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Questo è il governo più a sinistra della storia

Dalla nazionalizzazione di Autostrade all’ennesimo salvataggio di Alitalia e Ilva, dal lockdown alla «dittatura» a colpi di decreti, Giuseppe Conte esibisce un dirigismo degno di una repubblica federale cinese. Una furia neostatalista che ci costerà quasi 90 miliardi.


C’è una sola cosa che il vanitosissimo Giuseppe Conte ama più del potere. Apparire. La sua passione per abiti sartoriali e pochette l’ha contraddistinto fin dal suo ingresso a Palazzo Chigi. Così sembra quasi scontato che il primo investimento del fondo pubblico per i marchi storici sia Corneliani, azienda d’alta moda mantovana. Al nobile scopo della salvaguardia del made in Italy sono destinati complessivamente 100 milioni. Robetta. Il governo si prepara alla più massiccia nazionalizzazione degli ultimi decenni.

Torna lo Stato padrone. In programma non c’è solo il rocambolesco esproprio di Autostrade, l’ennesima ciambella ad Alitalia e l’Ilva sotto le insegne tricolori. È pronta a rinascere perfino una nuova mini Iri giallorossa: Patrimonio rilancio, controllata di Cassa depositi e prestiti. Quarantaquattro miliardi di euro saranno destinati a rilevare quote di aziende private in ambasce. Sarà il ministero dell’Economia «ad apportare beni e rapporti giuridici». Quali? Anche titoli di Stato, probabilmente. Insomma, nuovo debito. Ma furbescamente differito nel tempo.

L’avvocato del popolo diventa imprenditore del popolo. Per Giuseppi è l’ultima metamorfosi: da Giulio Andreotti, il Belzebù della politica italiana, a Mao Tse-tung, il leader della «rivoluzione culturale». Non a caso, uno dei concetti più reiterati dal premier negli oltre due anni al potere. Complice la pandemia, il compagno Giuseppi ha sfoderato un dirigismo da repubblica federale cinese. Dopo aver imposto quarantene e lockdown, esautorando maggioranza e opposizione, ha perfino tentato di prorogare fino al 31 dicembre 2020 lo stato d’emergenza. Insomma, ancora decreti del presidente del Consiglio ad libitum. Una «dittatura» che ha già fatto indignare fior di costituzionalisti, è vero. Ma che ha assicurato a Conte una visibilità degna, appunto, del «Grande timoniere». Del resto, quella dei Cinque stelle per il governo di Pechino è ben più di una cottarella. Lo scorso novembre il fondatore, Beppe Grillo, si spinse addirittura a una visita privata all’ambasciata cinese. E i suoi post sul Paese asiatico continuano a grondare ammirazione. Persino gli alleati del Pd hanno accusato Luigi Di Maio, ex leader del Movimento e ministro degli Esteri, di essere troppo filocinese. Ma la fascinazione per i regimi totalitari sconfina anche in Sud America. Non a caso, frotte di detrattori hanno definito la nazionalizzazione di Autostrade «un esproprio alla venezuelana».

«Il mio cuore tradizionalmente è battuto a sinistra» diceva Giuseppi prima di venir issato a Palazzo Chigi. E pure i Cinque stelle, chiusa la parentesi con la Lega, hanno finalmente trovato una più consona dimensione ideologica, arcistatale e anti imprese. Già lo scorso settembre, dopo la nascita dell’alleanza giallorossa, sembrava il governo più a sinistra di sempre. Ma, negli ultimi mesi, pandemia e conseguente crisi hanno addirittura estremizzato la collocazione del nostro sgangherato esecutivo.

Il virus è così diventato l’occasione per ritrasformare l’economia in un satellite della politica. Con quali soldi? Beh, abbiamo appena finito di batter cassa in Europa. Con i Paesi del Nord, i cosiddetti «frugali», che osavano chiedere lumi su come avremmo speso i soldi del Recovery fund. Non è che saranno sperperati, ancora una volta, in debordante assistenzialismo? O, magari, per distribuire piogge di inservibili bonus?

