Il segretario della Lega da tempo è al centro di una serie di inchieste: dalla nave Gregoretti ai voli di Stato, passando per i 49 milioni di euro di fondi elettorali spariti fino al Russiagate. Si tratta di almeno una decina di procedimenti che ricordano l’accanimento giudiziario riservato a Silvio Berlusconi.
Unisci i puntini e comparirà una graziosa scenetta. Le inchieste sulle supposte malefatte finanziarie della Lega e dei leghisti di complemento assomigliano ormai a quei giochi enigmistici per bambini: semplici e ripetitivi. Si parte dai celebri 49 milioni di euro di fondi elettorali spariti, per arrivare a un sottobosco di avidissimi e diabolici colletti bianchi in camicia verde. Gente disposta a qualunque turpitudine, pur di alzar su un po’ di lombardissimi danee. Elettricisti, consulenti, contabili, impresari, commercialisti e notai. Tutti lì a brigare, lasciano intendere informati retroscena giudiziari. E tutti, grazie agli intrecci più rocamboleschi, eterodiretti dall’avidissimo leader: Matteo Salvini. È lui ovviamente, a dispetto di ogni estraneità, l’uomo nel mirino. Sfiorato, tramite l’ex moglie mai indagata, perfino dalle inchieste sulla Regione Lombardia. Ma il capitano leghista è costretto pure a difendersi dalle atroci ignominie compiute nelle smesse vesti di ministro dell’Interno: dalla nave Gregoretti ai voli di Stato.
Almeno dieci procedimenti in corso. Che da mesi riempiono i giornali. Un assalto che ricorda la pervicacia degli inquirenti contro il Cavaliere, negli anni al potere. E com’è finita? Una condanna definitiva, nel processo Mediaset, per frode fiscale. Sebbene annacquata dall’audio postumo di uno dei giudici di Cassazione che firmò la sentenza, il defunto Amedeo Franco: «A mio parere ha subìto una grave ingiustizia». Insomma Silvio Berlusconi, assicura il togato, doveva essere condannato a priori perché ritenuto «un mascalzone». Un audio che ricorda quello carpito dagli investigatori a Luca Palamara, protagonista dell’inchiesta Toghe sporche appena radiato dalla magistratura. In una chat l’ex membro del Csm parla del caso Diciotti, che si rivelerà prodromico, con il capo della Procura di Viterbo, Paolo Auriemma. Il collega lamenta di non capire «veramente dove Salvini stia sbagliando». Palamara lo gela: «Hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo».
Per farlo a dovere, meglio dunque tornare alla notte dei tempi. Anzi, alla «notte delle scope». Quella serata bergamasca dell’aprile 2012, quando Salvini imbraccia le ramazze assieme ai militanti: «L’è ura de netà fo’ ol poler». Già, era ora di pulire il pollaio: dagli scandali di Umberto Bossi e famiglia fino a quelli dell’allora tesoriere Francesco Belsito. Storiaccia, che trascina la Lega al 4 per cento. Fondi pubblici investiti in diamanti e lingotti. O spesi per la famiglia del leader: ristrutturazioni, macchine e la celeberrima laurea in Albania di Renzo detto «il trota», figliolo dell’Umberto.
A luglio 2017 vengono condannati tutti. Ma le casse del partito restano vuote, o quasi. «Li abbiamo spesi» va ripetendo Salvini. Tra personale e spese elettorali, per lo più. Ma i pm non si fidano del capitano: anzi del «capitone», come lo chiamano i detrattori. Parte così l’implacabile caccia della procura di Genova al tesoro padano. Cayman, Cipro, Svizzera, Lussemburgo… Ma dove diavolo è finito il maltolto? Quattro anni dopo, molte rogatorie più tardi e malgrado le piste seminate non c’è neanche una persona iscritta nel registro degli indagati. Il procedimento rimane a carico di ignoti.
In compenso, l’inchiesta si è arricchita e intrecciata di versanti dal sicuro interesse mediatico, popolati di personaggi alla Totòtruffa ’62, in cui il principe De Curtis cerca di vendere a un ignaro turista la Fontana di Trevi. Proprio lì, a pochi passi dall’appartamento che avrebbe tentato invano di acquistare Gianluca Meranda, avvocato cosentino. Ovvero uno dei tre indagati del Russiagate, l’inchiesta per corruzione internazionale che la Procura di Milano si appresta a chiudere. Gli altri personaggi coinvolti sono un ex bancario toscano, Francesco Vannucci, e Gianluca Savoini, già portavoce di Salvini e presidente dell’associazione Lombardia-Russia.
