si fanno all’ombra della Madonnina. Milano ha presentato 34 progetti per 4,5 miliardi. Nell’elenco ci sono le linee del metrò e la viabilità, l’innovazione digitale e l’adeguamento energetico delle scuole, la riforestazione e le arcinote vie d’acqua. Un’altra onirica lista che potrebbe finalmente convincere il dem Beppe Sala a ricandidarsi. Insomma, l’ormai famigerato piano di aiuti è destinato a diventare il tema predominante della prossima tornata: 25 capoluoghi al voto. Roma e Milano, certo. Ma anche Torino, guidata dai grillini. O Napoli e Bologna, in mano al centrosinistra.
Così perfino Giancarlo Giorgetti, eminenza grigia della Lega di rado malevola, insinua: «È importante spostare il dibattito sull’uso del Recovery. Si è parlato troppo della richiesta dei soldi e ancora poco di cosa se ne fa. Io voglio fare debito buono, come dice Mario Draghi. E vorrei sapere se quei soldi saranno usati per la Next generation oppure per la Present generation, distribuendoli a destra e a manca in modo da comprare voti».
Sindaci, governatori e assessori battono però cassa a ogni latitudine. Tutti annunciano una gragnola di miliardi in arrivo. Arrivando persino a minacciare, in caso contrario, temibili ritorsioni: «Sui fondi che lo Stato deve riconoscere al Mezzogiorno faremo le barricate» promette Vincenzo De Luca, presidente capano pronto a farsi Masaniello del Sud. Una bramosia che potrebbe sembrare legittimata da questi tempi cupi. Ma che finisce per ricordare il più classico assalto alla diligenza. Mentre Giuseppi, in versione avvocato del popolo con esperienze contabili, continua a scandire: «Non verrà sprecato un solo euro».