Se un tempo l’astensione dal lavoro serviva a bloccare un Paese, oggi punta solo a riempire le piazze.
Sciopero generale. Era da tempo che non sentivo pronunciare queste parole. Sono infatti trascorsi sette anni dall’ultima volta che si è vista un’astensione dal lavoro da parte di tutte le categorie. Anche all’epoca la manifestazione cadde a ridosso di Natale, ma al posto di Maurizio Landini c’era Susanna Camusso, mentre a Palazzo Chigi regnava da meno di un anno un arrembante Matteo Renzi.
Annunciato a piazza San Giovanni dalla leader della Cgil davanti a un milione di persone (o per lo meno questo è il numero rotondo che venne accreditato dagli organizzatori), lo sciopero venne indetto per protestare contro il «Jobs act», ovvero la riforma del diritto del lavoro voluta dall’allora Rottamatore. Il sindacato contestava le modifiche all’articolo 18 per i neoassunti. «Nessuno, neanche questo governo potrà cancellare la voce lavoro» promise la segretaria in maglietta bianca e rossa, concludendo con un profetico «Matteo stai sereno». Renzi rispose a modo suo, con una battuta: «Invidio molto quelli che passano il tempo a organizzare scioperi. Io mi occupo di far lavorare le persone».
Come finì lo scontro è noto. Nonostante la promessa di Camusso di non arretrare di un millimetro e di proseguire la lotta, il Jobs act divenne legge, approvato a colpi di fiducia sia alla Camera sia al Senato. Insomma, lo sciopero generale non servì, perché non riuscì a far cambiare rotta al governo. A dire il vero, ci sono molti esempi che testimoniano l’inutilità di una protesta che minaccia di bloccare il Paese.
Nel passato, l’astensione di tutte le categorie era un segnale all’esecutivo e agli imprenditori, ma si trattava di altri tempi, quando cioè Cgil, Cisl e Uil erano davvero rappresentative del mondo produttivo. Oggi invece, i sindacati hanno perso forza e iscritti, forse anche perché, dagli anni Settanta in poi, si sono occupati di tutto, ma dimenticando ciò per cui sono nati: la tutela dei lavoratori.
Una volta il fulcro delle confederazioni era la classe operaia che non andava in paradiso, ma alla catena di montaggio. Poi le cose sono cambiate, a cominciare dalla riduzione del peso della manifattura e dall’aumento del terziario che, per una serie di ragioni forse anche culturali, Cgil, Cisl e Uil hanno faticato a rappresentare. Ovviamente, non è colpa di Landini o degli attuali leader sindacali, perché il processo è in atto da tempo, iniziato forse dal famoso sciopero alla Fiat, che spalleggiato dal Pci di Enrico Berlinguer si concluse con «la marcia dei 40.000» a cui seguì la sconfitta del referendum sulla scala mobile che portò all’abolizione del punto unico, meccanismo infernale che invece di tutelare i salari li erodeva facendo salire l’inflazione.
Sì, se lo sciopero generale ha perso efficacia e il sindacato è diventato meno determinante rispetto al passato, è a causa di una serie di errori che vengono da lontano, ma anche perché a forza di occuparsi del Fronte Polisario, movimento del Sahara occidentale (negli anni Settanta l’ossessione terzomondista percorreva le confederazioni), ha perso di vista il fronte delle fabbriche e quello degli uffici, ritagliandosi un ruolo più politico che di difesa e sviluppo del lavoro.
Risultato, oggi lo sciopero generale non è uno strumento che può indurre un governo a cambiare linea, ma si riduce a una semplice dichiarazione di impotenza, segnalando il fallimento di una trattativa. Che cosa vogliono Cgil e Uil (la Cisl, come già in passato, si è dissociata)? Ritengono che gli sgravi fiscali per le fasce economicamente più deboli siano inferiori a quelli promessi. In teoria hanno ragione, perché si sarebbe forse potuto fare di più, ma non c’è dubbio che i tagli decisi dall’esecutivo guidato da Mario Draghi ci siano. Landini ritiene che si tratti di pochi spiccioli e che la rimodulazione delle detrazioni penalizzerà i contribuenti più della mini riduzione dell’Irpef, tuttavia i soldi non sarebbero stati molti di più neppure se, come paventato all’inizio, fosse stata penalizzata la fascia di italiani che dichiara un reddito annuo lordo sopra i 75.000 euro.
Togliere a chi guadagna di più per dare a chi ha meno avrebbe fatto aumentare lo sgravio per i redditi inferiori di qualche euro, un regalo che in pratica sarebbe passato inosservato. Un paio di euro l’anno valgono uno sciopero generale? E che cosa compenserà la perdita di salario dovuta a un’astensione di otto ore dal lavoro? Domande normali, che chi guida il sindacato dovrebbe porsi, a meno che il suo obiettivo non sia economico, ma politico.
Già, perché se un tempo lo sciopero generale serviva a bloccare un Paese, e a indurre a un dietrofront, oggi al massimo punta a ottenere un titolo sul giornale e nei Tg della sera. E per capirlo basta dare un’occhiata al numero di iscritti della Cgil, ossia della confederazione più rappresentativa. Su poco più di 5 milioni di tesserati, quasi 3 milioni sono pensionati. E infatti, le manifestazioni sempre di più sono affollate di persone che hanno lasciato il lavoro. Con il risultato che lo sciopero non sembra puntare a ottenere qualche cosa, ma solo a riempire le piazze.
