Era un predestinato, un figlio d’arte. Le donne con la toga impazzivano al suo cospetto. Al punto da condividere con lui sogni per cui servirebbe un’analista: «Tu mi abbracciavi, ma poi scappavi via» ha digitato, per esempio, una nota pm antimafia. Persino i dirigenti della Zecca di Stato si rivolgevano a lui per riuscire a interloquire con i ministeri. Nel suo primo ufficio, quello di Reggio Calabria, lo ricordano per la straordinaria capacità di incastrare, nei suoi quattro giorni di lavoro da pendolare sullo Stretto, partite di calcetto e cene a cui partecipavano magistrati di primo piano come l’ex ministro Nitto Palma.
Ma nelle chat di Luca Palamara, oggi scansato da quasi tutti i colleghi, viene fuori ciò che questo magistrato è stato per Roma. Frequentava politici di primo piano come Nicola Zingaretti, Marco Minniti e Luca Lotti (sembrerebbe anche Matteo Renzi, detto M. nelle chat), cantanti, attori (da Antonello Venditti a Raoul Bova), allenatori di calcio (Luciano Spalletti e Claudio Ranieri).
Lo zenit di questo Re Sole della magistratura si raggiunse il 13 febbraio 2018 quando al Viminale si riunì il gotha delle istituzioni per commemorare suo padre Rocco, morto prematuramente nel 1988, alla vigilia di un bilaterale con gli Stati Uniti. Palamara senior è stato infatti l’uomo che ha gettato le basi per la cooperazione penale e fu il principale consigliere di Bettino Craxi durante la crisi di Sigonella con il governo americano. Nel corso della commemorazione di due anni fa i relatori ricordarono che Rocco fu autore delle più importanti estradizioni dell’epoca, con cui furono assicurati alla giustizia personaggi del calibro di Licio Gelli, Michele Sindona, Francesco Pazienza e i mafiosi coinvolti nell’indagine Pizza connection di Giovanni Falcone.
Al trentennale della scomparsa intervennero le principali toghe italiane, a partire da Giuseppe Pignatone, diversi componenti del Csm e, a fianco di Palamara, gli allora ministri Minniti e il Guardasigilli Andrea Orlando. Le foto di quel giorno sono emblematiche dell’influenza che aveva il magistrato ai tempi dei governi di centro sinistra. Ma Palamara non è solo politica. È molto di più. Come rivelano queste storie ancora inedite.
La lista di chi ha fatto anticamera davanti alla sua stanza quando era consigliere del Csm è piuttosto fitta e si ricostruisce attraverso i messaggini che Palamara ha scambiato con la sua storica segretaria Sabrina Tolu che gli annunciava chi fosse in attesa.
La stanza di compensazione
Noi ci limiteremo a un mero elenco di magistrati (ma a fare la fila non c’erano solo loro): l’avvocato generale in Cassazione Francesco Salzano, i procuratori di Bologna e Tivoli Giuseppe Amato e Francesco Menditto, il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli (in quota Area, il cartello delle toghe progressiste), il capo della Direzione nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, la sua vice Maria Vittoria De Simone, l’ex ministro del governo Monti Filippo Patroni Griffi, i procuratori generali di Ancona e Caltanissetta Sergio Sottani e Lia Sava, l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Francesco Minisci, i presidenti dei Tribunali di Perugia, Palermo e Catrovillari Mariella Roberti, Salvatore Di Vitale e Natina Praticò (di Area), il magistrato distaccato al ministero degli Esteri Maria Teresa Covatta (ex moglie di Giuseppe Cascini), il gip dell’inchiesta Consip Gaspare Sturzo, i pm Stefano Pizza, Sergio Colaiocco, Francesco Soviero, Stefano Dambruoso, già parlamentare di Scelta civica, Alessia Sinatra e Antonio Saraco (ex componente della giunta dell’Anm).
