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Così l’inflazione si mangia la pensione

Così l’inflazione si   mangia la pensione

Le rivalutazioni non sono sufficienti: l’assegno, in particolare quello medio-alto, viene di sicuro colpito dal costo della vita che oggi supera l’8 per cento e tende a salire ancora. Per le casse dell’Inps, inoltre, questa situazione significa ulteriore disavanzo. Ma non basta: in Italia i trattamenti sono molto più «tartassati» che nel resto d’Europa.

Può arrivare a mille euro la perdita di potere d’acquisto di una pensione medio-alta per colpa dell’inflazione. Con il costo della vita che si sta assestando all’8 per cento, una pensione di tremila euro netti mensili dovrebbe diventare di 3.240 euro nel 2023 per mantenere lo stesso potere di acquisto di oggi. Invece, per effetto del meccanismo solo parziale di rivalutazione, l’assegno salirà il prossimo anno a 3.175,33 euro netti mensili, con una perdita di potere di acquisto di 64,67 euro al mese e di oltre 840 euro all’anno su 13 mensilità.

Se invece l’inflazione si mettesse a correre ancora più forte raggiungendo il 10 per cento, e con l’attuale situazione nel mercato energetico non è da escludere, il pensionato da tremila euro al mese perderebbe il prossimo anno 79,29 euro mensili di potere d’acquisto, corrispondenti a oltre 1.030 euro all’anno.

Questi dati sono il frutto di una simulazione realizzata per Panorama dalla società Epheso, che fornisce calcoli previdenziali a banche, assicurazioni, fondi pensioni e che vanta un’esperienza trentennale in campo previdenziale. A Epheso abbiamo chiesto di prendere in esame cinque importi medio-alti e alti (da duemila e quattromila euro netti) e di metterli a confronto con tre ipotesi di inflazione: dell’8, del 9 e del 10 per cento. Ecco alcuni risultati.

Nel caso di una pensione di duemila euro netti mensili, un carovita dell’8 per cento si mangia 31,31 euro di potere di acquisto al mese mentre se sale al 9 per cento la perdita è di 34 euro e se l’inflazione arriva al 10 per cento il taglio è di 37,38 euro. All’altro estremo, con un’inflazione dell’8 per cento una pensione di quattromila euro perderebbe 84,64 euro al mese di potere di acquisto rispetto ad una rivalutazione piena.

Cifra che salirebbe a 104,26 euro al mese in caso di prezzi al consumo che aumentassero del 10 per cento. In quest’ultimo caso, la perdita annua di potere di acquisto sarebbe di 1.355 euro.

Il danno alle tasche dei pensionati è provocato dal meccanismo automatico di rivalutazione che viene applicato ai trattamenti dell’Inps: più alta è la pensione rispetto alla minima (pari nel 2022 a 6.809,79 euro lordi all’anno), minore è l’adeguamento. «Solitamente alla prima fascia di importo viene applicato l’aumento per intero, pari all’incremento intercorso del costo della vita» spiega Silvin Pashaj, presidente di Epheso. «Per le fasce di importo successive, l’aumento è concesso invece in misura ridotta».

Facciamo un altro esempio: un assegno netto mensile di 2.500 euro dovrebbe salire a 2.700 euro per mantenere lo stesso potere di acquisto con un carovita dell’8 per cento. Invece, in base all’attuale meccanismo di rivalutazione parziale, la pensione salirebbe a 2.659,70 euro con una perdita mensile di 40,3 euro, pari ad una annua di quasi 524 euro. Nel caso di un’inflazione del 10 per cento, il taglio mensile di potere di acquisto ammonterebbe a 51,67 euro, cioè oltre 671 euro all’anno. In generale, questi importi elevati possono accusare una perdita netta relativamente consistente, dal 1,6 fino al 2,6 per cento all’anno.

«Se malauguratamente il tasso elevato di inflazione si dovesse protrarre a questi livelli per diversi anni» aggiunge Pashaj «l’importo della pensione subirebbe una contrazione non indifferente. Per esempio, dopo cinque anni si consoliderebbero perdite dall’8,5 al 13,7 per cento».

