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La giustizia italiana bruciata dal Covid

La giustizia italiana
 bruciata dal Covid

Prima le udienze da remoto a causa della pandemia. Ora, una ripresa dell’attività a macchia di leopardo con le cancellerie in emergenza, come quella andata a fuoco a Milano. E intanto che l’arretrato cresce, il ministro Bonafede tace.


La pandemia del coronavirus, esplosa in febbraio, ha creato la prima onda anomala. Che ha cominciato a gonfiarsi in marzo, con qualche giudice contagiato e con le prime chiusure adottate da decine di presidenti di tribunale. L’onda è poi divenuta maremoto grazie a decreti controversi, alle criticatissime «udienze da remoto» e alla paralisi delle cancellerie. Infine ci si è messo anche il Consiglio superiore della magistratura, che il 22 maggio ha deciso il blocco di tutte le udienze ordinarie, allungando di fatto fino al 7 settembre le già invidiatissime ferie dei magistrati.

Così un paio di settimane fa, mentre mezza Italia osservava e soffriva il caos del rientro a scuola, e in tanti protestavano per l’approssimazione delle scelte del ministro dell’Istruzione, Lucia Azzolina, andava in scena il disastro del rientro in tribunale. Nel penale, però, il caos è decisamente peggiore che in elementari, medie e licei. Uno tsunami che mortifica la giustizia.

Eppure il ministro grillino, Alfonso Bonafede, tace. Interrogato da Panorama, oggi il ministero non sa dire quanti siano i procedimenti penali sospesi causa Covid. Rivela, però, che dal primo marzo al 31 agosto le convalide degli arresti sono diminuite di più di un terzo rispetto agli stessi sei mesi del 2019: da 3.117 a 1.942. Sul dato ha di certo inciso il crollo di reati e denunce durante la pandemia. Resta comunque il caos. E nessuno protesta, se non gli avvocati. Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali, sembra più indignato di quando, 30 anni fa, difendeva Enzo Tortora: ha scritto alle 131 camere territoriali che formano l’Ucpi e ha chiesto di «monitorare con accuratezza ciò che accade» nei 131 tribunali italiani. Caiazza chiede di «raccogliere dati, verificare quali cancellerie hanno ripreso, quali no, e perché». L’obiettivo è raccontare «la straordinaria gravità di questo scandalo: la deliberata, irresponsabile paralisi della giurisdizione».

Il problema è che la ripresa dell’attività non è stata governata dal ministero. Al contrario, è stata affidata all’arbitrio dei singoli uffici giudiziari oltre che, aggiunge Caiazza, «a quello dei sindacati del pubblico impiego» che tutelano il pur timido e inutile smart working delle cancellerie. Antonio Tafuri, presidente dell’Ordine degli avvocati di Napoli, contesta si sia di fatto imposta «la regola del lavoro agile, per non più di un giorno sui cinque lavorativi di una settimana». Ancor più che timido, in realtà, il lavoro online dei cancellieri assomiglia a un’assurda finzione scenica, perché i cancellieri non possono collegarsi da casa all’intranet della giustizia: troppo delicate sono le pagine che potrebbero scaricare, troppo importanti i segreti giudiziari da tutelare. Così le cancellerie sono il vero, letterale «buco nero» di questa crisi.

Ogni tribunale d’Italia, poi, ha il suo protocollo organizzativo: qui la cancelleria usa il fax, in quella si dialoga invece attraverso le email certificate, ma altrove bastano quelle semplici, mentre in molte l’avvocato deve prenotare un accesso fisico e mettersi in coda. Il risultato è il caos: un arretrato ingestibile e file interminabili. Senza contare che il 90 per cento dei processi penali, quelli che non riguardano imputati detenuti, sono stati automaticamente rinviati dai giudici a dopo l’estate. Così lo tsunami si è trasformato in una lunga vacanza.

Uno dei motivi centrali di questo caos è che si è provveduto tardivamente a stabilire che la Fase 2 per la giustizia poteva cominciare già a fine giugno. Il governo non ci aveva nemmeno pensato. La norma è stata introdotta con una modifica parlamentare al decreto Cura Italia, ma è accaduto soltanto verso il 30 giugno, e a quel punto era troppo tardi: i giudici ormai avevano già rinviato le udienze all’autunno, se non al 2021 e oltre.

Già in maggio, quando il disastro stava emergendo, Caiazza aveva sollecitato i penalisti a un primo monitoraggio dell’inattività giudiziaria. Si era scoperto, pur tra molti dati mancanti, che i procedimenti trattati oscillavano tra il 20 e il 25 per cento di quelli iscritti a ruolo. A Roma, tra il 21 maggio e l’11 giugno, tutte le cancellerie risultavano chiuse al pubblico. Vi si accedeva solo su appuntamento, e le richieste per prendere visione dei fascicoli venivano evase in tre giorni. La decima sezione penale di quel tribunale, presa come campione dall’Ucpi, aveva fatto 31 udienze sulle 112 in calendario nei soli dieci giorni di maggio, e ne aveva rinviate 81. Più della metà dei rinvii erano stati spinti al 2021, spesso fino ad aprile-maggio. A Milano, dove a fine marzo la cancelleria centrale dei Giudici per le indagini preliminari è andata distrutta per un incendio, che ha devastato due interi piani del Palazzo di giustizia, in maggio il monitoraggio dell’Ucpi non è stato nemmeno possibile: ci si limitava a stimare, ottimisticamente, che dal primo giugno, in Corte d’appello, sarebbe stato affrontato il 35-40 per cento dei procedimenti penali già fissati. A Bari, tra 21 maggio e 12 giugno, il tribunale aveva fatto 311 udienze sulle 1.095 previste, mentre in secondo grado su 1.100 procedimenti di secondo grado ne erano stati trattati 253.

In attesa del nuovo monitoraggio richiesto da Caiazza, ora l’incognita peggiore per la giustizia è che riparta il contagio: basterà che tra i dipendenti, i magistrati o gli avvocati spunti un positivo, e la rumba ricomincerà. Ad Ancona è accaduto il 21 agosto, ma viste le piccole dimensioni del Palazzo di giustizia sono bastate una sanificazione e il dirottamento temporaneo delle udienze in Corte d’appello. Dovesse accadere in una sede maggiore, servirà l’esorcista.

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