Home » Attualità » Politica » Elezioni regionali: cronaca di una sconfitta annunciata

Elezioni regionali: cronaca di una sconfitta annunciata

  • Dopo i risultati delle Regionali e del referendum costituzionale, inevitabile la resa dei conti nel governo giallorosso. Con i Cinque stelle in crisi di consensi e il Pd a caccia di una nuova leadership, neppure il premier Conte sarà al sicuro.

  • Ribaltone Marche. Dopo 50 anni di sinistra, alla Regionali è probabile la vittoria della coalizione di centrodestra con Francesco Acquaroli di Fratelli d’Italia. Così, in crisi sociale e industriale, la storica roccaforte rossa chiede di cambiare.

Alla fine, sarà solo una questione di aritmetica. Quei calcoli in cui Giuseppe Conte, promettente liceale al classico di San Marco in Lamis, non brillava affatto. Perfino Filomena De Nittis, la sua ex insegnante di matematica, fu costretta ad ammettere: «Rispondeva ai quesiti prendendo i discorsi un po’ alla larga…». L’attitudine del baldanzoso giovanotto era già chiara: meglio giocare con le parole che con i numeri. Quarant’anni più tardi, la sua permanenza a Palazzo Chigi dipende però da percentuali e consuntivi. Come finirà alle elezioni regionali? Cinque a due per il centrodestra? O, addirittura, sei a uno?

Ma se il ragazzo non eccelleva nelle discipline scientifiche, primeggiava in quelle umanistiche. E la storia ricorda oggi a Giuseppi i rovinosi precedenti. Proprio in seguito a una batosta alle Regionali, nel 2000 Massimo D’Alema si dimise da premier. E, nove anni dopo, Walter Veltroni abbandonò la guida del Partito democratico causa tracollo in Sardegna: l’uscente, Renato Soru, venne battuto da uno sconosciuto commercialista di simpatie berlusconiane, Ugo Cappellacci.

Pure stavolta, previsioni nefaste. E sondaggi che accrescono l’inquietudine. Il centrosinistra controllava quattro delle regioni al voto tra il 20 e il 21 settembre 2020. Ma sul tavolo del governo, una settimana fa, è arrivata la mefitica previsione. Sconfitta certa in Veneto, Liguria, Marche e Valle d’Aosta. Vittoria solo in Campania. E soltanto grazie al dem meno ortodosso e più inviso ai grillini: lo straripante Vincenzo De Luca. Colui che, in onore dell’ex leader pentastellato, agli albori della fortunata carriera da cabarettista amatoriale coniò l’indimenticabile soprannome: «Gigino webmaster». Con il «noto sfaccendato» e «testa di sedano», Luigi Di Maio insomma, pronto a restituir pariglia, dandogli dell’«assassino politico». Così, adesso gli schiera contro un’ex compagna di liceo nella sua Pomigliano d’Arco, di cui è stato perfino testimone di nozze: Valeria Ciarambino.

Nonostante la manovra diversiva, soltanto «Vincenzo lo sceriffo» avrebbe però sicurezza di venir eletto. Resta incerta la Puglia, dove l’ex forzista ora sovranista Raffaele Fitto è davanti a Michele Emiliano. E, sorpresa sorpresa, la Toscana. Da sempre in mano alla sinistra. La leghista Susanna Ceccardi e il dem Eugenio Giani sono divisi da decimali. Se l’opposizione dovesse spuntarla pure dove il voto è in bilico, la conta finale sarebbe impietosa: sei a uno, appunto. E lo sconsolante totale, sommando le disfatte degli ultimi anni, sarebbe di appena tre regioni su venti amministrate dal centrosinistra: Emilia-Romagna, Lazio e Campania.