Altri incontri erano organizzati, come si evince sempre dalle chat, dal giudice napoletano Francesco Cananzi, attuale segretario di Unicost, che fungeva da mediatore, portando i visitatori nella stanza di Palamara. Tra questi c’erano anche Soviero, Catello Maresca e l’attuale presidente del Tribunale di Tempio Pausania Giuseppe Magliulo. Uno dei più assidui tampinatori dell’ex consigliere era l’attuale presidente di Unicost Mariano Sciacca, tanto che i Palamara boys immaginarono scherzosamente di mettere «una tassa di stazionamento» nei corridoi del Csm.
Un palafreniere del Giglio magico
Palamara tra il 2014 e il 2018 si è comportato come un guardaspalle giudiziario del governo Renzi e del Giglio magico. Come è già stato raccontato su La Verità, aveva messo nel mirino il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, colpevole di aver fatto arrestare i genitori dell’ex premier e di volersi trasferire a Roma, dove era indagato l’ex braccio destro di Renzi, Luca Lotti; provò a far da mediatore nei rapporti tra il Giglio magico e la procura capitolina durante l’inchiesta Consip e a difendere il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, titolare dell’inchiesta su Banca Etruria, e Pier Luigi Boschi, il padre della ex ministra Maria Elena.
Ma a questo puzzle manca un tassello. Il 31 marzo 2016 Federica Guidi, allora ministro dello Sviluppo economico del governo Renzi, si dimette dopo la pubblicazione di alcune trascrizioni di conversazioni non penalmente rilevanti tra la donna e il suo compagno Gianluca Gemelli, interessato a un emendamento del governo. Il ministro non finisce sul registro degli indagati, ma la Procura di Potenza inizia a convocare i ministri renziani, tra cui la Boschi.
Nel pool dei pm titolari dell’inchiesta c’è Laura Triassi che, qualche mese dopo, presenterà una domanda per la poltrona da procuratore capo lasciata libera da Luigi Gay, nel frattempo andato in pensione. Ma al Csm qualcuno deve non aver preso in considerazione qualche titolo della pm, che alla fine ha presentato un ricorso al Tar del Lazio. A marzo 2019, ben tre anni dopo, vince il ricorso. E i giudici amministrativi denunciano «omissioni che appaiono incomprensibili, per la rilevanza delle esperienze, e certamente integrano un importante difetto di istruttoria».
Come Jep Gambardella
Valerio Fracassi, ex capogruppo al Csm della corrente Area, il 6 marzo apprende la notizia e scrive a Palamara: «Annullamento a favore della Triassi! E sai cosa voglio dire. È necessario che Ermini (David, vicepresidente del Csm, ndr) parli con Mattarella (Sergio, il presidente della Repubblica, ndr)». Palamara risponde: «Cose da pazzi. Assolutamente sì». Per pensare di smuovere il presidente della Repubblica sulla nomina della Triassi doveva esserci qualcosa che i Palamara boys valutarono come molto preoccupante. Non sono attori né calciatori tanto meno politici: eppure Palamara era conteso come una star nei salotti romani insieme con il suo vecchio procuratore e amico, Giuseppe Pignatone, soprannominato nelle chat «Pigna» o «Pi», come il giovane protagonista del romanzo di Yann Martel La vita di Pi. Due ospiti ambiti che bisognava «prenotare» con mesi di anticipo per una serata. Come Simonetta D’Alessandro, il gip del caso Fini-Tulliani, scomparsa improvvisamente a 58 anni per un malore, che dovette mettersi in fila per la prenotazione un mese prima.
Il 1° marzo 2018, si rivolge a Palamara al quale è legata da profonda amicizia, quasi una venerazione, avvisandolo che la serata conviviale si farà di lì a una quarantina di giorni. «Ho avuto ok di Pigna per cena… Abbiamo scelto data del 9 aprile 2018… Tu sei sempre il re… Pigna mi ha detto cose importanti che ti riguardano, sono felice». E aggiunge: «Soddisfatto, Maestà?». La D’Alessandro ricorda al boss di Unicost anche un altro appuntamento: «Poi faremo una seconda cena a otto. Se tu e Pigna vorrete. Solo voi due avete i contatti e il potere di dire sì». Sembra di sentire il Jep Gambardella La Grande Bellezza mentre dice: «Io non volevo solo partecipare alle feste, io volevo avere il potere di farle fallire!».
