Home » Tempo Libero » Cultura » Le sue prigioni

Le sue prigioni

Le sue prigioni

Dalle cifre sospette sui contagi da Covid ai silenzi sulle tragiche rivolte di marzo. Così il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (non) affronta il problema carceri.


Se il titolo non fosse già stato gloriosamente usato 184 anni fa da Silvio Pellico, prima o poi anche il ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, dovrebbe scrivere un libro intitolato Le mie prigioni. Quel che da 10 mesi va accadendo al sistema carcerario, del resto, supera ogni immaginazione: è realtà romanzesca.

È vero, il ministro grillino ha dovuto gestire la pandemia da Covid-19, un problema inedito e difficile. Ma in Italia non s’era mai visto un caos capace di scatenare rivolte in 50 prigioni, con addirittura 13 morti e danni per decine di milioni. Né s’era vista un’ondata di scarcerazioni scandalosa come quella avvenuta la scorsa primavera, per di più seguita da una contro-ondata di ricarcerazioni così precipitosa e imbarazzante da portare, in maggio, quasi alle dimissioni del ministro.

Ora, poi, con il secondo tsunami del virus, il disastro sta assumendo i contorni di un contagio che monta, impetuoso, e torna l’incubo di rivolte e stragi. Il romanzo delle prigioni di Bonafede comincia proprio dagli ultimi dati sui contagi, che sono allarmanti e misteriosi.

Dai numeri pubblicati online dal ministero della Giustizia, e aggiornati al 29 novembre, non si sa nemmeno quanti siano i reclusi morti nella seconda ondata: cinque, secondo quanto sostengono le agenzie di stampa. Il ministero scrive solo che su 53.489 detenuti avrebbero contratto il Covid in 897, cioè l’1,7%, e giura che in 826, cioè il 92%, sarebbero «asintomatici»: 40 starebbero male e verrebbero «gestiti all’interno degli istituti», mentre 31 sarebbero gravi e ricoverati in ospedale.

Dei cosiddetti 826 «asintomatici», non si sa dove siano stati collocati. Quel che suona più anomalo, però, è proprio che quasi tutti i detenuti positivi siano asintomatici, come se il virus perdesse la sua carica nel momento esatto in cui attraversa le sbarre di un carcere italiano. Gli studi scientifici affermano che l’assenza di febbre, tosse e altri sintomi tipici del Covid riguarda circa un quinto dei contagiati. Possibile che soltanto nelle nostre prigioni la quota balzi al 92%?

Il mistero cresce se si guarda al dato dei positivi nella Polizia penitenziaria. Perché su 37.153 agenti, sempre in base ai dati ufficiali, i contagiati sarebbero 932. Sarebbero quindi il 2,5%, una media doppia rispetto ai detenuti. Degli agenti, però, il ministero non specifica quanti siano gli asintomatici: un’omissione strana, visto l’accurato dettaglio riservato invece ai detenuti. Si limita a dire che 898 poliziotti positivi sono «in degenza a casa», mentre 22 sono «in caserma» e altri 12 sono ricoverati in ospedale.

Nessuno osa mettere in dubbio i dati di Bonafede, ci mancherebbe. Così torna alla mente l’improvviso «salto di numeri» già compiuto dal ministro sulla scarcerazione di massa dei detenuti pericolosi. In primavera, quando era emerso che tra gli scarcerati c’erano quattro boss mafiosi, lo scandalo aveva spinto l’opposizione a chiedere le dimissioni del guardasigilli. Il 14 maggio, nella sacralità del Parlamento, Bonafede era stato costretto ad ammettere che l’emergenza Covid aveva spedito a casa ben 498 reclusi.

In particolare, aveva dichiarato il ministro, avevano ottenuto la detenzione domiciliare 195 condannati e 303 carcerati in attesa di giudizio. Tre mesi dopo, a fine agosto, Bonafede ha però rettificato quei dati: in primavera la pandemia aveva riportato a casa «solo» 223 reclusi pericolosi, ha spiegato, mentre gli altri 275 erano usciti dalle celle «per cause diverse dal coronavirus». È stata una sconcertante ammissione di confusione statistica che i giornali hanno generosamente perdonato al ministro. C’è solo da sperare che la stessa confusione non stia contagiando i nuovi dati sul Covid in carcere.

