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Rebus pensioni

Rebus pensioni

La scadenza imminente di Quota 102, la rigidità nei conti che rende difficili le prossime uscite, l’inflazione che brucia le rivalutazioni degli assegni, i fondi integrativi ancora troppo limitati. La previdenza è tra i primi scogli del nuovo governo. Un cantiere «aperto» che cerca un urgente equilibrio tra promesse fatte prima delle elezioni e durezza della realtà.


Provate a mettervi nei panni di un italiano che ha 63 anni d’età e che quando ha iniziato a lavorare ne aveva 25. Fatti due conti, il nostro lavoratore ha realizzato che nel 2023 potrebbe andare finalmente in pensione approfittando di Quota 102. Cioè della possibilità di lasciare il lavoro con 64 anni di età e almeno 38 anni di contributi (64 più 38 fa appunto 102). Peccato che questa opportunità scada il 31 dicembre del 2022 e dal prossimo anno torneranno in vigore le regole della riforma del 2011, che ha preso il nome dell’allora ministra del Lavoro Elsa Fornero: altro che 64 anni, si potrà andare in pensione a 67 anni di età e almeno 20 anni di contributi, oppure se si sono accumulati 42 anni e 10 mesi di contribuzione (un anno in meno invece per le lavoratrici) indipendentemente dall’età anagrafica.

Quindi il nostro ipotetico lavoratore dovrà aspettare altri tre anni, uno scalone difficile da digerire per lui e migliaia di altri italiani. E una patata bollente che finirà nelle mani del nuovo governo. Tra l’altro da gennaio scadono anche Opzione donna, che consente l’uscita a 58-59 anni di età con 35 anni di contributi, ma solo per le donne e con penalizzazione sull’assegno, e Ape sociale, che prevede di ritirarsi dal lavoro a 63 anni, con 30 o 36 anni di contributi, se si è disoccupati, disabili, si assiste un disabile o si svolge un’attività gravosa.

Che fare? Prorogare questi meccanismi in attesa di una riforma più organica, oppure introdurre subito i cambiamenti prospettati in campagna elettorale? In ogni caso il tema previdenziale metterà alla prova la nuova maggioranza, stretta tra flessibilità e rigidità, tra le promesse di garantire un’uscita flessibile e i vincoli di un bilancio dove la spesa per le pensioni è già particolarmente alta e gli spazi di manovra minimi.

I partiti dicevano…

Nel suo programma elettorale Fratelli d’Italia si è mantenuto sul vago, evitando di indicare anni di pensionamento e quote. A pagina 18, punto 10, sotto il titolo «Il diritto a una vecchiaia serena» si parla di «flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso facilitato alla pensione», «stop all’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita», «rinnovo della misura “Opzione donna”», «ricalcolo, oltre un’elevata soglia, delle “pensioni d’oro” che non corrispondono a contributi effettivamente versati», «adeguamento delle pensioni minime e sociali». Promesse tutto sommato generiche con zero cifre. Nella scorsa legislatura il partito di Giorgia Meloni aveva formulato la proposta di un’uscita a 62 anni con 35 di contributi e una penalizzazione modesta dell’assegno. Il programma di Forza Italia, fatto proprio dall’intera coalizione, dedica alla previdenza poche righe: innalzamento degli assegni minimi e sociali, senza però indicare a che livello (Silvio Berlusconi aveva parlato di mille euro) e «flessibilità in uscita dal mondo del lavoro». Invece nel lunghissimo (202 pagine) programma elettorale della Lega il capitolo dedicato alla previdenza è molto più dettagliato e dai toni perentori: «I lavoratori raggiungono il diritto alla pensione anticipata di anzianità con 41 anni di contributi. Per le lavoratrici si aggiunge un anno di contributi figurativi per ogni figlio»; «per le lavoratrici il diritto alla pensione di vecchiaia matura a 63 anni (oggi 67) di età e almeno 20 anni di contributi»; «per i giovani lavoratori con carriere interamente nel regime contributivo è riconosciuta, in ogni caso, una pensione minima di mille euro»; Opzione donna «diventa strutturale».

Quota 41, cioè andare tutti in pensione con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età, eliminerebbe Quota 102 e piace anche ai sindacati. Il segretario confederale della Cgil Christian Ferrari ha dichiarato: «Per quanto ci riguarda, noi riproporremo al prossimo governo, qualunque esso sia, esattamente la stessa piattaforma unitaria che abbiamo avanzato ai precedenti: una flessibilità in uscita a partire da 62 anni o con quota 41».