Un tocco da Achille Lauro
Palamara doveva essere visto come lo storico armatore Achille Lauro, utile anche per risolvere i problemi economici. Il 17 novembre 2017 il pm catanese Andrea Norzi gli scrive: «Caro Luca, io e mia moglie (Anna Trinchillo) dobbiamo avere la terza valutazione di professionalità dal Csm. Siamo stati nominati nel 2004 e l’hanno già avuta quasi tutti i colleghi del nostro concorso. Siccome è quella con l’aumento e siamo in grave difficoltà economica, potresti controllare e farmi sapere quando dovremmo avere la valutazione dal Csm? Grazie mille». Tre giorni dopo Palamara lo aggiorna: «Norzi: la commissione ha deliberato il positivo riconoscimento il 13 novembre 2017. Deve andare in plenum. Trinchillo pronta deve andare in commissione». Poi si riprende a parlare di calcetto e quando Palamara atterra a Catania, Norzi gli trova un «bravo portiere» e «un ottimo centrocampista». Ognuno fa i favori che può.
Il senso delle toghe per il Brasile
Un giorno, il presidente della corte d’Appello di Palermo Matteo Frasca chiede a Palamara una copia degli atti desecretati di Giovanni Falcone, visto che ha in visita circa 50 colleghi brasiliani ai quali vorrebbe donare il volume. Risposta di Palamara, tra il serio e il faceto: «Assolutamente sì. Basta che dopo organizzi cena con colleghe brasiliane». Le donne sudamericane devono essere una passione segreta dei magistrati. Nelle scorse settimane La Verità ha raccontato che il sostituto procuratore generale della Cassazione Mario Fresa si divideva tra due avvenenti brasiliane e che il rocambolesco ménage à trois finì in Pronto soccorso.
Anche nelle carte dell’inchiesta di Palamara spunta una signora dello Stato di Bahia che agli investigatori perugini, a caccia di amanti e regali, ha raccontato la sua versione sulla presunta relazione settennale con Palamara. Anas Cilia, classe 1967, sostiene di aver conosciuto il magistrato nel 2010, quando era baby sitter a casa sua: «Dopo che avevo lasciato il lavoro mi chiamò varie volte con il numero nascosto e alla mia risposta attaccava. Un giorno mi ritelefonò e mi disse il suo nome». Iniziarono a sentirsi senza uscire. «Era lui a chiamarmi in quanto io non avevo il suo numero di telefono».
Una versione che lascia più di un dubbio. La donna assicura, però, che dopo tre mesi, nel maggio 2011, accettò un invito. Da allora sarebbe iniziata una lunga relazione clandestina, durata sino a fine 2018. Ai magistrati, la donna ha raccontato: «Ho parlato con lui l’ultima volta l’8 giugno 2019. Da due anni avevo memorizzato il suo numero di telefono». I pervicaci inquirenti di Perugia hanno chiesto alla testimone se avesse ricevuto regali, e lei: «Non gli ho mai chiesto regali né lui me li ha fatti. Ha solo pagato qualche volta il taxi. Non mi ha chiesto di fare cose particolari. Il tempo che trascorrevo con lui era pochissimo». Su questo punto è difficile non darle credito. Palamara era uno degli uomini più impegnati di Roma e avrà certo avuto difficoltà a inserirla in agenda, tra un ministro, un attore e un procuratore della Repubblica.
L’UOMO CHE SUSSURRAVA AI MAGISTRATI

Le intercettazioni a Luca Palamara rivelano un mondo sommerso fatto di favori e carriere incrociate. Dove le toghe non esitano a tramare con i politici. Contro altri politici.
di Antonio Rossitto
Certo, l’indomito Silvio c’è sempre andato giù duro. Nei suoi ruggenti anni al comando, Berlusconi è passato dai «giudici politicizzati metastasi della democrazia» alle «correnti che hanno trasformato il Csm in una specie di terza camera politica». Eppure, ripronunciati oggi, gli stessi scomposti attacchi del Cavaliere finirebbero in cavalleria. Arriva la nemesi. Dopo aver spiato tanti potenti dalla toppa, giunge l’ora dei segreti della magistratura.
