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La collera degli italiani contro il governo

  • «Non lasceremo indietro nessuno» aveva promesso il premier Conte. Ma dopo la paura per la pandemia ora mancano i soldi per vivere. E a crescere è solo la protesta. Banche: passato il decreto liquidità comincia un altro calvario.
  • La liquidità non arriva, la testimonianza di un imprenditore.
  • L’aumento dei prezzi restringe il carrello della spesa.

  • Come profetizzato dai buoni, il virus ha finalmente unito l’Italia. Solo che non c’è stata l’annunciata catarsi collettiva. Gli emozionanti concerti sui ballatoi di condomini in lite perenne. Gli arcobaleni, ornati dal fanciullesco «andrà tutto bene», in vista sui balconi. E la certezza che, passato il momentaccio, saremmo tornati ad amarci più di prima. Macché. La pandemia, lungi da saldare i cocci della discordia, ha frantumato milioni di vite. C’è chi ha perso il lavoro. Chi è in cassa integrazione fino a data da destinarsi. Chi non rialza la saracinesca sotto il peso dei regolamenti. E c’è chi vede scivolare i figli nel tedio.

    Simili a bestie dopo la cattività, gli italiani si sono riaffacciati per strada per scoprire l’inevitabile: nulla è uguale a prima. Siamo sull’orlo del baratro. Certo, è successo quello che nemmeno il complottista più immaginifico avrebbe predetto. Il coronavirus ha azzerato tutto. Fino a ieri, la malferma e scriteriata gestione dell’emergenza è stata compressa dalla paura. Adesso, assieme alla semilibertà, è arrivata la rabbia. L’ultimo sondaggio di Euromedia research rivela: due cittadini su tre ipotizzano gravi tensioni sociali, dalle rivolte alle proteste. E Alessandra Ghisleri, che guida l’istituto demoscopico, aggiunge: «La fiducia nei politici è al 4,6 per cento».

    Il presidente del Consiglio per caso, Giuseppe Conte, traballa. Tira aria mefitica, specie al Nord. Le partite Iva in attesa delle mancette. Gli imprenditori asfissiati dalla burocrazia. I commercianti travolti dagli impedimenti. Intanto, c’è chi prova ad aizzare. I muri cominciano a insozzarsi di bellicose scritte. Come quella apparsa qualche giorno fa a Milano e rivedicata dai Carc, i Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo: «Fontana assassino». Inquietante appendice al revanchismo anti-lombardo: sobillato, in sdegno all’odiata Lega, nei palazzi governativi e fomentato, come rivalsa socio economica, nelle regioni del Sud.

    Tutti contro tutti. E adesso? «A livello emotivo dobbiamo aspettarci due reazioni» spiega Alessandro Campi, storico e politologo, docente all’Università di Perugia. «La prima, abbastanza classica, è il rigetto della politica. E, visto che il nostro premier ama paragonarsi a Winston Churchill, è proprio lo stesso meccanismo che spinse gli inglesi a ripudiare il loro primo ministro nel 1945. Una scelta quasi purificatrice, per liberarsi dal passato opprimente: allora era la guerra, ora è la quarantena. È la ripulsa di chi vuole lasciarsi alle spalle il passato. Non si vogliono più vedere le stesse facce. Si cerca di voltare pagina. Un meccanismo psicologico che va al di là dei demeriti di Conte».

    Qual è l’altra reazione possibile? «Uno scoppio di rabbia e risentimento: non solo contro le istituzioni, ma anche fra gli italiani. La crisi ha fatto emergere ogni disuguaglianza. I privilegiati sono quelli che hanno gli agganci per fare i tamponi, una casa di 200 metri quadri e quattro computer. Ma perfino gli statali, che non sono certo capitalisti, diventano il bersaglio dell’invidia. Del resto, in questi mesi, ha fatto una bella differenza avere uno stipendio garantito o anelare al sussidio».

    C’è un assioma che peggiora lo scontento: per i riottosi, il governo giallorosso è il governo dei garantiti. Loro stessi, d’altronde, sono politici di professione. O dipendenti pubblici. Come quelli che, da sempre, fanno da architrave elettorale al Partito democratico. Mentre i simpatizzanti dei Cinque stelle rimangono, in maggioranza, pensionati e sussidiati. «Premier e ministri sconoscono l’economia e le imprese» sintetizza Campi. «Non hanno proprio le conoscenze tecniche. Non riescono a capire la differenza tra un artigiano e la Fiat, nemmeno dal punto di vista merceologico. Così, riducono tutto all’assistenzialismo. Siamo ormai allo Stato elemosiniere».

