Tutto quello che c’è da sapere sui motivi per cui il governo è così in ritardo nelle linee guida per l’utilizzo degli ormai mitologici 209 miliardi destinati al Paese. E mentre Conte prende più tempo, Bruxelles perde la pazienza.
Più che un Paese da Recovery fund, l’Italia è un Paese da ricovero. Se mai riusciremo ad accedere ai 209 miliardi del «Recovery and resilience facility» (ovvero: «Strumento di recupero e di resilienza», il vero nome di quello che tutti chiamano Recovery fund), sarà soltanto per un miracolo immenso e prodigioso. Al governo, purtroppo, si litiga su tutto. Altri Paesi, come Germania, Francia, Spagna, Repubblica Ceca e Portogallo, hanno già presentato i loro «Piani» per accedere ai miliardi da investire nella ripresa economica. L’Italia no, è ancora nelle fasi preliminari. Eppure c’è poco tempo, perché i Piani nazionali del Recovery fund devono essere presentati tassativamente entro il 30 aprile 2021. La maggioranza giallorossa perde tempo. Ancora a fine novembre il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, proponeva una pletorica struttura di 300 esperti che avrebbe dovuto «stabilire le linee operative e realizzare i progetti». Insomma, stiamo accumulando un ritardo pericoloso e imbarazzante. Comunque sia, e intrecciando le dita, ecco tutto quello che c’è da sapere sul Recovery fund.
Che cos’è lo «Strumento di recupero e resilienza»
Varato il 17-21 luglio dai 27 capi di Stato e di governo europei, è il meccanismo con cui l’Unione europea vuole rilanciare l’economia dopo la crisi da Covid-19. Il Recovery fund ha una capacità totale di 672,5 miliardi di euro (312,5 di sovvenzioni a fondo perduto e 360 di prestiti) e si concentrerà sui Paesi che hanno subito le più gravi flessioni di Pil: le quote esatte per Stato devono ancora essere stabilite in base a Pil pro-capite, tasso di disoccupazione, popolazione e perdita cumulata di Pil.
Le materie del Recovery fund sono sei: il potenziamento della sanità; l’innovazione del sistema produttivo; lo slancio verso produzione di energia e fabbriche più «verdi», a cui a oggi dovrebbe essere destinata la parte più cospicua dei fondi, ovvero una settantina di miliardi; nuove infrastrutture per la mobilità; la scuola, la formazione, la ricerca e la cultura; l’equità sociale, di genere e territoriale.
All’Italia dovrebbero arrivare 208,8 miliardi, che fanno del nostro Paese il primo beneficiario: 81,4 miliardi dovrebbero essere aiuti a fondo perduto, gli altri 127,4 prestiti. Al secondo posto c’è la Spagna, con 140 miliardi in tutto. Il Recovery fund è ricco, ma il 17 settembre è stato disciplinato da un documento di 45 pagine, che elenca le caratteristiche dei «Piani per la ripresa e la resilienza»: se gli Stati non presentano il Piano, non accedono a questo strumento.
Che cosa dev’esserci nei vari Piani
Il problema per l’Italia è che ogni Piano dovrà essere più che accurato: minuzioso. Dovrà indicare che tipo d’investimenti si vogliono fare e gli obiettivi precisi, con previsioni di spesa ben calibrate e un programma di avanzamento che dovrà essere puntuale e veritiero, perché il passaggio dalla carta alla realtà di ogni progetto dovrà essere coerente con i calendari indicati. L’intesa sul Recovery fund stabilisce infatti che «la valutazione positiva delle richieste di pagamento (da parte di Bruxelles, ndr) sarà subordinata al soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali».
Gli impegni contenuti nei Piani devono essere assunti dal 2021 al 2023, mentre il 70 per cento del trasferimento dei fondi avverrà tra il 2021 e il 2022, e il restante 30 per cento arriverà entro il 2023. A vigilare sul rispetto delle regole sarà il Comitato economico e finanziario di Bruxelles. Del Cef fanno parte 58 membri: due alti funzionari ministeriali e delle Banche centrali per ognuno dei 27 Stati membri, più due membri nominati dalla Commissione Ue e altri due dalla Banca centrale europea.
Un rigido crono-programma
Il 17 settembre la Commissione di Ursula von der Leyen ha stabilito che i piani per accedere al RF dovranno arrivare a Bruxelles entro il 30 aprile 2021. Ma tre mesi fa gli Stati sono stati incoraggiati a «presentare progetti preliminari a partire dal 15 ottobre 2020». Poi la Commissione dovrà dare la sua valutazione preliminare e avrà tempo fino al 30 giugno. A quel punto, i Piani statali passeranno al Consiglio europeo, che dovrà analizzarli in dettaglio e avrà altri 30 giorni per l’approvazione definitiva: avverrà con voto a maggioranza qualificata, e servirà il sì del 55 per cento degli Stati membri, che insieme rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione Ue.
Se i tempi saranno rispettati, insomma, il via libera agli ultimi Piani dovrebbe arrivare entro il luglio 2021 e da lì inizierà l’erogazione dei fondi. Il Consiglio però potrà anche bocciare uno o più Piani, o parti di essi. In quel caso, lo Stato d’origine dovrà apportare le debite modifiche e ripresentare al Consiglio il Piano, o le parti che sono state rigettate.
Roma è già in ritardo
Il 16 luglio scorso Giuseppe Conte aveva garantito che il suo governo avrebbe prodotto «un primo schema di Piano per settembre», ma non l’ha fatto. In ottobre quell’impegno era slittato «a gennaio». Il 23 novembre il premier ha dovuto ammettere che il Piano «non arriverà prima di febbraio».
Insomma, il Piano per il Recovery fund italiano è ancora tutto da scrivere. Perché il lavoro sia ben fatto, però, è fondamentale capire chi lo farà. Servirebbe una struttura snella, affidata a poche menti, competenti ed esperte, oltre che a tecnici in grado di apportare le migliori esperienze internazionali: potrebbero essere i tecnici della Ragioneria dello Stato e della Banca d’Italia, e i top manager delle principali società italiane.
Il governo M5s-Pd, invece, sembra insistere col modello delle grandi task-force usate durante l’emergenza Covid, che pure hanno dato pessima prova.
Come utilizzeremo quei miliardi?
Ma c’è un altro problema. L’Italia è tra i Paesi più lenti e incapaci nella spesa dei Fondi strutturali europei, per inadeguatezza progettuale e per lentezza politico-burocratica. In media, negli ultimi sei anni, l’Italia è riuscita a utilizzarne il 40 per cento, e già questo dice tutto sulla nostra capacità organizzativa.
L’Ocse stima poi che dal 2009 al 2019 gli investimenti pubblici italiani siano crollati del 35 per cento, scendendo dal 3,7 al 2,1 per cento del Pil: e non tanto per le carenze finanziarie, quanto per l’incapacità tecnica d’impiegare le risorse. Nell’ultima Economic survey for Italy, l’Ocse ha analizzato 20 progetti strategici italiani nei trasporti e ha scoperto che «servono in media più di 15 anni per realizzare progetti di grandi dimensioni (quelli oltre i 2 miliardi di euro), mentre per i progetti più piccoli servono 6 anni. Progettazione e appalti «assorbono due terzi del tempo».
La domanda è: saremo mai in grado di utilizzare bene i 209 miliardi del Recovery fund, i soli che potrebbero salvarci dal disastro economico del Covid-19?