È bastato un cavallo di Troia. Non di legno, come quello escogitato da Ulisse, ma digitale: un trojan. Insomma, una cimice. Debitamente piazzata nel telefonino del pm più loquace e potente d’Italia: Luca Palamara. «Dominavo la scena dappertutto» gongola lui in un’intercettazione. Ma la sua sua carriera non è quella di un inquisitore coi fiocchi. Ha invece scalato il vertice della corrente Unicost. Poi, dell’Associazione nazionale magistrati. Fino a entrare nel Csm. È stato come lasciare un bambino in un negozio pieno di Lego. Montare, smontare e rimontare. A Palazzo dei marescialli si decidono le sorti della giustizia. E lui, con inarrivabile maestria, ha fatto e disfatto. Nomine, nomine e ancora nomine: procure, corti d’Appello, tribunali e Cassazione.
Palamara è indagato per corruzione dalla Procura di Perugia. Assieme a lui sono finiti nell’inchiesta l’ex consigliere del Csm Luigi Spina, l’amica Adele Attisani e gli imprenditori Fabrizio Centofanti e Giancarlo Manfredonia. È la storia più vecchia del mondo: presunti vantaggi in cambio di supposti favori. Ma questo, ormai, è solo il corollario. Il 20 aprile 2020, con la chiusura delle indagini, vengono depositate montagne di faldoni. Surreali come un quadro di Dalí, spumeggianti come una flûte e avvilenti come un cinepanettone. I Palamara papers sono la prova della riprova: correnti e partigianeria hanno divorato tutto.
Telefonate e interrogatori. Ma soprattutto un’infinità di messaggi. «Caro, Luca». «Carissimo, eccomi». Sessantamila pagine di arcitalianità: raccomandazioni, favori, furberie. E trame politiche: l’attiguità con il centrosinistra e le macchinazioni per fiaccare il centrodestra. A partire dal leader della Lega, Matteo Salvini. Nei «Palamara papers», insomma, c’è tutto. Tutto quello che servirebbe per disboscare la foresta delle correnti, sciogliere il Csm e ricominciare daccapo. Ma c’è il coronavirus. E, forse, la solita paura: nella giungla del potere, gli animali feriti sono i più pericolosi. Così la politica tossicchia, i giornaloni fischiettano e i cittadini sorvolano.
Le ultime rivelazioni sul mercato delle toghe, che La Verità ha svelato per prima, hanno però già infettato la giustizia italiana. Sei membri del Csm si sono dimessi. E l’indagine di Perugia rischia di allargarsi. Intanto, Palamara ha scelto la sua linea difensiva. Simul stabunt, simul cadent. Tutti colpevoli, nessun colpevole. Il lavacro è cominciato nei talk show. «Negare che le correnti siano una scorciatoia è una bugia» dice a Massimo Giletti a Non è l’Arena. «Provo disagio e senso di angoscia, non solo verso le persone comuni, ma anche verso i magistrati che ogni mattina si alzano per lavorare e sono totalmente estranei al sistema delle correnti» rivela nel salotto tv di Bruno Vespa.
I protagonisti dei Palamara papers, invece, intrigano come scafati politici. Gli stessi spesso perseguiti per inezie. Ma alla fine c’è poi tanta differenza, per esempio, con l’ex governatore lombardo, Roberto Maroni, reo di aver assunto una collaboratrice? Matteo Salvini, suo successore alla guida della Lega, è ancora più inviso alla categoria. Già, il leghista è un problema. Nell’estate 2018, la Direzione investigativa antimafia di Catania mette l’allora vicepremier sotto accusa per il presunto sequestro della nave Diciotti. La mattina del 26 agosto 2018 Renato Panvino, pure lui in servizio nella Dia etnea, scrive: «Io credo che rafforzano Salvini così». Passa qualche minuto. Palamara risponde: «Lo temo anche io». In quel concitato frangente, si muove addirittura Giovanni Legnini, all’epoca vicepresidente del Csm. «Luca domani dobbiamo dire qualche cosa sulla nota vicenda». La Diciotti, appunto. Ricapitoliamo i fatti: Salvini nega lo sbarco a 177 immigrati, ma viene indagato per sequestro di persona e arresto illegale. Il 24 agosto 2018 Palamara scrive dunque a Patronaggio, il procuratore di Agrigento che coordina l’inchiesta: «Carissimo Luigi, ti chiamerà anche Legnini, siamo tutti con te».