In cella, comunque, la situazione resta esplosiva. Né più né meno di quanto lo fosse tra l’8 e il 9 marzo, quando le scelte sbagliate del ministero avevano scatenato la più violenta rivolta del secolo. Di fronte al crescente numero dei positivi, infatti, a fine febbraio il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria s’era limitato a bloccare permessi, lavoro esterno e visite dei parenti. Compressa nelle celle, dove da troppi anni i detenuti vivono stipati come sardine, la paura inevitabilmente era esplosa.

In una cinquantina di penitenziari 6.000 detenuti erano saliti sulle barricate e nei disordini erano morti in 13, nove dei quali nel devastato carcere di Modena. Oltre 40 agenti erano stati feriti, mentre gli istituti avevano subìto danni per 30-40 milioni di euro.
Costretto a parlare in Senato di quei 13 morti, un numero mai visto e sconvolgente che avrebbe costretto alle dimissioni qualsiasi ministro della Giustizia, Bonafede in quei giorni aveva descritto l’accaduto aggrappandosi all’avverbio «perlopiù»: i morti erano perlopiù stranieri, aveva dichiarato, perlopiù tossicodipendenti e perlopiù deceduti per overdose da metadone o da psicofarmaci saccheggiati nelle infermerie.

Da allora, sul mistero ministeriale di quei morti (due dei quali italiani) pare stiano indagando cinque procure, ma non se n’è saputo più nulla. Il 24 novembre, invece, la Procura di Roma ha chiesto e ottenuto l’arresto di nove presunti ispiratori della sommossa a Rebibbia: erano già tutti in carcere, ovviamente, e ora ci restano con in più l’accusa di devastazione, saccheggio, sequestro di persona, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale.

Bonafede ha comunque superato un disastro anche peggiore di quello delle rivolte e dei 13 morti. Con la stessa generosità mostrata sui numeri delle scarcerazioni corretti in agosto, i giornali hanno cancellato la ruvida polemica accesa da Nino Di Matteo, il magistrato antimafia palermitano e membro del Consiglio superiore della magistratura, che aveva rimproverato il ministro di non averlo nominato al vertice delle carceri, nel 2018, e di essersi piegato a oscure pressioni. Di Matteo ha anche ventilato una regia mafiosa dietro alle rivolte carcerarie, scatenate per ottenere le scarcerazioni facili. Pronunciata dal pubblico ministero che ha guidato l’inchiesta sulla presunta trattativa fra Stato e Cosa nostra, la sola ipotesi avrebbe dovuto terrorizzare. Invece, nulla è accaduto.

Del resto, Bonafede è immune alle critiche. Oggi un altro notissimo magistrato antimafia, il napoletano Catello Maresca, segnala che il decreto Ristori del 28 ottobre potrebbe riaprire la strada alle scarcerazioni. Ma Bonafede e il governo fanno spallucce. Per alleggerire le carceri, il decreto spedisce alla detenzione domiciliare i reclusi meno pericolosi cui restino da scontare meno di 18 mesi: questo vale solo per i reati meno gravi e con l’obbligo del braccialetto elettronico per il controllo a distanza. Per evitare i disastri della scorsa primavera, il decreto vieta che i domiciliari si applichino a detenuti di mafia e indica come calcolare la durata della pena residua, in base ai vari reati.

Maresca sostiene però che la norma sia oscura e «farraginosa», tanto da creare «difficoltà operative e significativi intoppi». Il magistrato dice che «il divieto dei domiciliari rischia di diventare fittizio, nella pratica quasi mai applicabile». Per non parlare dei braccialetti elettronici, una delle storiche vergogne dell’amministrazione penitenziaria, visto che dal 2001 a oggi sono costati 200 milioni di euro, eppure non ce ne sono.

Maresca segnala che ne siano disponibili 1.200 al mese e segnala, allarmato, che le risorse finanziarie «risulterebbero nulle già alla data del 23 ottobre». Davvero: per le carceri italiane questi ultimi dieci mesi sono stati un disastro. Non l’avesse già detto il barone di Metternich del diario di Pellico dallo Spielberg, si potrebbe dire siano stati peggio di una battaglia perduta.

© Riproduzione Riservata