Non si azzardino a ficcare il naso in casa nostra, ha intimato Giuseppi. Alla fine, l’Italia ha ottenuto da Bruxelles 208,8 miliardi: 81,4 di trasferimenti e 127,4 di prestiti. Ma c’è un vincolo, che rischia di trasformarsi in tagliola. Stavolta le riforme bisogna farle davvero: giustizia, fisco, pubblica amministrazione. L’Europa si appresta a chiedere pure la revisione di Quota 100. Per andare in pensione in Italia bastano, mediamente, meno di 32 anni di lavoro. In Olanda ne servono oltre 40. Come spiegare che quei miliardi generosamente concessi serviranno magari a smettere di lavorare otto anni prima?

Anche sull’acquisizione di Autostrade, Bruxelles sarebbe pronta a eccepire. Vaglielo a spiegare che sarà solo la prima pedina del domino dirigista. I prossimi a ricevere le premure giallorosse saranno Alitalia e Ilva. Nazionalizzare a oltranza. S’affaccia una nuova, anzi vecchissima, stagione: quella della Partecipazioni statali. Nemmeno i governi manifestamente di sinistra avevano osato tanto. Anzi. L’ex segretario del Pci, Massimo D’Alema, si vantava: «Noi abbiamo fatto più privatizzazioni di chiunque altro!». E il primo leader del Partito democratico, Pierluigi Bersani, non perde ancora adesso occasione per ricordare le sue lenzuolate liberalizzatrici. Invece il premier, dopo aver riappoggiato lo spadone sulla rete viaria, esulta: «Hanno vinto i cittadini!». Certo, come quando venne varato il reddito di cittadinanza: «Abbiamo abolito la povertà!» strillava Di Maio.

Così, perfino l’ex ministro dell’Economia del primo governo Conte, Giovanni Tria, è costretto a eccepire sulla transazione con Aspi: «Non siamo il Venezuela, anche se per certi aspetti a volte sembra. Gli investitori internazionali si sentono molto esposti e poco sicuri nel nostro Paese».

Non importa. Il volere dei Cinque stelle, complici i democratici, sia fatto. Nel mentre il debito italiano, lo scorso maggio, ha toccato il record di 2.507,6 miliardi: più 40,5 rispetto al mese precedente. Eppure, l’ingresso del pubblico nelle aziende private torna a essere dirimente. E già si può ipotizzare il costo di questa furia neostatalista: quasi 35 miliardi, se ci limitiamo alle acquisizioni in divenire. Che arrivano a sfiorare la novantina se però si aggiunge la sostanziosa dotazione conferita a Patrimonio rilancio: 44 miliardi.

A far di conto, cominciamo da Autostrade. Quanti danari serviranno per ottenere il controllo di Aspi? La cifra non è ancora nota. Ma Cassa depositi e prestiti, che gestisce il risparmio postale degli italiani, sarà costretta a un aumento di capitale di tre miliardi. Poi, ovviamente, bisognerà riammodernare la rete. Il gruppo Benetton stimava 14,5 miliardi nei prossimi anni. L’onerosa incombenza, adesso, sarà caricata sulle nostre fragili spalle. Ma ovviamente bisognerà farsi carico pure dei debiti: 9,5 miliardi. Fanno, quindi, 27 miliardi. Altra operazione che s’annuncia impegnativa è Alitalia. C’è il progetto di una nuova società, controllata dal ministero dell’Economia. Si parte dai 3,35 miliardi stanziati dal decreto Rilancio: più di quelli destinati alla sanità, martoriata dal Covid. Con un’aggravante: quei soldi rischiano di non bastare. E poi c’è l’Ilva. Per l’acciaieria del gruppo ArcelorMittal si prospetta un ulteriore ritorno alle pubbliche origini. Costo stimato: 4,5 mi-liardi. Nel capitale dovrebbe entrare Invitalia, guidata dall’infallibile Domenico Arcuri, commissario bis all’emergenza coronavirus. Ossia l’implacabile manager che aveva promesso mascherine a un euro, tamponi per tutti e la prodigiosa app Immuni.

Nessuna di queste nazionalizzazioni è legata però alla crisi economica nata dall’emergenza sanitaria. Alitalia è fallita dal 2017. Ora è in amministrazione straordinaria. E viene artificialmente tenuta in vita con prestiti ponte, ma verso il nulla. Tanto che perfino l’Antitrust europeo indaga per violazione delle norme sugli aiuti di Stato. Insomma, non è la pandemia a mandare a gambe all’aria il nostro baraccone volante. Ma è diventata l’ennesimo pretesto.

