Nel 1918 in Germania veniva proclamata la Repubblica di Weimar. A un secolo di distanza, inquietanti similitudini dovrebbero provocare qualche riflessione sull’insensatezza di isolare un Paese approfittando delle sue difficoltà.
Le guerre non finiscono quando l’ultimo fucile ha sparato l’ultima pallottola. Le conseguenze della Prima guerra mondiale, più che nel periodo del conflitto combattuto, si fecero sentire negli anni successivi. La Germania venne investita da una crisi economica di proporzioni spaventose, nacque una repubblica – quella di Weimar – con l’intenzione di dare vita a una democrazia liberale ma che, in realtà, fece da incubazione al nazismo e promosse la dichiarazione di un’altra guerra mondiale.
Detta così, potrebbe sembrare che i passaggi siano esageratamente riassunti. In realtà, i termini logici sono così concatenati, uno all’altro, da presentarsi come le porzioni di un unico contesto. Il 3 ottobre 1918, il cancelliere tedesco Maximilian von Baden offrì il «cessate il fuoco» al presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson. La Germania aveva combattuto senza risparmiarsi morti, feriti e sacrifici ma, a quel punto, non ce la faceva più.
L’imperatore Guglielmo II avrebbe voluto resistere ancora e provò a convincere i soldati dello Stato maggiore. Ma la rivolta di alcuni reparti della Marina, le manifestazioni di piazza di Berlino e le telefonate del principe Massimiliano di Baden lo obbligarono all’abdicazione e a rifugiarsi in Olanda, in un sobborgo di Utrecht. Poteva cominciare un altro Reich, ma ogni gruppo sociale tedesco aveva in mente il suo, naturalmente incompatibile con quello degli altri.
In particolare, i gruppi socialisti immaginavano una repubblica d’impronta comunista. La filosofa e rivoluzionaria Rosa Luxemburg e gli «spartachisti» rappresentavano l’ala più estrema del movimento, ma erano anche i più organizzati e i più determinati. Sul fronte opposto, i conservatori caldeggiavano un governo sostenuto (e difeso) dai militari che, addirittura, avrebbero dovuto essere impiegati per reprimere le manifestazioni di piazza.
Nessuno dei due schieramenti trovò la forza per imporsi e, con le settimane che passavano, crescevano i litigi all’interno degli schieramenti. Nel gennaio 1919 la sinistra giocò la carta della rivoluzione e mandò per strada migliaia di manifestanti. Le città diventarono un campo di battaglia con centinaia di morti fra cui i principali animatori della protesta, a cominciare proprio dalla Luxemburg.
In quel clima vennero indette le elezioni. Socialisti e comunisti furono appena in grado di presentarsi e, dunque, i partiti dell’ordine acquisirono una maggioranza poderosa. Con la Germania spianata dai bombardamenti, l’Assemblea nazionale scelse di riunirsi a Weimar che, in un panorama popolato quasi solo da macerie, poteva contare su qualche palazzo ancora semi-agibile. E lì nacque la «Weimarer Republik» che si reggeva su un sistema semipresidenziale, con un Parlamento – Reichstag – eletto con sistema proporzionale.
Primo presidente: Friederich Ebert. Ma come governare? Con chi e con che cosa? Sulla Germania si stavano abbattendo le clausole tremende della pace di Versailles, che pretendeva di smembrare parte del territorio tedesco e di gravare la popolazione con tributi di guerra impossibili da rifondere. Forse non si poteva fare diversamente, ma l’accettazione di quell’accordo che sotterrava una nazione sotto i tributi fu considerato «il peccato originale» della repubblica di Weimar che, semmai ne avesse avuti, si alienò il consenso dei tedeschi di per sé favorevoli a un nuovo ordine istituzionale.
Affamare la gente oltre i limiti della sopportazione non è mai una scelta saggia. Oggi, a un secolo di distanza, inquietanti similitudini dovrebbero provocare qualche riflessione sull’insensatezza di isolare un Paese approfittando delle sue difficoltà. A maggior ragione, da parte di chi questo isolamento ha già duramente provato sulla propria pelle.
Ecco che nel 1921 venne assassinato Matthias Erzberger che, materialmente, firmò il trattato di pace. Stessa sorte, l’anno dopo, nel 1922, per il ministro degli esteri Walther Rathenau che si era impegnato a pagare i debiti di guerra. Difficile barcamenarsi fra le pressioni contrapposte degli estremisti di destra e quelli di sinistra che, con motivazioni convergenti, accusavano il governo di affamare i tedeschi per compiacere gli stati vincitori dell’Intesa. Polemiche non solo verbali. Il 13 marzo 1920, un gruppo di soldati rimasti in arme – autobattezzati «Freikorps» – rovesciarono gli apparati istituzionali di Berlino e proclamarono cancelliere Wolfgang Kapp, un giornalista che assicurava di avere la ricetta per uscire dalla crisi. Trasferì il Parlamento a Dresda ma durò una settimana. Nello stesso periodo, in Sassonia e ad Amburgo, le ribellioni ebbero carattere sociale e furono promosse dai comunisti.
Nel frattempo, l’economia si trovò paralizzata. Ogni centesimo andava per ripagare gli Stati vincitori e la gente – senza lavoro e senza stipendio – andava spuntando i germogli delle piante per insaporire l’acqua calda della cena. Che cosa immaginare se non la stampa di cartamoneta? Che, però, provocò un’inflazione record al punto che occorrevano un milione di marchi per un dollaro (nell’agosto del 1923) e 4 miliardi e 200 milioni (il 20 novembre 1923).
In quel contesto si affacciò la figura di Adolf Hitler che si presentò fin da subito come «uomo forte». Come leader del Partito tedesco dei lavoratori trasformato nel Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, immaginò un’azione rivoluzionaria per rovesciare i sistema di potere. L’azione progettata a Monaco di Baviera – il «Putsch della birreria» – fallì. I tremila rivoltosi si fermarono davanti a un centinaio di poliziotti e finirono in carcere. Hitler venne condannato a cinque anni e ne scontò uno (scarso). Nel frattempo elaborò un disegno per conquistare il potere e, stavolta, senza rischi.
La repubblica di Weimar conobbe alti e bassi. Il momento migliore fu quello di Gustav Stresemann, leader del Partito popolare tedesco. Lui, di formazione ideologica democratico-liberale, presiedette un governo con i moderati del «Zentrum» e con i socialisti. In quel periodo i disordini sociali si ridussero quasi zero e sembrò che l’economia fosse in grado di mostrare qualche risultato. L’obiettivo di Stresemann consisteva nel riaprire un dialogo con le forze vincitrici della Prima guerra mondiale che – oggettivamente – stavano strangolando il Paese, alla ricerca di condizioni meno vessatorie. E, per arrestare l’inflazione, stampò i Rentenmark. Semplificò la burocrazia, ridusse le spese dello Stato ma fu costretto ad aumentare le tasse.
La Germania venne riammessa nella Società delle Nazioni, antesignana dell’odierno Onu. Il fatto è che, nelle elezioni del 1930, il Parlamento si trovò senza maggioranza. L’aumento dei seggi della sinistra dura e pura, che moltiplicò per cinque i consensi, impedì alleanze politiche praticabili. Il Paese scivolò verso la guerra civile con un governo che si mostrò solo con «decreti presidenziali d’emergenza».
«La grande depressione» tornò con violenza. La qualità della vita andava misurata con la capacità di sopravvivere. Non esisteva aspetto nella vita sociale che non tornasse utile a Hitler. La storia, di per sé, insegna ma, troppo spesso, anziché studiarla per imparare si preferisce guardare da un’altra parte.