Patrizia Volponi, segretario nazionale della Cisl Pensionati e Domenico Proietti, segretario confederale Uil, sottoscrivono: «Bisogna stabilire che 41 anni di contributi bastano per accedere alla quiescenza a prescindere dall’età». Il problema è che Quota 41 costa, almeno 4 miliardi il primo anno e quasi 10 a regime. Per questo nella Lega si starebbe pensando a una soglia minima dell’età per poter aderire.

Da settimane circola anche un’altra ipotesi: cioè che Giorgia Meloni abbia valutato la possibilità di allargare Opzione donna anche agli uomini. In altre parole i lavoratori maschi dovrebbero poter accedere alla pensione a partire però dai 61-62 anni di età e con almeno 35 anni di contributi, a condizione però che accettino il calcolo interamente contributivo del trattamento: il che solitamente comporta un taglio dell’assegno variabile dal 15 al 30 per cento. Una misura che, vista la penalizzazione, potrebbe interessare ai lavoratori più ricchi, magari con un forte incentivo all’uscita dalle aziende o con redditi aggiuntivi da capitale o immobili, ma non alla maggioranza della popolazione. Del resto, già Opzione donna non ha avuto grande successo.

Non a caso il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, non ha bocciato le ipotesi di riforma attribuite alla Meloni: «Credo che siano tutte orientate a un principio giusto, ovvero quello di garantire una certa flessibilità in uscita, rimanendo ancorati tuttavia al modello contributivo. Su questo eravamo orientati anche durante il governo Draghi. Quindi, se si va in questa direzione, si è abbastanza in linea rispetto a quello che si stava facendo».

Mentre Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, ha impallinato l’ipotesi e ha definito «impercorribile» l’idea di un taglio del 30 per cento dell’assegno per poter accedere al pensionamento anticipato a 58-59 anni.

La morsa dei conti pubblici

Il dibattito sull’età pensionabile e sui soldi che intascheremo alla fine del lavoro è interessante, ma sembra non tener conto della situazione precaria dei conti pubblici. Intanto l’Italia ha indicato sulla carta una delle età pensionabili più alte del mondo, a 67 anni, senza però rispettarla nella pratica: di fatto si va in pensione in media molto prima grazie a tutte le forme di anticipo che ci siamo inventati. E con assegni più pesanti rispetto agli altri Paesi, almeno al lordo delle tasse.

Risultato: nel Def 2022 si sottolinea che tra 2019 e 2022, grazie alle varie misure che hanno scardinato la riforma Fornero, il rapporto tra spesa pensionistica e Pil ha registrato un significativo aumento, fino a raggiungere il 17 per cento nel 2020 (rispetto al 15,2 fatto segnare nel 2018), cui segue un rimbalzo nei due anni seguenti, alla fine dei quali tale rapporto è previsto tornare ad attestarsi su un livello pari al 15,7 per cento. Si tratta comunque di un livello molto elevato, al secondo posto nei Paesi dell’Ocse. In un’indagine internazionale condotta dalla società di consulenza Mercer Cfa su 44 Paesi, il sistema pensionistico italiano è solo al 32esimo posto nella classifica della sostenibilità. Insomma, non è sano.

È vero che l’Inps nel 2020, a causa dell’eccesso di mortalità dovuto al Covid, ha speso un miliardo in meno come emerge dal nono Rapporto di Itinerari previdenziali, secondo il quale si avrà fino al 2029 una spesa minore per 11,9 miliardi. Ma è una goccia nel mare. Basti pensare all’impatto dell’inflazione. L’Ufficio parlamentare di bilancio nella sua relazione dello scorso 13 settembre ha stimato che un carovita di oltre l’8 per cento rischia di costare all’Inps circa 24 miliardi in più rispetto ai 296,5 miliardi ipotizzati per il 2022. Quindi gli spazi di manovra per il prossimo governo sono abbastanza ristretti. Per esempio, secondo Alberto Brambilla, presidente del centro studi Itinerari previdenziali, la Quota 41 proposta da Matteo Salvini è troppo onerosa: «Tenendo conto della situazione delicata dei conti pubblici, Quota 41 così come è stata enunciata potrebbe essere sostenibile tra 25 anni, non prima. Perché allora non ci saranno più i baby boomer che sono nati prima del 1960 e che di solito hanno una storia contributiva completa. Oggi la misura non è sopportabile perché il sistema previdenziale verrebbe travolto dall’ondata di pensionamenti dei baby boomer. Quella ipotesi sarebbe accettabile se riservata solo a certe categorie, come chi ha fatto lavori usuranti o le donne madri. Altrimenti è troppo costosa».