Il giorno dopo le correnti prendono posizione. Quattro consiglieri del Csm, tra cui lo stesso Palamara, chiedono di parlarne nel primo plenum. Ma l’accerchiamento non convince neppure alcune toghe. Tanto che il procuratore di Viterbo, Paolo Auriemma, scrive: «Indagato per non aver permesso l’ingresso a soggetti invasori. Siamo indifendibili. Indifendibili». Palamara non arretra: «Hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo». E pochi giorni più tardi, proprio a Viterbo, il magistrato incontra il ministro: «C’è anche quella merda di Salvini» informa. Delicatezze che ricordano la pervicacia con cui è stato detestato il vecchio Silvio. Ah, quelli sì che erano bei tempi… I difensori della democrazia contro l’impresentabile tycoon. La notte del 10 maggio 2019, in una confusa intercettazione ambientale, Palamara ricorda uno dei tanti scontri: «Lì è chiaro che dovevo andare contro Berlusconi». Niente di personale, per carità. Adesso il Cavaliere s’è ritirato ad Arcore. E le «toghe rosse» possono perfino permettersi di dargli ragione.
Antefatto. A marzo 2003 l’ex premier viene intervistato da Boris Johnson, allora direttore dello Spectator. Di fronte, al futuro primo ministro inglese, il fondatore di Forza Italia sbotta: «Questi giudici sono doppiamente matti! Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato». Sedici anni dopo, di fronte alle bizze calcistiche di un collega, un magistrato digita: «Ha ragione Berlusconi». E il luciferino Luca concede: «Sì, assolutamente sì. Una categoria di matti da legare».
Certo, nei Palamara papers la politica corre, ricorre e si rincorre. Assidui i contatti con Luca Lotti: già turborenziano, adesso parlamentare del Pd. Così come quelli con Cosimo Ferri: già sottosegretario alla Giustizia, ora deputato di Italia viva. Del resto lo stesso leader di Unicost, s’intuisce dalle intercettazioni, sarebbe stato pronto a candidarsi con i democratici. Ma quello che, nei Palamara papers, scorre incessante è il suk sulle nomine. Il Giornale ha calcolato: per ben 84 volte, nel plenum del Csm, si sarebbero imposti i perorati. Ferree logiche spartitorie. Tizio, di area Unicost, va a Caltanissetta. In cambio Caio, iscritto ad Area, si accomoda a Roma. Sempronio, appoggiato da Magistratura indipendente, si insedia dunque a Firenze. E chi si sottrae alla lotta, resti pure in una remota procura di provincia.
Si tratta su tutto, al di là di tutto. L’ex capo del sindacato delle toghe si sarebbe adoperato persino per la nomina del vicepresidente del Csm, l’ex deputato dem David Ermini. Ovvero il vice di Sergio Mattarella, guida suprema dell’organo di autogoverno della magistratura. Il presidente della Repubblica, già giudice della Corte costituzionale, esprime ora «grave sconcerto e riprovazione per quanto emerso». Il Csm, aggiunge, però non va sciolto. La politica, piuttosto, provveda a riformare l’organo. Impresa improba per chiunque. Figurarsi per Alfonso Bonafede, ex allievo accademico del premier Giuseppe Conte e adesso contestatissimo ministro della Giustizia.