    Nel frattempo, divampano i litigi. Governo contro Regioni. Maggioranza contro opposizione. Il commissario straordinario all’emergenza, Domenico Arcuri, ormai nei panni di quell’Arthur Fonzarelli, ossia il mitico Fonzie che non riusciva a dire «ho sbagliato». In compenso, continua ad attaccare chiunque osi eccepire sul suo strepitoso operato: farmacisti, distributori e governatori. Segue domandina retorica: perché, dunque, i cittadini dovrebbero essere meno rissosi degli illustri decisori?

    Per carità, la Fase 2 sarebbe stata complicata anche con l’esecutivo più scintillante. Figurarsi per Giuseppi e i suoi, issati al potere da un accidente del destino e un erroraccio tattico del leader della Lega, Matteo Salvini. Le abborracciate misure della Fase 2 hanno però trasformato l’ostico in catastrofico. «Saranno mesi complessi e duri» preannuncia adesso Conte. «Le legittime preoccupazioni possono generare rabbia» certifica il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. «Dobbiamo evitare che la paura ceda il passo alla rabbia» suggerisce la titolare dell’Interno, Luciana Lamorgese. E perfino la più fulgida esponente degli amministratori grillini fiuta la rivolta: «Bisogna dare risposte concrete e veloci per evitare la ribellione» avverte il sindaco di Roma, Virginia Raggi.

    C’è anche chi fomenta il pandemonio. Campi ha appena curato la pubblicazione di Dopo. Come la pandemia può cambiare la politica, l’economia, la comunicazione e le relazioni internazionali (Rubettino). Nel libro, parla del montante complottismo: «Siamo all’interno di un sistema comunicativo che vuole esasperare gli animi» spiega il professore. «La gente vive in un clima di sospetto permanente. Si beve qualsiasi cosa. E tutto viene rilanciato sui social, dove c’è un tasso di emotività altissimo. L’invidia sociale e il risentimento per le disuguaglianze sono fomentati da campagne di disinformazione. Alcune sono perfino orchestrate dagli imprenditori del caos: potenze straniere quali Cina e Russia, grandi gruppi economici, pericolosi estremisti. Sono in tanti quelli che cercano di veicolare informazioni false per interesse proprio».

    Più modestamente, gli infuriati italiani inondano Facebook, WhatsApp e Telegram di gruppi che inneggiano alla rivolta. Milioni di esasperati si agitano sulla rete. Il loro astio, alimentato dalla vaghezza governativa e dalla sovrana incertezza, si riversa sui social. La bellicosa pagina Facebook «Stop Europe» ha un milione di iscritti. Mentre proliferano i gruppi che raccolgono inferociti autonomi, logorati dalla recessione e dall’inerzia. Sono in tanti a contendersi questa furente galassia. Dalle eloquenti «Partite Iva incazzate» alle più propositive «Partite Iva insieme per cambiare». Molto attivo anche il MoSa, il Movimento delle saracinesche, fondato da un fornaio genovese, Marino Poerio. Nato in Liguria a «difesa del popolo negletto di negozianti, artigiani, esercenti», il gruppo si sta espandendo in Piemonte.

    La propaganda sui social, ovviamente, alimenta la protesta di strada. In tutt’Italia, ogni giorno, va in scena la tetra ripartenza. Migliaia di negozianti continuano, simbolicamente, a consegnare allo Stato le chiavi delle loro attività. Il sabato, in decine di città, sfilano le Mascherine tricolori: distanza di sicurezza, volto coperto e posa marziale. I bersagli delle critiche, alla fine, sono sempre premier e ministri. Dove sono finiti i soldi della cassa integrazione? E i 600 euro che tanti autonomi aspettano? E i prestiti fino a 25 mila euro per cui bisogna compilare decine di scartoffie? E i vagheggiati soldi a fondo perduto? E perché la burocrazia fa morire bar e ristoranti?