Il premier, a dire il vero, aveva provato a limitare i danni: «Possibile non avere un momento di sintesi? Sarebbe una sconfitta per tutti, anche per me, se non si trovasse un modo per fare un passo avanti». Gli è andata malissimo: la sconfitta è diventata una caporetto. Altro che sintesi. A differenza degli avversari, gli alleati a Roma sono divisi ovunque. Pd, Cinque stelle e Italia viva non hanno nessun candidato unico. «Queste elezioni regionali sono particolarmente importanti» spiega a Panorama Giovanni Orsina, che dirige la School of government dell’Università Luiss di Roma. «È il primo voto post Covid. Misurerà l’impatto sulla nostra politica di un evento senza precedenti. Bisogna capire come ha spostato gli equilibri di un sistema che già s’era enormemente distanziato dal Paese: opinione pubblica ormai a destra e istituzioni a sinistra. Questa è la prima occasione per stimare lo scarto». E se le urne dovessero confermare il comune sentire? «Una sconfitta porterebbe probabilmente l’attuale maggioranza ad arroccarsi ancora di più. Questo governo è un edificio fragilissimo: non sta in piedi, ma non vuole cedere. Le elezioni anticipate istituzionalizzerebbero solo la perdita. Di ragioni per non votare, del resto, se ne possono trovare in abbondanza: il Recovery fund, la legge elettorale, la recessione…».

Potrebbero non bastare. Lo stesso Renzi sibila: «Queste elezioni sono fondamentali per la tenuta istituzionale del governo». L’esecutivo sperava di mitigare il fiasco accorpando alla tornata il referendum sul taglio dei parlamentari, cavallo di battaglia del Movimento. Sembrava un gol a porta vuota, da festeggiare davanti a Montecitorio con cori da stadio e striscioni anti casta. Ma il popolo, adesso, ha ben altro a cui pensare: economia, disoccupazione, virus. L’affluenza all’epocale quesito, stimano i sondaggisti, sarà attorno al 30 per cento. Ancora una volta: numeri indigeribili per Giuseppi. Il premier, intesa la malaparata, prova a fischiettare mani in tasca. Complice questo indimenticabile agosto, con i contagi in ripresa e la scuola nel caos, s’eclissato. Dopo mesi di tracimante e redditizio protagonismo, tace. Sperava di poter essere l’ago della bilancia, ma è un generale senza truppa.

Intanto, va tutto a catafascio. I progetti per ottenere gli agognati 209 miliardi di euro dall’Unione europea sono al vaglio di polverose cabine di regia e roboanti task force. I nuovi decreti Sicurezza sono rinviati a ottobre a dispetto dell’ondata migratoria. La riforma della legge elettorale langue. E ora le funeste previsioni sul voto. Con l’opposizione pronta a chiedere, in caso di vittoria, elezioni anticipate.

Certo, Giuseppi rimane il garante di potere e poltrone. Ha un buon gradimento personale, destinato però a crollare se dovesse gettarsi nell’agone. È già capitato a un suo illustre predecessore: Mario Monti. «Secondo lei, quanto varrebbe il mio partito?» chiese una volta a un illustre politologo. «Al massimo, il 10 per cento». Il professore andò via stizzito: «Ma se ho il consenso di un italiano su due!».

Conte ha imparato la lezione. Le Regionali potrebbero mettere tutto in discussione, ma farà ogni cosa pur di rimanere a Palazzo Chigi. È pronto a riaggrapparsi al virus, perfetta arma di distrazione di massa. Lo scorso 2 settembre è stato approvato il decreto Covid: proroga il discusso stato d’emergenza e permette di confermare i vertici dell’intelligence. Ma 28 grillini hanno platealmente disertato l’aula. Ultimo avvertimento al premier: la smetta di comportarsi come un caudillo.

Ed ennesima dimostrazione della faida in atto. I Cinque stelle sono in disarmo. Alle Politiche del 2018 erano il primo partito. Ora, nei sondaggi, ottengono la terza piazza: dal 32 al 16 per cento. Ma, a breve, potrebbero essere sorpassati pure da Fratelli d’Italia. E non serve un mago della demoscopia per predire il fracasso alle Regionali. Orsina aggiunge: «Conte, per adesso, sembra in una situazione di forza. Gli direbbe: “Sono il vostro unico garante. O resto io o viene giù tutto”. Nel mentre, magari, i partiti regolano i conti interni. Continuano a litigare, ancora più deboli e divisi. E il premier rimane a guardare, mantenendo il suo profilo istituzionale».

È lo scenario favorevole. Se dovesse anche divampare la crisi, sarebbe difficile scacciare la tentazione di un governo guidato da Mario Draghi. Evocato come salvatore della patria, potrebbe accettare l’incarico solo se chiamato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. L’ex presidente della Bce comincia a essere ben visto persino fra i grillini, che l’hanno sempre guardato circospetti. Anche Di Maio è corso a omaggiarlo: «È stato un incontro cordiale e proficuo, mi ha fatto un’ottima impressione». Capito? L’ex venditore di bibite allo stadio San Paolo di Napoli vezzeggia il celebrato banchiere europeo. Comunque sia, altro fuoco amico sull’ormai detestato giurista di Volturara Appula.