La banda delle nomine è un’orchestra sinfonica. Il cicaleccio carpito dal trojan è incessante: raccogliere, smistare, proporre, adoperarsi. Decine e decine di colleghi chiedono informazioni, trasferimenti e promozioni. «Gli devi buttare là di mandarmi al civile, tipo alle tutele. Non va bene che io vada al riesame, non va bene come orari e cadenze». «Luca, dobbiamo portare la Dell’Erba al Massimario lo stramerita». «Mandiamola al ministero come vicecapo ispettorato, intanto entra e poi si vede». «Se passa è solo per me». «Faccio in tempo a far vincere Tescaroli». «La forzatura che dovevo fare io era per Nola, ma alla fine, vuoi andà in Cassazione? Vai in Cassazione. Fine, basta». «A Catanzaro dobbiamo fare un bel programma». «Il segretario deve fare quello che facciamo noi, dai». «Non ce lo possiamo brucià». «Come faccio a non votare Creazzo, se c’è un accordo».
Gli interessati, certo, smentiranno ogni ingerenza. Tutto a loro insaputa. E alla fine, del resto, i nomi contano poco. Conta il paventato metodo. Ci vuole stomaco. E ci vuole strategia. Quella che non mancherebbe a Francesco Cananzi, segretario generale di Unicost ed ex consigliere del Csm. A lui, informa La Verità, i magistrati attribuiscono uno strategico pizzino digitale inviato a Palamara, utile a chiarire il guazzabuglio che si preannuncia, nell’estate 2018, a Napoli e Santa Maria Capua Vetere. Segue legenda: «In giallo, quelli che devi proporre tu». C’è poi chi aspira alla presidenza della Cassazione. Al tribunale di Reggio Calabria. A quello di Pisa. Alla procura generale di Caltanissetta. «Solo tu ce la puoi fare. Con la tua grandezza e il tuo acume» scrive una papabile a Luca.
L’evocatissimo però si applica, con uguale dovizia, pure a compiti ancillari. Si sarebbe adoperato, dunque, per l’arduo test d’ingresso a medicina del figliolo di un collega al Csm. «Mi fisso l’appuntamento con il preside, che tra l’altro è pure amico mio». O per avere i biglietti gratis dell’ambita partita di Champions league Roma-Cska Mosca.
Ma è solo per rimediare a una barbarie. Anche i pargoli degli inquirenti hanno diritto a un posto in tribuna autorità, che diamine. Ed è lui quello giusto a cui chiedere: instancabile organizzatore di benefici match calcistici per la nazionale dei pm e sfegatato tifoso giallorosso. Ma pure in splendidi rapporti con il patron della Lazio, Claudio Lotito. Che lo chiama affettuosamente «Pala» e non manca di aggiornarlo costantemente: «Pala ce dobbiamo vede’ perché dovemo parla’ de un sacco de cose. Ve devo da’ delle notizie».
Solo una volta, nelle sessantamila pagine, l’ex capo magistrato diventato capro espiatorio mostra un lampo d’imbarazzo. «Non posso più vivere al Fleming» si sfoga una collega. Si riferisce a un quartiere residenziale, in collina, alle porte di Roma. «Mi aiuti a trovare casa?». Inaudito: proprio lui, colui che «dominava la scena dappertutto», chiamato a rimediare un trilocalino. Eppure, anche quella volta, Luca non si scompone. Così, cautamente, digita: «Sì certo, nei limiti in cui posso».
PROCESSO DI INVOLUZIONE

Mentre divampa la polemica sul Csm, la giustizia che riguarda i cittadini è bloccata a causa della pandemia. Tribunali senza cause, avvocati che protestano per mancanza di prospettive e, nonostante i proclami del ministro Bonafede, aggravamento dei tempi giudiziari.
di Giorgio Gandola
«Una patologia nuova su un corpo debilitato da una patologia pregressa». La sintesi sembra una diagnosi dalla pandemia, si passa solo dal camice alla toga. È quella di Andrea Pezzotta, difensore della famiglia di Yara Gambirasio nel processo Bossetti, principe del foro di Bergamo, la città martire del coronavirus. «L’amministrazione della giustizia era già un problema prima, adesso lo è ancora di più. E la ripartenza è troppo prudente, riguarda solo le urgenze. Invece la giustizia ha bisogno di certezze quotidiane».