Il sistema automatico di rivalutazione delle pensioni in sostanza è fatto per tutelare i trattamenti più bassi ma non crea gravi danni ai più ricchi, purché l’inflazione si mantenga su livelli accettabili: come è stato dal Duemila fino al 2021, quando l’indice dei prezzi al consumo si è attestato quasi sempre sotto il tre per cento.

Ora, invece, la situazione è cambiata e sulle pensioni più elevate il morso dell’inflazione si fa sentire. Il problema è che anche al governo e all’Inps di Pasquale Tridico la corsa dei prezzi fa venire qualche grattacapo: i tecnici dell’istituto prevedono un aumento della spesa previdenziale di 24 miliardi nel 2023 nel caso in cui la corsa dell’inflazione si fermasse a fine anno all’8 per cento. Una tendenza che potrebbe far segnare un disavanzo patrimoniale dell’Istituto di 92 miliardi. «Non esiste un problema di sostenibilità quanto piuttosto un “alert” che segnala come serva crescita economica e produttività per un sistema in equilibrio», spiegano gli economisti dell’Inps.

I pensionati dunque devono stare all’erta. Perché con il carovita che sale, il Pil che rischia di cadere e con i conti pubblici che traballano, la tentazione del governo di mettere le mani nelle loro tasche è sempre forte. Sono o non sono il bancomat ideale da cui prelevare fondi? E dire che, come più volte denunciato da Panorama, sul fronte fiscale chi riceve un assegno di quiescenza è già tra i contribuenti più tassati, perché non gode delle detrazioni riconosciute ai lavoratori dipendenti.

È anche messo molto peggio dei «colleghi» europei: un reddito pensionistico di 20 mila euro lordi annui viene colpito con un’aliquota media del 20,5 per cento in Italia, del 19 per cento in Spagna, dell’8,7 per cento nel Regno Unito, dell’8,4 per cento in Olanda, dell’8,3 per cento in Germania e del 7,3 per cento in Francia. Risultato: un ultra 65enne single con una assegno di 26 mila euro lordi annui in Italia paga di tasse circa 5.300 euro. In Spagna pagherebbe invece 4.572 euro, in Germania verserebbe 3.900 euro e in Francia 1.926 euro.

Salario minimo, tutti gli  ostacoli 

L’introduzione del salario minimo è uno dei temi sul tavolo del prossimo governo. Ma è probabile che torni nel cassetto: non solo per l’ostilità della Confindustria capitanata da Carlo Bonomi, ma anche perché il salario minimo potrebbe avere un effetto di trascinamento per tutti gli altri stipendi, con un innalzamento del costo del lavoro. Come ricorda Alessandro Fiorelli, amministratore delegato e partner della società di consulenza e analisi retributive Job Pricing, esiste indubbiamente l’esigenza di individuare una paga minima in quanto «non esiste in Italia un salario minimo che si possa applicare a tutti i lavoratori». Ed è altrettanto vero che in Europa è aumentata la pressione affinché vengano introdotti in tutti gli Stati membri dei meccanismi per ridurre il rischio dell’allargamento della platea dei cosiddetti «working poors», cioè quei lavoratori che hanno retribuzione inferiore al 60 per cento del livello mediano nazionale.

Però l’Italia rispetta le garanzie indicate dalla Commissione: il salario minimo previsto dai contratti nazionali di lavoro è superiore al 60 per cento di quello mediano nazionale, pur essendo gli stipendi italiani fra i più bassi in Europa, e il tasso di copertura della contrattazione sindacale è superiore all’80 per cento. Di conseguenza il nostro Paese non sarebbe obbligato a introdurre il salario minimo. Inoltre, avverte Fiorelli, «un salario minimo alternativamente a 9 o a 8,5 euro lordi all’ora si collocherebbe al di sopra dei minimi tabellari dei livelli più bassi di quasi tutti i principali contratti nazionali».

Dunque, «è verosimile che questa riforma possa spingere verso l’alto anche i salari che al momento non sono al di sotto di tale soglia. Infatti, se è vero che l’aumento delle retribuzioni minime riguarderebbe soprattutto i lavoratori meno qualificati, ci sono motivi per pensare che l’incremento delle retribuzioni potrebbe coinvolgere anche il personale più qualificato per motivi di equità interna e di fidelizzazione dei dipendenti».


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