Il ministro degli Esteri, nelle ultime settimane, ha intanto ripreso la militanza. Le Regionali saranno il solito bagno di sangue. Dunque, ha deciso di far volteggiare in aria il cappio referendario con un frenetico tour. Alla vecchia maniera. Con i vecchi toni. Speranzoso che, dopo la reggenza dell’incolore Vito Crimi, il suo ritorno venga accolto tra gli hip hip hurrà.

Improbabile. Alessandro Di Battista, il Che Guevara di Roma Nord, è pronto alla guerriglia. Mentre nel Movimento si alterna il tutto contro tutti al si salvi chi può. Il fondatore Beppe Grillo, rinominatosi l’Elevato, non si occupa delle beghe terrene. L’altro manovratore, Davide Casaleggio, è più detestato della sua piattaforma Rousseau, la «democrazia diretta» diventata burletta. Ultima prodezza. Prima gli iscritti vengono chiamati a indicare i candidati alle prossime Amministrative. Poi arriva il contrordine: bisogna benedire l’alleanza con il Pd.

E sempre più pentastellati hanno smesso di versare i pattuiti 300 euro. Ma, obolo a parte, i gruppi parlamentari sono allo sbando. Un manipolo s’è addirittura schierato contro il referendum. C’è da capirli. Visti gli attuali sondaggi, gli eletti sarebbero la metà. Ma se dovesse passare l’iconico taglio, si ridurrebbero a un terzo. La scritta «Game over» continua a lampeggiare davanti a onorevoli e senatori grillini. Bye bye amati palazzi romani. Si torna alle vecchie e grame vite. Scatterà così il fuggi fuggi. Nel misto. Nel centrodestra. E ovunque alberghi la flebile speranza di venir ricandidati. Il vagheggiato congresso, in perfetto stile Prima Repubblica, potrebbe far implodere definitivamente quel che resta. La spunterà Gigino il governativo o Ale il movimentista? Chissà. Ai due litiganti, se i giallorossi dovessero schiantarsi, potrebbe in futuro aggiungersi perfino Giuseppi. In caso di prematura uscita da Palazzo Chigi, l’ex avvocato del popolo non pensa affatto a tornare tra polverosi tribunali e aule universitarie. Vista l’altissima considerazione di sé, ambirebbe al Quirinale. Ma potrebbe doversi accontentare dell’evanescente Movimento.

Meno ipotetico sembra il futuro del suo più leale alleato: il segretario del Pd, Nicola Zingaretti. E non per moto ideale, ma per solita autoconservazione. Sei a uno. O cinque a due. Conta poco. Una sconfitta dei democratici darebbe il colpo di grazia alla sua incerta guida. Il presidente del Lazio ne è talmente certo da aver inviato un’accorata lettera a Repubblica, storica lavanderia dei panni sporchi democratici. Incipit: «In queste settimane è cresciuta una critica molto forte e anche pretestuosa sulle difficoltà di trovare un equilibrio nei rapporti tra il Pd, Cinque stelle e Italia viva». Dunque, i pupari abbiano almeno il coraggio di uscir fuori dall’ombra: «Chi vuole votare lo dica». Ma alla missiva segue assordante silenzio. Del resto, perché anticipare il delitto perfetto?

Eppure, tra i riottosi, ci sono persino i capigruppo alla Camera e al Senato: Graziano Delrio e Andrea Marcucci. Il primo invoca l’uso del Mes, malvisto dai grillini. Il secondo attacca platealmente il ministro dell’Istruzione, Lucia Azzolina, pentastellata di complemento. Ai cronici problemi con gli alleati, nelle ultime settimane si sono aggiunte diatribe contingenti. Una parte dei democratici s’è schierata per il no al referendum. Posizione legittimata perfino da Romano Prodi, indimenticato padre nobile. E poi, sussurrano al Nazareno, «siamo troppo subalterni ai Cinque stelle». Che, tra l’altro, continuano a nicchiare sulla nuova legge elettorale, caposaldo della tentennante politica dem.