    In deroga alla variante cromatica dei transalpini gilet gialli, sono nati anche i più nostrani gilet arancioni. Uniti al grido di «Vogliamo liberare l’Italia dai politici abusivi», si possono fregiare della salda guida del fu generale Antonio Pappalardo, habitué dei rovesciamenti di fronte, finito a processo per vilipendio del presidente della Repubblica dopo aver definito Sergio Mattarella «un usurpatore». Nei suoi comunicati, l’ex militare inneggia alla lotta: «Riprendiamoci il nostro Paese e la nostra libertà». L’ultima chiamata alla piazza è fissata il prossimo 2 giugno. Giornata che, in verità, si preannuncia affollata. Il centrodestra ha già annunciato, proprio il giorno della festa della Repubblica, una protesta a Roma «per dare voce al dissenso degli italiani». Senza simboli di partito né bandiere. Insomma, solo presidi a distanza: con i parlamentari in ogni capoluogo di regione. «In realtà, una vera manifestazione di piazza è prevista per i primi di luglio» anticipa Salvini. Ovvero, quando la gente potrà presumibilmente muoversi in sicurezza.

    Ma sarà l’autunno, prevedono in molti, la vera stagione dello scontento. Tornati da quel che resta delle vacanze estive, che si potrà comunque permettere appena un cittadino su quattro, il malcontento esploderà. A settembre è prevista un’altra manifestazione di piazza a Roma, organizzata dal Family day. Massimo Gandolfini, leader del movimento, racconta: «Nel momento di acme del contagio hanno prevalso paura e terrore. Così, abbiamo acconsentito alla perdita della libertà e ci siamo fidati della parola d’onore dal premier». Era il 28 marzo 2020. Gli italiani, rinchiusi nelle loro case, fissavano l’abisso. Ma Conte prometteva solenne: «Non lasciamo indietro nessuno». E ora Gandolfini sospira: «Gli abbiamo creduto. Ma, a distanza di due mesi, con rammarico dobbiamo constatare che era solo una bugia. Perché hanno lasciato indietro ben 12 milioni di famiglie: quelle che hanno figli in età scolastica». Asili e istituti chiusi, molti parchi sbarrati, centri estivi aperti da metà giugno, modestissimi aiuti economici. E adesso? «Rispondo da psichiatra: di fronte alla fiducia tradita, il primo sentimento è la delusione. Poi arriva l’amarezza, assieme alla sensazione di essere presi per il naso. Ma queste due fasi sono state ampiamente superate. Ora, siamo nel pieno dell’insoddisfazione». E domani? «Arriverà la rabbia».

    Il Family day, dopo aver riunito 2 milioni di persone a Roma nel 2016, richiama a raccolta: «Una grande e pacifica manifestazione di popolo contro l’indifferenza del governo». Intanto, avverte Gandolfini, il malcontento rischia di degenerare. «Ci sono frange di estremisti che soffiano sul fuoco e non aspettano altro che il caos» spiega. «E noi dobbiamo evitare, a ogni costo, la violenza. A partire dalla politica, che deve fare di tutto per scongiurare il pericolo. La rivoluzione francese, del resto, venne scatenata da una contraddizione come questa: da un parte, la gente si sentiva ignorata e, dall’altra, soffriva sempre di più le diseguaglianze».

    Il popolo ha fame? «Mangino brioches» disse la regina Maria Antonietta deridendo il popolo. Certo, il camaleontico Giuseppi non arriverebbe mai a tanto. Anzi: continua ad annunciare «poderosi interventi» e «poderosi piani». Ma di strabiliante c’è solo l’inconcludenza. Anche il popolo italiano ha fame? S’ingozzi di commi e decreti.


    BANCHE: PASSATO IL DECRETO LIQUIDITA’, COMINCIA UN ALTRO CALVARIO

    La collera degli italiani contro il governo
    ANSA

    Imprenditori e lavoratori autonomi che chiedono i finanziamenti previsti dal governo ma si vedono bloccare la pratica dall’istituto di credito, che impone ennesime trafile burocratiche o costi imprevisti. Ecco le storie di chi rischia di restare soffocato in un meccanismo kafkiano, dove anche le responsabilità si smarriscono.

    di Francesco Bonazzi

    Però noi la sappiamo più lunga degli inglesi, quelli che per uscire dall’Unione europea ci hanno messo quattro anni, un referendum, due elezioni generali e tre governi. Il loro premier Boris Johnson aveva detto di stare tranquilli con il Covid-19, ma poi ha rischiato di morirci e si è reso conto. A tutte le piccole imprese in difficoltà, il governo di Londra ha dato fino a 5 milioni di sterline. Per averli e riaprire bottega, bastava andare dalla propria banca con l’autocertificazione dei minori incassi e si ottenevano subito le somme perdute, con zero interessi e niente Iva per un anno. Tempo medio, un paio di giorni.

