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Una Yalta per il coronavirus

Una Yalta per il coronavirus

L’editoriale del direttore

Al termine della pandemia qualcuno dovrà pagare il conto. Perché le centinaia di miliardi spesi per curare i malati e far ripartire l’economia non potranno essere solo a carico dei Paesi che le hanno spese.


In poche settimane la Cina è passata da untore mondiale a benefattore dei popoli. Merito della diplomazia della mascherina, ossia di un pezzo di stoffa sapientemente usato per rifarsi l’immagine. Prendete l’Italia: a far cambiare la percezione nei confronti di Pechino sono bastati 42 servizi televisivi e radiofonici. Le sole reti del servizio pubblico hanno offerto 1.904 secondi, cioè più di mezz’ora di visibilità durante i tg, e oplà, l’influenza cinese ha perso a un tratto la sua virulenza, quasi che il Dragone c’entrasse poco o nulla con il coronavirus.

L’operazione, che non riguarda solo il nostro Paese ma è stata messa in pratica su scala europea, sta riuscendo tanto bene che Xi Jinping, segretario del Partito comunista e da otto anni uomo forte del regime, si è infuriato con Donald Trump perché il presidente americano nei suoi tweet e nelle conferenze stampa insiste a parlare di epidemia cinese. La pretesa è che ci si riferisca alla pandemia senza fare alcun riferimento a Pechino, magari chiamando il virus con il nome usato dai virologi, ossia Covid-19.

Sì, la Repubblica popolare vuole far dimenticare qualsiasi paternità nella guerra virale che ha sconvolto il mondo e con una massiccia operazione di marketing e spregiudicatezza sta provando a cancellare le impronte digitali lasciate sul luogo del delitto. A noi, con voli cargo, la Cina ha spedito un po’ di mascherine, tra le quali quelle che l’Italia aveva donato alle prime avvisaglie di epidemia. Insieme ai dispositivi di protezione è arrivata anche una pattuglia di medici, che per la verità nei servizi dei tg davano l’impressione di essere turisti in vacanza.

Risultato, se all’inizio della diffusione del coronavirus gli italiani erano accusati di comportamenti razzisti nei confronti dei cinesi, al punto che sia il sindaco di Milano che quello di Bergamo – entrambi di sinistra – avevano deciso di farsi ritrarre mentre mangiavano involtini primavera, poi, grazie agli aiuti e ai soffietti mandati in onda sulle reti nazionali, quasi sono diventati filocinesi.

Tuttavia, l’inchiesta che pubblichiamo su questo numero di Panorama spiega perché, al di là della propaganda tv, con Pechino ci si dovrebbe andare cauti. Innanzitutto le responsabilità. Maurizio Tortorella ha ricostruito le omissioni di cui si è reso responsabile il regime comunista-capitalista di Xi Jinping. I silenzi sulla malattia diffusasi a Wuhan risalgono come minimo alla metà di novembre dello scorso anno. Non sappiamo se il virus si sia sviluppato nel mercato della città della provincia di Hubei o se sia sfuggito a qualche laboratorio militare come qualcuno, nonostante le smentite, ipotizza.

Di sicuro c’è che i cinesi hanno cercato fino all’ultimo di nascondere la verità, omettendo di comunicare i dati del contagio e cercando di minimizzarli. Quando non è stato più possibile tacere, hanno isolato la provincia di Wuhan, evitando però di bloccare i voli con il resto del mondo. Anzi, si sono offesi perché l’Italia aveva messo a terra gli aerei dalla Cina. Risultato, mentre la provincia dell’Hubei era cinta d’assedio dai militari, il coronavirus era esportato in mezzo mondo.

Ora che interi Paesi sono in ginocchio, Pechino si presenta come salvatore. L’operazione simpatia si compone di donazioni o per lo meno di macchinari e dispositivi sanitari spacciati come tali anche se sono a pagamento. Dopo aver contribuito a una crisi economica sanitaria globale come mai si era vista per lo meno negli ultimi 100 anni, la Cina è passata al contrattacco, sperando di trarne vantaggio, approfittando delle relazioni costruite nel tempo e della debolezza in cui si trovano molti Paesi occidentali.

L’operazione di conquista sfrutta la tecnologia e l’industria cinese, da sempre agguerrita e determinata a invadere i mercati internazionali. Come spiegano Guido Fontanelli e Francesco Bonazzi nell’inchiesta di Panorama, l’amicizia però non è gratuita.
E tuttavia, mentre Pechino si dà da fare, approfittando anche del coronavirus per rafforzare il proprio peso nel mondo, in molti si domandano se i danni di questa guerra partita da Wuhan non debbano essere pagati. La Cina possiede il debito di molte economie occidentali, a cominciare da quella americana, e ha un Pil che cresce come quello di nessun altro Paese.

Dunque alla Repubblica popolare potrebbero essere addebitati i costi della pandemia. Per questo stuoli di giuristi si interrogano se il Dragone asiatico non abbia violato l’International Health regulations, cioè se non abbia una responsabilità diretta nella diffusione del virus e dunque un comportamento colposo, che ha provocato danni enormi a tutto il mondo.

Non sappiamo se il coronavirus può essere considerato la Terza guerra mondiale. Ma di sicuro quello che verrà dopo sarà come tornare a vivere dopo una guerra. Per questo in palio, oltre agli equilibri globali, ci sarà una montagna di soldi, ovvero i danni provocati alle economie dei Paesi più industrializzati. Le centinaia di miliardi spesi per curare i malati e far ripartire l’economia non potranno essere a carico dei soli Paesi che le hanno spese. Qualcuno dovrà cioè pagare il conto ed ecco perché, forse, servirà una Yalta asiatica, per regolare il mondo dopo il virus.

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