Home » Attualità » Politica » Conte alla resa dei conti

Conte alla resa dei conti

Le elezioni regionali e amministrative di settembre saranno il vero banco di prova del presidente del Consiglio. A cui Pd, Cinque Stelle e Italia viva si presentano divisi. Come lo sono sui tantissimi dossier bloccati da mesi.


Il fantasma di Giuseppe Conte ha il volto altero e sprezzante di Massimo D’Alema. «Ho ritenuto giusto per sensibilità politica, non certo per dovere istituzionale, prendere atto del successo delle opposizioni, che avevano chiesto fin dal primo momento le dimissioni del governo». Diciassette aprile del 2000: otto meno un quarto di sera. Dalla porta dello studio del Quirinale, allora guidato da Carlo Azeglio Ciampi, esce il presidente del Consiglio: grisaglia elegante, camicia azzurra, volto affilato. Sconfitto alle Regionali, «Baffino» informa di voler lasciare Palazzo Chigi. Alle sue spalle, il centrosinistra è a brandelli. Dalla tormentata leadership alla nuova legge elettorale: ogni giorno c’è una scusa per darsele di santa ragione.

Corsi e ricorsi, vent’anni dopo. Anche le Amministrative di settembre, per Giuseppi, potrebbero trasformarsi in una tonante batosta. E pure la sua già raffazzonata maggioranza è imbambolata: Mes, economia, riforme, sicurezza, ponte di Genova. Tutti divisi su tutto. I Cinque stelle, in cerca di improbabili convergenze tra governisti e movimentisti. Il Pd, in cerca di alternative esistenziali. Italia viva, in cerca di qualche decimale. Insomma, il grande stallo. Quel rocambolesco matrimonio d’interesse nato lo scorso agosto è un divorzio annunciato. E i tentativi di riconciliazione, in vista delle prossime Amministrative, si sono arenati. Non c’è una regione in cui i tre partiti, per il momento, siano riusciti a presentare un nome comune. Intanto il centrodestra, pur con qualche affanno, ha scelto unitariamente gli aspiranti governatori. Ed è pronto a chiedere, in caso di vittoria, elezioni anticipate.

In Veneto e Puglia, per esempio, gli ineffabili giallorossi sono pronti a schierare tale mortifero tridente: un candidato per partito. Mentre l’incauto premier, accorato, s’appella ai riottosi: «Possibile non avere un momento di sintesi agli appuntamenti regionali? Sarebbe una sconfitta per tutti, anche per me, se non si trovasse un modo per fare un passo avanti. Basterebbe mettere da parte le singole premure».

L’ascendente del giurista di Volturara Appula, però, è ormai residuale. Anzi, i tentativi per liberarsi dei suoi sterili artifici sono manifesti. E proprio come ai tempi della disfatta del leader Maximo nel 2000, l’eterna riforma della legge elettorale potrebbe diventare un altro grimaldello. Il voto del 20 e 21 settembre, in sette regioni e oltre mille comuni, è diventato un più composito election day. Ci sarà anche il referendum confermativo sulla legge che ha tagliato i parlamentari. Volete dunque ridurre il numero dei remuneratissimi e detestatissimi parlamentari? Seguirà plebiscito. A quel punto, bisognerà ridisegnare il quadro politico: il proporzionale auspicato dai giallorossi o il maggioritario perorato dall’opposizione?

Fino a qualche settimana fa, impelagarsi in questo eterno dilemma è sembrato al premier l’uovo di colombo. La storia repubblicana insegna: non c’è niente di meglio che discettare di soglie e sbarramenti per favorire l’andreottiano «tirare a campare». Basterebbe solo arrivare al prossimo aprile, quando si chiude l’ultima finestra temporale utile per votare. Ad agosto 2021 scatta il semestre bianco, che precede l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Quindi, si andrebbe dritti dritti alla scadenza naturale della legislatura: marzo 2023.

Il piano di Giuseppi sta però naufragando. Per due motivi. Il primo è sotto gli occhi di tutti: passata la gestione dell’emergenza sanitaria, l’allegra brigata giallorossa si trova davanti la crisi economica più lancinante del Dopoguerra. E non è d’accordo su nulla. Il secondo motivo, ancora teorico, turba da giorni i sonni a Palazzo Chigi e dintorni. Delle sei regioni al voto, a cui s’aggiunge la Valle d’Aosta, il centrosinistra ne governa quattro. Ma adesso, rivelano i sondaggi, può nutrire ragionevoli sogni di gloria solamente in Campania. Eppure il ricandidato presidente, Vincenzo De Luca, pochi mesi fa sembrava spacciato. Non lo voleva più nessuno: partito, alleati, elettori. Ma una pirotecnica battaglia contro il virus ha ridato lucentezza alla sua opaca stella da sceriffo. «Vi mando i carabinieri con il lanciafiamme!» avverte di fronte all’assembramento. «A casa!» urla ai passanti scendendo dall’auto come in un poliziottesco. «Cafone senza mascherina!» ribattezza due incaute giovinette sul lungomare. Fino all’ormai celeberrima minaccia dello scorso aprile: «Se Veneto e Lombardia riaprono, la Campania chiude i confini».

Da suprema guida della municipale di Salerno, dov’è stato sindaco, a comandante del vessato Mezzogiorno, in meditata contrapposizione all’invasore Matteo Salvini, De Luca s’è accanito soprattutto sulla giunta lombarda. Ci voleva lui, piuttosto che quelle pappemolli leghiste. Per gestire gli sterminati focolai nella regione più popolosa e interconnessa d’Italia serviva Vincenzo lo sceriffo, altroché.