    Noi invece siamo più raffinati. La patria del Diritto. E abbiamo Giuseppe Conte, «l’avvocato del popolo», sempre ben pettinato, con la pochette intonata alla cravatta e una produzione legislativa rigidamente ispirata alla Costituzione. Ma a quella octroyée di Luigi XVIII. Al momento di aiutare le imprese, ha messo su un sistema che funziona solo per la Fca e che le banche stanno rendendo ancora più lento e complicato.

    Basta leggere le centinaia di segnalazioni arrivate alle associazioni dei consumatori e alla Commissione d’inchiesta parlamentare sulle banche guidata da Carla Ruocco (Cinque stelle), per rendersi conto che accedere alle garanzie statali previste dal sedicente decreto Liquidità può diventare un mezzo incubo. Molti vengono respinti, o dirottati abilmente su altri «prodotti bancari». Altri devono aspettare venti giorni o un mese per avere i soldi, con continua presentazione di nuovi documenti.

    Il perno del sistema sarebbe il Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, istituito presso il ministero dello Sviluppo economico. Il decreto Liquidità lo ha potenziato e per accedere alle garanzie occorre fare domanda in banca. L’istituto di credito gira la richiesta al Fondo, che a sua volta è materialmente gestito dal Mediocredito centrale (Mcc). Con oltre cinque milioni di autonomi, ci si aspettava un milione di richieste, ma al 20 maggio, dopo un mese di operatività, sono arrivate a stento 300 mila domande. Un divario simile non è spiegato solo dal fatto che gli italiani siano mediamente più liquidi di quanto sappia lo Stato. È che questo decreto è un pasticcio.

    Il provvedimento stabilisce che sui prestiti fino a 25 mila euro la garanzia è totale e, come si legge sul sito del Fondo, «senza che venga effettuata la valutazione del merito di credito». Le imprese che possono avvalersene possono arrivare a 499 dipendenti. Per i finanziamenti fino a cinque milioni, il Fondo copre il 90 per cento. Il difetto più macroscopico del marchingegno è che prevede un tetto ai costi dell’operazione solo sopra i 25 mila euro, ma non tutela in alcun modo dai costi occulti chi accede alla garanzia sotto questa soglia. Sarebbe bastato imporre di comunicare un Taeg, come quando si compra una macchina.

    Per vedere che cosa sta succedendo nella realtà, basta leggere i primi reclami. Panorama ha deciso di mantenere l’anonimato dei protagonisti solo perché ci sono contenziosi in corso e perché, più delle singole vicende, è interessante capire come si manda gambe all’aria una creatura già in partenza sbilenca. In Veneto, un grossista alimentare ha chiesto un milione di euro e si è sentito rispondere di riempire l’apposito modulo. «Ma il primo modulo era sbagliato» raccontano i legali dell’azienda. Compilata la scartoffia giusta, e persa una settimana, arriva una mail della banca che dice: «Per evitare incomprensioni con il Fondo di garanzia, vi anticipiamo che sarà necessario avvalersi di una società di consulenza che costerà l’1 per cento della somma erogata». Ai quali si aggiungono commissioni dello 0,50 per cento per l’istruzione della pratica e altri 1.500 euro (più Iva) per la presentazione delle carte a Mcc. Non è chiaro per quale motivo la banca debba imporre un consulente al cliente, ma soprattutto non si capisce perché, se lo sceglie lei, lo debba pagare lui. Pregevole la motivazione degna dei Sopranos: «Per evitare incomprensioni».