Così crescono gli sfascisti. La batosta potrebbe essere provvidenziale. Meglio tenersi alla larga dalla propaganda. C’è già anche il nome del nuovo segretario: Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia Romagna. Nel segno del vagheggiato riformismo, direzione centro, potrebbe convincere al clamoroso ritorno all’ovile la pecorella nera e smarrita: Renzi. Dopo aver ritrovato smalto con il ribaltone dell’agosto 2019, il «senatore semplice di Scandicci» è tornato nella detestata marginalità. Un anno fa nasceva Italia viva. «Immaginate cosa riusciremo a fare quando arriveremo all’8 o al 10 per cento…» ripeteva ai suoi. Nessuno lo scoprirà mai. Il partitone che doveva cambiare la politica è sotto il 3 per cento. Renzi non ha niente da perdere. E, alla fine, meglio il caos dell’irrilevanza. Meglio Bonaccini. Spalleggiato, casualmente, anche da due vecchi apostoli dell’ex Rottamatore: Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, e Dario Nardella, primo cittadino di Firenze.

Deposto Zingaretti, sarebbe il turno del suo più fedele alleato: il premier. «Simul stabunt simul cadent» dicevano i latini. Insomma: giù Zinga, giù Giuseppi. Addio giallorossi. Addio a quel «rimpastone» che, come spiegava il segretario democratico prima di venir folgorato dai grillini, «l’Italia non capirebbe».

Ribaltone Marche

Elezioni regionali: cronaca di una sconfitta annunciata
Ansa

Dopo 50 anni di sinistra, alla Regionali è probabile la vittoria della coalizione di centrodestra con Francesco Acquaroli di Fratelli d’Italia. Così, in crisi sociale e industriale, la storica roccaforte rossa chiede di cambiare.

di Carlo Cambi

Ci hanno sperato fino all’ultimo Giuseppe Conte, Nicola Zingaretti e Beppe Grillo nel mastice marchigiano (qui si fabbricano tante scarpe…) per rafforzare la traballante alleanza pidistellata, ma niente: l’operazione Ancona non è andata in porto. I Cinque stelle locali hanno detto no all’alleanza e così il Pd s’è ritrovato spiazzato e abbandonato. Ci ha messo del suo bocciando un candidato che piaceva molto anche alla base grillina, l’ex rettore dell’Università Politecnica Sauro Longhi, che aveva preso l’abbrivio da civico progressista quando aveva capito che il Pd voleva far fuori l’attuale presidente Luca Ceriscioli, non ricandidato.

Gli apparati del Pd alla fine le liste le hanno aggiustate contro il parere della base e dei possibili alleati, come pareva ai vertici regionali con la regia dal sindaco di Pesaro Matteo Ricci – primo censore di Ceriscioli in una faida cittadina – per interposto segretario regionale Giovanni Gostoli.

Perciò la campagna elettorale s’è fatta impervia per chi governa da mezzo secolo senza schiodarsi mai dal potere. Il Pd si schiera dietro Maurizio Mangialardi, sindaco uscente di Senigallia e capo dell’Anci regionale, sostenuto da una pletora di liste.

I sondaggi dicono che ha poche speranze. Le Marche sono in questa tornata settembrina la regione dove il centrodestra ha più speranze di mettere a segno un clamoroso sorpasso. Avrebbero dovuto ricordarsi i dirigenti del Pd, ma anche il vertice pentastellato, di Guido Piovene, che nel suo Viaggio in Italia nota: «Le Marche sono l’unica regione plurale», dunque è arduo pensare che si possa dare un ordine che valga per tutti anche se restano residui di disciplina papalina. Piovene aggiunge: «L’Italia con i suoi paesaggi è un distillato del mondo, le Marche dell’Italia».

Sarà per questo che la competizione qui assume, nonostante siano chiamati al voto poco più 1,2 milioni di elettori, valenza nazionale e toni da sfida all’O.K. Corral. Il centrodestra, dopo l’impuntatura di Giorgia Meloni, ha messo in campo un candidato di peso e di destra ortodossa: Francesco Acquaroli, giovane e rampante deputato di Fratelli d’Italia, che dal suo piccolo paese Potenza Picena ha scalato i vertici nazionali. Acquaroli si era già candidato alla Regione cinque anni fa con Fratelli d’Italia e Lega, raccogliendo il 19 per cento dei voti.