Nelle aule è ancora tutto fermo, ripassare a settembre. I tribunali italiani sono astronavi deserte percorse da qualche volonteroso cancelliere e da indaffarati sanificatori in tuta bianca. Un mondo sospeso sopraffatto dai numeri: 15 mila processi rinviati a Roma, 11 mila a Napoli, 5.500 a Torino, 41 per cento delle sentenze vecchie in meno, 49 per cento dei nuovi procedimenti aperti. Qualcosa che si può tradurre in una parola: paralisi.
O elogio della lentezza da quando è cominciata la Fase 2 e le udienze telematiche avanzano pur con parecchie difficoltà procedurali. Il presidente della corte d’Appello di Brescia, Claudio Castelli, prova a guardare il bicchiere mezzo pieno: «In questi mesi è stato fatto il 10 per cento dei processi, ma non enfatizzerei l’arretrato perché durante la pandemia ci sono stati pochi reati e poche controversie civili».
In realtà la macchina è immobile, le cause slittano all’autunno, il ministero prevede una spesa di 50 milioni per ripartire e gli avvocati sono in subbuglio. Per far conoscere il dramma ai cittadini, nelle scorse settimane si sono esibiti in flash-mob d’impatto con toga e mascherina nelle piazze. E con la provocatoria riconsegna dei vecchi codici sulla scalinata della Corte di Cassazione in piazzale Clodio a Roma. Obiettivo della protesta, «la sospensione irreale in cui versano i tribunali italiani, ognuno dei quali chiuso nel proprio mondo. E la mancanza di un progetto di ripartenza che sia comune su tutto il territorio nazionale. Se la giustizia è sospesa, i codici non servono più».
L’obiettivo del gesto è il ministro Alfonso Bonafede che non ha mosso un dito per sbloccare la situazione, peraltro impegnato a uscire dall’assedio su temi personali scottanti come lo scandalo Palamara e la delegittimazione per la liberazione dei mafiosi. Durante il lockdown si sono persi di vista migliaia di processi anonimi e alcuni dibattimenti di grande impatto pubblico vicini alla sentenza: a Milano il Ruby-ter con Silvio Berlusconi imputato e l’Eni-tangenti Nigeria, a Torino i due con al centro la sindaca Chiara Appendino (quello per la folle notte in piazza San Carlo e quello per il presunto falso in bilancio comunale), a Genova l’incidente probatorio per il crollo del ponte Morandi, a Firenze il processo Mps con imputati Alessandro Profumo e Fabrizio Viola.
A Bergamo si attendeva la sentenza del processo Ubi Banca. «Un dibattimento importante con 30 imputati e 50 legali» spiega l’avvocato Pezzotta. «Doveva chiudersi in estate e invece ripartirà dopo sei mesi di stop. È quasi come ricominciare da zero, con un danno per tutti. Ed è impossibile ricorrere alle udienze telematiche. Zoom e Skype sono perfetti per le riunioni, prenderanno certamente piede. Hanno senso anche per le udienze di smistamento. Ma quelle decisive sono delicate, la presenza è fondamentale, contano i dettagli e l’approccio psicologico. Sono in gioco i destini di una persona, di una società. No, il processo è una cosa troppo seria per farlo via Skype».
Eppure la pubblica amministrazione ci credeva, il premier Giuseppe Conte ha sbandierato la soluzione in ogni conferenza stampa. La realtà racconta una storia diversa: l’accesso al dibattimento telematico è complicato, impervio, discrezionale. Snellisce solo a parole.
Secondo le proiezioni, a fine 2020 gli anni per chiudere un contenzioso civile in Italia saranno otto (penultimi prima della solita Grecia) contro la media europea di due. Il prossimo rapporto del Consiglio d’Europa sull’efficienza del nostro sistema giudiziario sarà devastante, con ricadute scontate sull’attrattività estera del paese. Servirebbe uno scatto d’orgoglio, ma giustizia e istruzione sembrano in fondo alla classifica delle priorità di Palazzo Chigi.