    Ma ci sono anche commercianti che chiedono meno di 10 mila euro, giusto per pagare le rate del mutuo del negozio. In tutta Italia, anche in istituti impegnati in campagne pubblicitarie dal sapore patriottico, si effettuano ricerche sul merito di credito in barba al decreto e vengono respinte domande che andavano solo girate al Fondo. Pietro, professionista romano, ha chiesto 9.400 euro, la sua banca glieli ha negati causa vecchie segnalazioni estinte, ma ancora non cancellate. «In questo periodo particolare non ho potuto effettuare la cancellazione e mi hanno negato l’erogazione» racconta incredulo.

    Ancora più folle la vicenda di un rivenditore di mobili che ha chiesto i canonici 25 mila euro e la banca glieli ha rifiutati perché è segnalato in Centrale rischi per un assegno postale da 10 mila euro coperto in ritardo. Da un lato, le Poste sono state escluse da questo meccanismo inventato da Conte (troppo semplice accreditare i contributi in posta?), dall’altro le banche puniscono il cliente anche se è stato un po’ negligente con il «concorrente» Poste.

    Procedure complicate innescano inevitabilmente vicende kafkiane. Come quella di un artigiano ligure che ha chiesto 25 mila euro e ha ricevuto la garanzia al 100 per cento dal Mediocredito. Ma poi è stato chiamato dal direttore della filiale dove ha i conti, il quale gli ha bocciato il finanziamento in quanto, durante la quarantena, aveva ritardato di due mesi il saldo della carta di credito. Ma se non avesse avuto, appunto, un «problema di liquidità», perché mai avrebbe dovrebbe accedere ai vasti benefici del Decreto liquidità? Esemplare anche la disavventura del ristoratore abruzzese che ha chiesto 20 mila euro il 16 aprile, ovvero quasi in tempo reale. Ha ottenuto il via libera del Fondo, ma la banca gli ha chiesto ulteriori garanzie. Pratica paradossale perché con questo decreto disegnato intorno alle banche, queste riescono a spostare una mole enorme di crediti chirografari nel novero di quelli garantiti (dallo Stato), avendo giusto l’accortezza di aggiungere un po’ di prestiti nuovi da motivare con l’emergenza Covid-19.

    Insomma, il loro tornaconto sarebbe già notevole senza bisogno di infierire sulla clientela. E invece, decine di piccoli imprenditori che aspettavano dalle banche «l’atto d’amore» chiesto dal premier raccontano che il proprio istituto con una mano rallenta la pratica e con l’altra offre polizze vita, prestiti a tassi stracciati, mutui, leasing, monopattini elettrici e persino rateazioni più convenienti sul debito pregresso. «Dopo venti giorni di attesa» dice Giorgio, artigiano di Orvieto «la banca mi ha telefonato dicendomi che purtroppo il Fondo di garanzia al momento è un po’ intasato, ma loro mi concedono anche più soldi e io mi posso garantire con una polizza vita che mi vendono loro». Gentili e pure previdenti.

    Eppure, il 5 maggio scorso, il ministro Gualtieri assicurava: «Il sistema bancario si sta mettendo nelle condizioni di erogare nel più breve tempo possibile». Pur facendo attenzione a non anticipare giudizi, Carla Ruocco ammette che «alla Commissione d’inchiesta arrivano tantissime segnalazioni preoccupate dai cittadini» e prevede che al decreto ci saranno tanti emendamenti.

    Del resto, lo stesso governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, lo scorso 27 aprile aveva avvertito che «un euro su dieci» prestato con questo meccanismo rischia di non tornare indietro, ma allo stesso tempo aveva invitato le banche a trasferire prontamente ai clienti i benefici del decreto Liquidità.

    Che le cose non stiano andando per il verso giusto lo si intuisce dal fatto che analogo invito a non fare meline è arrivato persino da Antonio Patuelli, presidente dell’Abi, il quale però ha dato la colpa alle norme. E anche i sindacati dei bancari sono preoccupati, perché Conte non ha disposto lo scudo penale in caso di reati fallimentari da parte dei clienti. Insomma, temono che i direttori di filiale siano chiamati a risponderne in concorso, nonostante da noi anche i fallimenti più scandalosi finiscano con sentenze dalle quali si ricava che il bancarottiere di turno ha fatto tutto da solo.

    Nella stessa Italia e con le stesse norme, però, se un piccolo imprenditore va da un intermediario finanziario del Fintech, come Credimi, chiude la pratica in due o tre giorni al massimo. Poi certo, c’è l’imbuto di Mediocredito centrale, che deve apporre il timbro finale per l’erogazione. ma la sensazione è che il problema non sia lì. Forse è più nel fatto che i nostri governanti, evidentemente, parlano inglese solo quando vanno a Londra, ai saldi di Harrods.