Le Marche, fin dai tempi di Arnaldo Forlani, sono un laboratorio politico e qui il centrodestra se sfonda può ambire a successi nazionali. Lo sa bene Anna Menghi, che fu il primo sindaco donna di Macerata negli anni Novanta, silurata allora dalla destra oggi in corsa con la Lega per un seggio in Consiglio regionale, che dice: «Dovrebbero considerare che ciò che succede nelle Marche succede poi nel Paese, questi si scordano della lezione di Giacomo Leopardi».

Che c’entra il poeta dell’Infinito, che era di Recanati? Basterebbe rileggersi il suo Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani per sapere come mai nelle Marche il Pd è dato perdente. Scrive Leopardi nel 1824: «La conservazione della società sembra opera piuttosto del caso che d’altra cagione, e riesce veramente maraviglioso che ella possa aver luogo tra individui che continuamente si odiano s’insidiano e cercano in tutti i modi di muoversi gli uni agli altri». Questo sembrano imputare i marchigiani a chi li ha governati negli ultimi 50 anni al punto che un recentissimo sondaggio del Sole 24 ore rileva che tra Acquaroli, centrodestra, e Mangialardi, Pd e alleati, ci sono 16 punti di distacco: le Marche pare siano destinate a essere governate da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia stretti in un patto che non ha subìto alcuna incrinatura con Matteo Salvini, il più attivo tra i leader in riva all’Adriatico a chiedere voti. Terzo arriverebbe – stando al sondaggio – il pentastellato della prima ora Gian Mario Mercorelli accreditato del 9 per cento. Nel 2015 i Cinque stelle erano oltre il 21 per cento, se così fosse sarebbe una débâcle motivata anche dalla spaccatura del gruppo consiliare delle Marche con una scissione di parte dei pentastellati pronti a unirsi al Pd, mentre la base ha bocciato l’accordo.

Se il risultato di ciò che resta dei grillini fosse inferiore al 10 per cento il contraccolpo nazionale sarebbe fortissimo. In lizza ci sono altri cinque candidati (Roberto Mancini, leader di Dipende da noi, Fabio Pasquinelli segretario regionale del Pci, Sabrina Banzato del movimento Vox Italia, Mario Canino sostenuto da Ecologisti confederati e Alessandra Contigiani di Riconquistare l’Italia) ma la partita è ristretta ad Acquaroli e Mangialardi, anche perché si vota a turno unico per eleggere 30 consiglieri con un premio di maggioranza per la coalizione vincente.

Il Pd dovrà fronteggiare un crescente disagio sociale nelle Marche scivolate da modello economico a regione meridionale per le crisi industriali – fortissima quella del distretto degli elettrodomestici a Fabriano, ma in crisi è anche il calzaturiero, il distretto pesarese del mobile oltre al comparto moda – e per la mancata ricostruzione del terremoto che ha desertificato la fascia pre-appenninica.

Luca Ceriscioli, cinque anni fa eletto a capo di una coalizione guidata dal Pd con il 41 per cento di voti, paga anche la crisi Covid. Da quando ha saputo di non essere ricandidato ha avuto atteggiamenti di maggiore indipendenza: è nota la durissima polemica con il ministro Francesco Boccia (Pd) sulla chiusura delle scuole e polemiche ha sollevato la scelta di affidare a Guido Bertolaso la costruzione di un Covid Hospital a Civitanova Marche, gemello di quello della Fiera di Milano. La sanità è uno dei principali argomenti di campagna elettorale che s’infiamma però pure sui temi dell’immigrazione e della concorrenza che i cinesi fanno alle piccole e medie imprese.

Oltre che per la Regione si vota anche a Fermo, dove cerca la riconferma Paolo Calcinaro (civico di centrodestra), sfidato da Renzo Interlenghi (Pd) e a Macerata, dove la partita è più interessante. Macerata è ancora segnata dalla morte di Pamela Mastropietro, uccisa dal nigeriano Innocent Oseghale e dal raid di Luca Traini contro sei immigrati africani. Qui si sfidano l’assessore ai lavori pubblici uscente Narciso Ricotta (Pd), l’uomo ombra dell’ex sindaco Romano Carancini, e l’imprenditore dell’informatica Sandro Parcaroli, alla testa di una solida coalizione di centrodestra. Se ci fosse il doppio ribaltone, l’effetto Marche per il governo giallorosso sarebbe devastante.

© Riproduzione Riservata