Il destino, beffardo, l’ha però ridimensionato. Così, il ribaldo governatore s’è ritrovato ad arrancare in quel di Mondragone, sul litorale casertano, quando scopre qualche decina di contagi tra i quattro palazzoni ex Cirio. Ma invece che imbracciare l’amato lanciafiamme, preferisce chiedere aiuto a Roma: «Mandateci l’esercito». Morale: anche il consenso di De Luca dipenderà dall’evoluzione del Covid. E comunque, a far da contraltare ai sondaggi che l’incoronano, ne arriva un altro, quello del Sole 24 ore, che l’inchioda all’undicesimo posto tra i governatori più apprezzati d’Italia: 46 per cento di consensi.

Le buone notizie, o presunte tali, per i giallorossi terminano qui. Perfino la corsa in Toscana, da sempre in mano dalla sinistra, si annuncia più tribolata del previsto. Con ammirabile tempismo, già lo scorso dicembre viene indicato un candidato: il presidente del Consiglio regionale, Eugenio Giani. La sua maggior dote non è il carisma. Né, tantomeno, l’esperienza da amministratore. Però è una creatura ormai in estinzione: un ircocervo metà dem e metà renziano. Caratteristica mutuata dal mito che ha permesso al Pd di non ingaggiare con Matteo Renzi una guerra termonucleare nella sua Toscana. Tutto, quindi, sembrava filare liscio. E anche l’indicazione della contendente leghista è stata accompagnata da un sospiro di sollievo.

La partita sembrava chiusa, ancor prima di iniziare. Invece Susanna Ceccardi, 33 anni, europarlamentare ed ex sindaco di Cascina, si sta dimostrando più coriacea del previsto. Gli ultimi sondaggi riservati la danno a un’incollatura da Giani. Tanto che il solitamente compassato sfidante è passato dal fioretto allo spadone: «Ceccardi è al guinzaglio di Salvini». «Ma Susanna è una tosta, che non va a rimorchio di nessuno, nemmeno di Matteo» fa notare un fedelissimo del capitano leghista. Che, comunque, ha preso talmente a cuore la battaglia toscana da passare parte delle ferie agostane a Forte dei Marmi.

Del resto il Veneto, con Luca Zaia, per il Carroccio è un gol a porta vuota. Inutile sprecare preziose energie elettorali. Il doge di Conegliano era già inarrivabile. Ma la risoluta gestione della pandemia, a partire dai tamponi di massa a Vo’ Euganeo, l’hanno reso perfino più popolare. E a trasformare il suo consenso da ampissimo a bulgaro ci pensano i soliti giallorossi. Che hanno deciso di schierare ben tre contendenti avversi. Stesso schema escogitato in Puglia. Il presidente uscente, Michele Emiliano, tenta una faticosa riconferma. Ma gli alleati romani cercano, con pervicacia, di assestargli il colpo di grazia. Il Movimento, che alle ultime Europee ha raggiunto un ancora iperbolico 26 per cento, candida la capogruppo in Consiglio regionale: Antonella Laricchia. Mentre Italia viva oppone uno dei bei nomi della sua sgangherata compagine: il sottosegretario agli Esteri, Ivan Scalfarotto. Gay, sposato con un uomo, attivista Lgbt: la sua scelta ricorda, in sedicesimi, quella ben più dirompente di Nichi Vendola, governatore per un decennio. Tardivo ritorno al futuro. Con Renzi pronto a caricare a testa bassa: «Se vince Emiliano, perde la Puglia».

Così, il favorito diventa un altro reduce: l’ex forzista Raffaele Fitto, alla guida della Regione dal 2000 al 2005. Oggi è eurodeputato di Fratelli d’Italia e alfiere del gruppo dei Conservatori a Bruxelles. La sua elezione sarebbe decisiva per Giorgia Meloni. E darebbe l’immagine di un partito tanto inclusivo da scegliere un fiero erede della tradizione democristiana. Pure nelle Marche, dove Fratelli d’Italia candida il deputato Francesco Acquaroli, gli istituti compulsati danno il pretendente di centrodestra in ampio vantaggio. Anche qui M5s e Pd, per ora, si presentano divisi.

Ancor più roseo l’orizzonte di Giovanni Toti in Liguria: consenso personale ai massimi storici, grazie alla riapertura del ponte Morandi, e granitici sondaggi. Certo qui la maggioranza dà il meglio, immolando tutti gli aspiranti presidenti. Fino a qualche settimana fa, sembrava fatta per Ferruccio Sansa, giornalista del Fatto Quotidiano e figlio del magistrato Adriano, già sindaco di Genova. S’avanzava, dunque, il temibile partito di Travaglio e, quindi, di Giuseppi. Poi prevalgono veti e venti anti giustizialisti. E il solito Renzi mette a verbale: «Noi siamo un’altra cosa». Frase che ben si attaglia, urbi et orbi, all’improvvisata combriccola giallorossa.

Insomma: stallo, paralisi, inerzia. Conte vaga senza meta, meditando perfino una repentina iscrizione ai Cinque stelle per dare il fantomatico impulso. Beppe Grillo, l’Elevato, si prepara a indicare al Movimento la retta via. Nicola Zingaretti, segretario del Pd, offre ramoscelli: «Tra le forze politiche a sostegno del governo prevalgono i no, i ma, i se, i forse, le divisioni. Ridicolo!». Il fantasma di «Baffino», intanto, continua ad aleggiare beffardo su Palazzo Chigi.

© Riproduzione Riservata