    UN IMPRENDITORE: «I DECRETI NON CI AIUTANO E I MESSAGGI SONO NEGATIVI

    La collera degli italiani contro il governo
    UN IMPRENDITORE: «I DECRETI NON CI AIUTANO E I MESSAGGI SONO NEGATIVI

    Mauro Tiberti, imprenditore leader del food, denuncia la situazione drammatica di chi fa impresa, ma non ha una multinazionale. E prevede: «Così la ripresa sarà impossibile».

    di Giorgio Gandola

    Una potenza di fuoco mai vista. Infatti è invisibile». Mauro Tiberti verifica in concreto il famoso discorso del premier Giuseppe Conte sul sostegno all’economia e lo trova impalpabile come i fondi attesi invano per un mese, lacunoso come i protocolli per le banche che usano il contagocce. «Numeri e soldi sono come quelli del Monopoli mentre chi sta sul campo rischia di morire». Leader nel settore del commercio del food, titolare di ODStore (65 negozi di dolciumi e mille dipendenti), concessionario italiano di Kentucky Fried Chicken, osserva la Fase 2 dal cantiere di piazza del Duomo a Milano dove sta realizzando uno spettacolare albergo di sette piani a tema dolciario. E la trova deprimente.

    Qual è il problema principale?

    La sopravvivenza. La liquidità promessa dal governo non arriva, né ci sono gli aiuti delle banche. Il decreto ha un buco enorme, privilegia le multinazionali come Fca nelle garanzie e gli imprenditori con un fatturato inferiore ai 5 milioni di euro nel credito d’imposta. Io ho mille dipendenti, ho perso 15 milioni di incasso su 18, non ho visto un euro e non riesco a individuare un meccanismo per accedere al credito.

    E quale conseguenza prevede in tanta instabilità?

    C’è chi dispensa ottimismo ma i prossimi i mesi saranno tremendi. Sento imprenditori che preferiscono tenere il personale in cassa integrazione fino a settembre per poi decidere se ripartire. Per un imprenditore vero chiudere era una vergogna, il virus l’ha trasformata in un alibi sicuro. In più vedo una riapertura al 50 per cento, un altro errore strategico del governo.

    Perché, cosa avrebbe dovuto fare?

    Quando ha deciso di riaprire, lo Stato avrebbe dovuto far dimezzare la cassa integrazione per chi rimane chiuso. Vedere la metà delle saracinesche abbassate nelle vie principali delle città è negativo per le persone, si crea diffidenza, ci si sente ancora psicologicamente in emergenza.

    Bisogna riabituarsi alla normalità.

    Così la ripresa sarà lentissima. Invece bisognerebbe trasmettere messaggi positivi, esattamente contrari a quelli di chiusura totale lanciati a inizio marzo. Invece di terrorizzare i ragazzi, il premier Conte e i sindaci dovrebbero chiedere a tutti di uscire, di andare a comprare un gelato o una maglietta, di limitare per 60 giorni le spese online.

    Dopo che per due mesi ci hanno portato tutto a casa?

    Certo. Perché il lavoro e il commercio hanno come motore le attività aperte nelle città aperte. Invece parlo con baristi e ristoratori del centro di Milano: prima 3 mila euro di fatturato al giorno, adesso 500. La morte civile. Ma gli affitti sono gli stessi e i proprietari dei muri li reclamano.

    Così si innesca un meccanismo perverso.

    Gli imprenditori si dichiarano guerra fra loro e lo Stato sta a guardare. Telefonate surreali: prima chiediamo come stai di salute, poi quando mi paghi l’affitto. Ma se ho subìto un crollo dell’80 per cento del fatturato come faccio a pagare il prezzo pieno? Servirebbe una moratoria che non c’è. Così saremo costretti a tagliare le spese e a licenziare personale.

    I suoi negozi sono tutti aperti?

    Tutti e 65, prendo bastonate sui denti quotidiane perché la gente non gira. In compenso nessun contagiato di coronavirus in due mesi. Andavamo a 300 all’ora, ci hanno fermato di colpo e adesso ci guardano morire.