Tutto ruota attorno a un cinematografico incontro avvenuto a ottobre 2018 all’hotel Metropol di Mosca. Ambientazione perfetta: spie, rubli, intrighi. E un eloquente indizio: la simpatia di Salvini per il presidente russo Vladimir Putin. Russa è pure Tatiana Andreeva, che avrebbe persino acquistato un appartamento a San Pietroburgo. Ecco l’ennesimo e strabiliante intreccio. Perché questa donna misteriosa è la moglie dell’elettricista Francesco Barachetti, impresario a sua volta coinvolto nell’inchiesta sulla Lombardia film commission. I reati vanno dal peculato alla turbata libertà nella scelta del contraente.
Gli indagati, una decina. Tra cui tre commercialisti che hanno lavorato per la Lega: Michele Scillieri, Alberto Di Rubba, Andrea Manzoni. Si scava dunque sull’acquisto di un capannone a Cormano, hinterland milanese. La società del Pirellone che si occupa di promozione cinematografica l’ha pagato 800 mila euro: il doppio di quanto è costato inizialmente, azzannano giornali e magistrati. Dimenticando, conferma una perizia appena consegnata ai legali del Carroccio, di conteggiare a dovere la ristrutturazione dell’immobile.
C’è comunque puzza di losco. E, ancora una volta, fioccano i collegamenti con altre due inchieste sul malloppo leghista. In questi rivoli giudiziari è indagato il tesoriere del partito, Giulio Centemero, come rappresentante legale dell’associazione Più voci. È accusato di finanziamento illecito: sia dalla Procura di Roma che da quella di Milano. In entrambi i casi, pende una richiesta di rinvio a giudizio. «È uno stillicidio quotidiano, con i giornali che tentano di sostituirsi ai tribunali» dice Centemero a Panorama. «Dal procedimento sui 49 milioni si sono aperti altri fecondi filoni investigativi: il tesoro dei rubli, le accuse di riciclaggio, i megacapannoni e perfino i miei conti correnti. Per non parlare delle fiduciarie e dei paradisi fiscali. Ma la verità è che non avevamo nemmeno i soldi per pagare i nostri impiegati. L’intento è chiaro: demonizzare la Lega e isolare il partito che ha più consensi». Dunque, Salvini.
Il leader resta il bersaglio grosso. Ancora schizzi di fango sulle sue felpe stazzonate. Avrebbe perpetrato le malefatte di Bossi e Belsito, insomma. Eppure la Lega ha già stipulato un accordo per restituire il maltolto allo Stato: pagamento dilazionato in 76 anni, con rate da 600 mila euro fino al 2095. E anche le accuse al presidente della Lombardia, Attilio Fontana, diventano quasi responsabilità morale del capo leghista. Il governatore è indagato per una fornitura di camici della Dama, società del cognato Andrea Dini partecipata dalla sorella Roberta, moglie di Fontana. Solo che nessuno s’è messo in tasca un euro. Anzi, Fontana ha provato a pagare di tasca sua. Ecco, colpevole di pirlaggine magari. La seconda inchiesta che lo coinvolge è invece quella sulla fornitura dei test sierologici alla Diasorin. La Guardia di finanza ha così acquisito pure i dati telefonici del suo capo segreteria, non indagato, Giulia Martinelli. Ovvero, l’ex compagna di Salvini. Che commenta: «A una cittadina italiana di 41 anni viene portato via un telefono con gli affari suoi e miei, le foto di nostra figlia e le chat con i nonni. Neanche a un mafioso viene riservato un trattamento del genere».
Per non parlare della sequela di scelleratezze compiute mentre era ministro dell’Interno, nel deposto governo gialloverde. A Catania il leader della Lega è sotto processo per il mancato sbarco di 131 migranti, bloccati a bordo della nave Gregoretti. Sequestro di persona pluriaggravato: reato che potrebbe costargli fino a 15 anni di carcere. Come, del resto, nell’analogo caso della Open Arms. La richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Palermo è in arrivo. «Indagato per non aver permesso l’ingresso a soggetti invasori. Siamo indifendibili. Indifendibili» dice in un’intercettazione quel magistrato al mefistofelico Palamara. Sensato, ma irrilevante. Salvini va attaccato sempre e comunque, lo addestra l’ex capo del sindacato delle toghe.
Infine c’è l’inchiesta rivelata, sempre mezzo stampa, sui 35 voli di Stato usati mentre era al Viminale. Arriverà dunque l’ennesimo processo per abuso d’ufficio? Il leghista, in privato, se la cava con una battuta: «Ormai faccio la collezione, come le figurine Panini».