«A fare le spese di tutto questo sono ancora una volta i cittadini» sostiene Antonio Dostuni, esperto civilista e costituzionalista. «Oggi tutto si basa sul deposito delle “Note di trattazione scritta”, praticamente ciò che il difensore avrebbe chiesto al pm durante l’udienza. Si attende la replica dopo quattro giorni, è tutto cartolarizzato».
Il principale ostacolo all’udienza da remoto è la discrezionalità. Sottolinea Dostuni: «Se un avvocato per qualche motivo preferisce una tattica dilatoria, gli basta sostenere di non essere tecnologicamente attrezzato e viene rinviato tutto. A livello di pronunce il crollo è verticale, ci si rivede in autunno. Chi teme la paralisi non è fuori strada, bisogna investire sugli organici, già oggi la giustizia va avanti grazie alla magistratura onoraria».
Con un problema in più, invisibile e preoccupante, l’affanno della professione forense. «So di tanti colleghi che hanno chiesto i 600 euro per tirare avanti. Soprattutto al Sud la crisi morde e studi anche prestigiosi hanno cominciato la spending review mandando a casa i praticanti. Ricordiamoci che a Roma ci sono più avvocati che in tutta la Francia».
Per Ettore Tacchini, storico avvocato lombardo da mezzo secolo in attività, un problema serio è anche lo scollamento dall’amministrazione giudiziaria, la fatica nel rapportarsi alla macchina pubblica. «Non esiste più il rapporto diretto, difficile prenotarsi per un incontro anche a distanza. Si tratta di una complicazione nuova che si innesta su un deficit strutturale del sistema. L’insufficienza degli organici nel personale amministrativo creava scompensi già nell’ordinaria amministrazione, figuriamoci dopo una simile emergenza. Detto questo, una nota positiva esiste e riguarda la giustizia minorile. A Brescia, nonostante la pandemia, ha sempre lavorato con udienze due volte la settimana, anche in cortile. Un grande esempio». Vecchi limiti e bagliori di resistenza dentro l’astronave immobile.
Anche nuovi reati lasciati in eredità dal virus? Su questo fronte Tacchini non ha dubbi: «Vedo moltiplicarsi le cause familiari. Se il rapporto interpersonale era già in crisi, la costrizione casalinga ha acuito e fatto esplodere i dissidi. Su questo fronte ci sarà da lavorare parecchio».
Lo scenario è preoccupante, le polemiche giudiziarie delle ultime settimane sono destabilizzanti e l’assenza della politica crea un vuoto senza precedenti.
Per Salvatore Lo Giudice, avvocato di prestigio e capo degli affari legali di una primaria società di telecomunicazioni (ex Sole24Ore e Rai), l’orizzonte della giustizia italiana dopo il virus è cupo. «Come sempre accade nelle fasi di legislazione d’emergenza sono a rischio di compressione i diritti costituzionali, le garanzie processuali e il diritto di difesa. Se il sistema sanitario (lombardo) è collassato sui giornali, quello dei tribunali sembra al collasso nella realtà. E quando si riprenderà, ci si troverà di fronte all’ennesima delega in bianco conferita alla magistratura: dopo il terrorismo, la mafia e mani pulite, ecco la delega sull’emergenza sanitaria».
Lo Giudice si riferisce anche all’equiparazione Inail del coronavirus all’infortunio sul lavoro. L’accordo sancito dal governo sotto scacco delle organizzazioni sindacali è una bomba a orologeria giudiziaria. «Qualificare il Covid-19 infortunio sul lavoro in itinere equivale ad attribuire al datore di lavoro un obbligo di protezione generale non determinato dalla propria attività. Il potenziale evento lesivo del contagio esula dalla sfera di controllo dell’impresa. Con la conseguenza di contestazioni in sede penale per lesioni gravi e omicidio colposo. Salvo poi dimostrare la corretta applicazione dei protocolli di sicurezza». Avvisaglie di ingiustizie e di nuove odissee giudiziarie. «Perché a quel punto sarà tardi, in Italia il processo è più afflittivo della pena».