    AUMENTANO I PREZZI E IL CARRELLO DELLA SPESA SI RESTRINGE

    La collera degli italiani contro il governo
    Ansa

    Il boom dei consumi alimentari e i costi della filiera produttiva fanno lievitare la spesa per gli italiani. E la non autosufficienza in settori cruciali spingerà a prossimi rincari del cibo.

    di Carlo Cambi

    C’è il rischio che il coronavirus ammorbi l’economia con la stagflazione. I segnali sono evidenti. Basta andare a prendere un caffè, con il dovuto distanziamento, per sapere che i prezzi stanno salendo: 2 euro a Milano, 1,70 a Firenze, a Vicenza s’è formato un mini-trust tra cinquanta bar del centro per portare la tazzina a 1,30 euro, il cappuccino a 1,80, il cornetto a 1,50.

    Ma ciò che sfugge a molti, comprese le sedicenti associazioni di tutela dei consumatori che protestano per i rincari, è che l’aumento del caffè, cui fanno seguito quello del conto al ristorante e di tutti i servizi alla persona, non è che la spia di un cambiamento complessivo del mercato. È proprio il caso di dire che il rincaro del grano a Chicago e il blocco del riso a Hanoi con il crollo del petrolio a Londra producono la tempesta in una tazza di caffè a Treviso. È forse il colpo di coda della globalizzazione. Il Covid-19 al suo insorgere è stato sottovalutato, ora è possibile che non si riconoscano i sintomi di una delle peggiori patologie economiche: quel circolo vizioso per cui i prezzi aumentano pur in una stagnazione economica.

    Se non ci fosse stato il crollo del greggio l’avremmo già registrata. Lo documenta l’inflazione di aprile. Avverte l’Istat: il costo della vita è rimasto inchiodato. L’incremento è zero e non succedeva dall’ottobre 2016. Ma le cose a veder bene non stanno esattamente così. Il dato è il risultato di due «forze» contrapposte. Il carrello della spesa accelera in modo marcato da +1 a +2,6 per cento, gli alimentari arrivano addirittura a un rincaro mensile medio del 2,8, la crescita dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto – detersivi, saponi, disinfettanti, prodotti per la casa – passa da +0,6 a +0,8 per cento. Nelle prime tre settimane di lockdown le vendite sono cresciute del 16,4 per cento, poi è cominciata la curva discendente.

    La Nielsen registra nell’ultima settimana d’aprile un incremento di spesa alimentare «solo» del 5,4 per cento. È solo l’energia, e dunque il petrolio e il gas, che è crollata a pareggiare il conto. Il prezzo è sceso sia nella componente regolamentata (da -9,4 a -13,9 per cento) sia in quella non regolamentata (da -2,7 a -7,6 per cento). E il boom dei prezzi rivela tre cose: la grande distribuzione non ha più il monopolio e riaprono i negozi di prossimità che hanno costi di gestione più alti; comprando online si va incontro a speculazioni; la percezione di autosufficienza alimentare dell’Italia è sbagliata.

    L’agricoltura non ce la fa a sostenere i consumi e la mancata organizzazione delle filiere aumenta i prezzi e comprime i guadagni di chi coltiva. A ciò va aggiunta una logistica che è ancora onerosa. Non c’è dunque da stare affatto tranquilli.

    Scorte a rischio nell’alimentare. Questo è il comparto dove la tensione inflattiva si è mostrata più forte. Per due fattori: la domanda disomogenea e la mutazione della distribuzione. Francesco Pugliese, amministratore delegato di Conad (ha comprato di recente Auchan e Simply Italia), ha subito colto che i supermercati dovevano essere luoghi dove le persone entravano senza stress.

    Si è battuto per la chiusura domenicale e ha affermato: «Non siamo in guerra, non mancheranno le scorte alimentari» per evitare l’effetto accaparramento. Ma non è bastato e questo ha creato tensioni sui prezzi. Secondo Coop Italia – che è guidata da Maura Latini – gli italiani hanno fatto una spesa da tempi di guerra: più carne in scatola, più minestre liofilizzate, ma soprattutto più farina, più uova, più burro con incrementi in volume che vanno dal 174 per cento per la farina al 149 del lievito e al 104 della mozzarella per pizza.