Anche l’Ilva è in crisi da tempo. E per di più con un contenzioso pendente. Giuseppi lo definiva «la battaglia legale del secolo». Fallita ogni mediazione, ha ritirato fuori l’uovo di Colombo: accaparrarsi pure le acciaierie tarantine. Paga il solito Pantalone. Pure stavolta è il virus a creare il contesto favorevole. E anche nel caso di Autostrade il contagio non c’entra nulla. Dopo due anni passati ad annunciare «la caducazione della concessione», il giurista di Volturara Appula, nonostante una vita passata a sciogliere garbugli, ha tagliato la testa al toro: confiscare, grazie. Dimentico dell’indimenticabile gestione dell’Anas. Inefficienze, corruzione e cinque ponti caduti in quattro anni.

Non ha nulla a che fare con il virus neanche la paventata fusione tra Tim e Open Fiber. Eppure sarebbe l’ennesima nazionalizzazione, sempre tramite Cdp. Stavolta è Grillo, padre dell’alleanza tra Pd e Cinque stelle, ad avanzare la proposta. La società non è riuscita a digitalizzare l’Italia, pontifica l’Elevato. S’avanzino, dunque, i salvifici giallorossi. Un nuovo ritorno al passato. E, in questo caso, altro che crisi. Per la compagnia telefonica, l’imperante smart working è diventato piuttosto un’occasione di sviluppo.

Ma il progetto più audace resta quello di Patrimonio rilancio. Eccolo: dopo il Covid, l’Italia può rialzarsi solo grazie a capitali pubblici nelle aziende private. «Uno Stato capace di farsi imprenditore è ciò di cui oggi abbiamo bisogno» certifica Maurizio Landini, segretario della Cgil. Il fondo sarebbe nato da un’idea del direttore generale di via XX Settembre, Alessandro Rivera. Con il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, storico di solida formazione marxista, che avrebbe subito avvallato entusiasta. Del resto, il suo dicastero pullula di collaboratori e consigliori con lunga e fidata militanza a sinistra. A partire dal capo della segreteria, Ignazio Vacca, figlio del filosofo comunista Giuseppe e considerato una sorta di ministro ombra. Insomma, dietro il fondo si intravede la solita smania centralista.

La controllata di Cdp dovrebbe investire fino a 44 miliardi. Serviranno a comprare quote di «imprese che versano in difficoltà finanziaria». Almeno 5 miliardi verrebbero conferiti subito dal ministero dell’Economia. Una nuova Iri, insomma. Che, spiega il decreto Rilancio, durerà 12 anni. Potrà acquisire società con sede legale in Italia e un fatturato annuo superiore a 50 milioni di euro. «L’impiego di risorse pubbliche è giustificato purché siano complementari, e non prevaricanti, rispetto al mercato» avverte Innocenzo Cipolletta, presidente dell’Aifi, associazione italiana del private equity. «Devono essere interventi temporanei. Che, superata la crisi, consentano di ristabilire logiche di mercato e concorrenza». Insomma, stavolta bisognerebbe comportarsi da veri investitori: salvare le aziende, remunerare il rischio, vendere al migliore offerente.

Beato chi ci crede. Visti i precedenti, è lecito nutrire più di qualche dubbio. La mano pubblica ha sempre trasformato qualunque cosa abbia toccato in carrozzoni e carrozzine. Perché, adesso, le cose dovrebbero andare meglio? «In tutto il mondo si sta discutendo di un intervento dello Stato, vista la mancanza di capitali privati» ammette il senatore leghista Alberto Bagnai, presidente della commissione Finanze a Palazzo Madama e membro della Commissione parlamentare di vigilanza su Cdp. «Il problema dirimente resta però in che modo farlo. Chi decide quali imprese aiutare? C’è una strategia o si danno i soldi a capocchia? Sarà il ministero dell’Economia a controllare?».

La risposta è sempre la stessa: chissà. Intanto, l’ormai onnipresente Cgil ha già annunciato la prima operazione del fondo per i marchi storici di interesse nazionale: i dieci milioni di euro investiti in Corneliani. L’azienda di moda maschile, in crisi da tempo, potrà riprendere a produrre. Lo Stato, dunque, si metterà a cucire perfino gli abiti sartoriali. Non c’è da sorprendersi. Mai come oggi, regna il disordine. Momento irripetibile per i giallorossi. Lo insegnava, appunto, il compagno Mao: «Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione, dunque, è eccellente».

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