Quindi torniamo alla domanda: che fare? Probabilmente la soluzione migliore sarebbe quella di prorogare Quota 102, Opzione donna e Ape sociale per tutto il 2023, mettendo mano nel frattempo a una riforma che resti incardinata su Quota 102 per consentire una certa flessibilità all’uscita dal lavoro senza scassare i conti dell’Inps. Il governo dovrebbe però migliorare la situazione dei giovani lavoratori garantendo una pensione decente anche con una storia contributiva discontinua. E le promesse di Quota 41 o di «Opzione tutti» lasciarle cadere, con la scusa che il bilancio non ce lo consente.

Le verità nascoste

Ci sono invece alcuni temi poco considerati nel dibattito sulle pensioni e che dovrebbero entrare nell’agenda del governo. Uno riguarda l’equità dell’adeguamento degli assegni all’inflazione e la perdita di potere di acquisto per quelli medi e alte. Attualmente viene applicata la rivalutazione al 100 per cento dell’indice dei prezzi sulle pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo (pari nel 2022 ad appena 6.809,79 euro lordi all’anno). Poi si scende al 90 per cento dell’inflazione per le pensioni comprese tra 4 e 5 volte il trattamento minimo e al 75 per cento dell’inflazione per le pensioni oltre 5 volte il trattamento minimo. Una simulazione realizzata per Panorama dalla società Epheso, che fornisce calcoli previdenziali a banche, assicurazioni, fondi previdenziali ha rivelato che con il costo della vita che si sta assestando all’8 per cento, una pensione di tremila euro netti mensili perde, per effetto del meccanismo solo parziale di rivalutazione, oltre 840 euro all’anno su 13 mensilità. Mentre un assegno netto mensile di 2.500 euro subisce una perdita annua di quasi 524 euro.

C’è inoltre la fregatura fiscale: come più volte denunciato da Panorama, i pensionati sono una categoria tra le più tassate, perché non godono di tutte le detrazioni riconosciute ai lavoratori dipendenti. E rispetto ai colleghi europei, hanno un reddito spesso soggetto ad aliquote meno favorevoli. Infine, il governo dovrebbe smetterla di penalizzare la previdenza integrativa.

Un secondo «pilastro» ancora troppo esile

Con il passare degli anni il rapporto tra ultimo stipendio e pensione tende a diminuire. Già oggi chi va in pensione a 64 anni percepirà più o meno il 68 per cento dell’ultimo stipendio. E in Italia la popolazione degli anziani cresce mentre i giovani non tengono lo stesso passo con il rischio di rendere non più sopportabile il peso del welfare, in assenza di una politica efficace per accogliere lavoratori immigrati. Sarebbe dunque fondamentale convincere gli italiani a iscriversi ai fondi complementari che permettono di compensare la diminuzione dell’assegno. Attualmente sono solo 9 milioni gli iscritti ai fondi integrativi e non tutti versano i soldi con continuità.

Inoltre la previdenza integrativa è stata fortemente penalizzata dal fisco, trattata peggio dei fondi di investimento.

Secondo Silvin Pashaj, presidente di Epheso, «l’obiettivo di rendere sostenibili le pensioni pubbliche implica tre interventi sostanziali realizzati dalla successione delle riforme previdenziali negli ultimi decenni: incremento dei contributi al lavoro; posticipo dell’età pensionabile; riduzione dell’importo medio degli assegni. Di questi, il terzo pone il problema concreto della sostenibilità del tenore di vita nella terza età. A questo fine il legislatore, con la riforma delle pensioni, ha introdotto il secondo pilastro pensionistico, quello della cosiddetta previdenza complementare». Che però, come abbiamo visto, ha avuto poco successo.

Eppure, nonostante il fisco abbia messo le mani nelle tasche delle società di gestione, i fondi pensione integrativi presentano vantaggi notevoli: il principale è che i contributi versati sono deducibili dal reddito imponibile nel limite di un valore annuo non superiore a 5.165 euro. Questo implica che la cifra investita nel fondo sarà maggiore di quanto sarebbe stato il risparmio individuale «sotto il materasso». La misura percentuale della maggiorazione, sull’intera somma varia dal 24 al 44 per cento circa, in funzione del livello di reddito. In altri termini, se io rinuncio a 100 euro di stipendio per metterli nel fondo, nei fatti ne sto investendo più di 124.

«Il secondo pilastro di previdenza complementare, con il suo beneficio fiscale, è uno dei pochi porti sicuri» sostiene Pashaj. Un governo di destra dovrebbe cogliere l’occasione per rilanciarlo. n

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