    Un carrello della spesa che ha fatto dire a Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, il network della qualità agroalimentare: «Stiamo assistendo a una polarizzazione netta fra chi può permettersi la qualità, e chi ha perso il lavoro o è in cassa integrazione e deve necessariamente concentrarsi su prodotti meno costosi». Tradotto, significa che i prezzi di alcuni prodotti saliranno ancora.

    È successo per i limoni, passati da 60 centesimi a un 1,50 euro, per le fragole arrivate a oltre 7 euro, sta succedendo per le ciliegie, i cavolfiori sono aumentati del 230 per cento, le carote raddoppiate da 40 a 80 centesimi, le arance sono salite del 50 a 3 euro, le zucchine raddoppiate a 4 euro. Ma i rincari più forti si sono avuti per le uova cresciute del 77 per cento, per la farina aumentata dell’80. E qui entra in gioco la globalizzazione. Nessuno lo conosce David McLennan, ma con la nostra farina ha molto a che fare. Lui è il ceo della Cargill, la principale società d’intermediazione di cereali, mangimi e prodotti per l’agricoltura. Ebbene, alla Borsa di Chicago il future sul grano consegna a maggio ha avuto un’impennata del 5,92 per cento in una settimana a fine marzo e il trend è in continua ascesa.

    La finanza ha abbandonato il petrolio e si è concentrata sui cereali. La Russia – primo produttore di grano al mondo – ha chiuso l’export e oggi una tonnellata di grano costa quasi il doppio di una di petrolio. Stessa cosa vale per il riso con i Paesi come il Vietnam che hanno chiuso l’esportazione: è schizzato all’insù del 5 per cento nel giro di tre giorni a fine aprile. La situazione in Italia dove importiamo due terzi del grano tenero e un terzo di quello duro che ci serve è analoga: nell’ultimo mese di emergenza sanitaria sono praticamente raddoppiati gli acquisti di farina (+99,5 per cento) e sono drasticamente saliti quelli di riso bianco (+47,3 per cento) e di pasta di semola (+41,9 per cento). La prima evidente manifestazione è che il prezzo del pane è aumentato in media di 80 centesimi al chilo con un incremento del 25 per cento.

    Tutto questo dimostra che l’Italia è ampiamente deficitaria sul piano agricolo. Ma mette in luce anche un altro dato: la grande distribuzione non ha più una funzione calmieratrice nonostante Coop e Conad abbiano deciso di tenere fermi i prezzi per tutto il tempo della crisi da Covid. Il lockdown ha spinto molti a fare spesa nei negozi di prossimità e questo ha determinato una nuova tensione sui prezzi. E, per contro, ha depresso altri comparti.

    Come il caso del latte fresco o delle mozzarelle di bufala. Chiusi bar, ristoranti e pizzerie i prezzi sono crollati, il prodotto è rimasto invenduto. E a poco sono valsi gli acquisti del Mipaaf per le mense degli indigenti. Anche il vino ha sofferto. Meno 50 per cento di vendite, prezzi inchiodati ed eccedenze in cantina.

    Intanto nei prodotti per la cura della persona… È il comparto dove i prezzi sono letteralmente impazziti. La speculazione ha colpito mascherine e guanti con rincari arrivati al 500 per cento. Una scatola di guanti, ammesso di trovarla, è passata da 3 euro per cento pezzi a 9 euro per dieci pezzi! Per le mascherine si è arrivati a rincari di 15 volte tanto. A parte il boom di vendite di alcol (+400 per cento con un aumento del prezzo di tre volte), disinfettanti e presidi individuali di protezione, c’è stato l’assalto anche su tinture per capelli (135 per cento in più), candeggina (+200 per cento), salviettine (+600 per cento), detergenti (+380 per cento). E i prezzi si sono allineati al rialzo. Anche in questo caso la distribuzione ha giocato un ruolo: se i supermercati hanno evitato i rincari, l’online è il luogo dove ci sono state le maggiori speculazioni.

    Basti dire che un pacco di pasta comprato in ecommerce è arrivato a 12 euro al chilo, una mascherina è arrivata a costare 59 euro, un flaconcino di gel igienizzante 8 euro, l’Amuchina passata da 3 a 22 euro. A dirci che se non c’è ancora una cura per l’infezione, per ora non si trova neppure quella per l’inflazione.

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