Home » Attualità » Opinioni » Storia di un magistrato efficiente, ma senza corrente

Storia di un magistrato efficiente, ma senza corrente

Storia di un magistrato efficiente, ma senza corrente

Cuno Tarfusser è tra i più preparati procuratori italiani. Ha ottenuto straordinari risultati a Bolzano e alla Corte penale internazionale dell’Aia. Eppure, quando si è candidato a capo di nove uffici giudiziari, non ha ottenuto un solo voto al Csm… Di certo ha un handicap: non appartiene ad alcun «partito» della sua categoria.


Per sette volte, negli ultimi cinque anni, Cuno Tarfusser ha chiesto al Consiglio superiore della magistratura di poter guidare un ufficio direttivo: una procura della Repubblica, per esempio, o una procura generale. Per sette volte non ha ricevuto nemmeno un voto da parte della commissione del Csm che istruisce i concorsi e seleziona le domande, e poi dovrebbe proporre al plenum i candidati «migliori». Neanche un voto, mai, nemmeno per errore: il Csm lo ha deliberatamente ignorato, peggio di un corpo estraneo. È accaduto alla fine del 2015, quando Tarfusser s’era candidato a succedere a Edmondo Bruti Liberati alla guida della Procura di Milano, e nella primavera 2019, quando s’è proposto come procuratore di Roma al posto di Giuseppe Pignatone, che andava in pensione. Proprio su quel concorso s’è poi scoperto un gioco sotterraneo di pressioni politiche, emerso grazie alle intercettazioni disposte sul cellulare di Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e potente leader della corrente di Unicost. Sui 13 candidati per Roma, Tarfusser era comunque il solo senza chance, perché l’unico senza corrente.

Eppure, a 66 anni, Tarfusser ha un curriculum strepitoso. Dal 1985 sostituto procuratore di Bolzano, dal 2001 ne è stato procuratore per otto anni. Poi, nel 2009, è passato alla Corte penale internazionale dell’Aia, unico giudice italiano su 18, e vicepresidente fino al novembre 2019: qui ha trattato il caso più importante nei 75 anni di storia della Corte e ha presieduto il collegio che ha assolto Laurent Gbagbo, l’ex presidente della Costa d’Avorio accusato di crimini contro l’umanità. Ma anche gli otto anni di Tarfusser alla guida della procura di Bolzano hanno lasciato il segno, tant’è che vengono ricordati come straordinario modello d’efficienza, ottenuto per di più riducendo di due terzi i costi dell’ufficio.

All’epoca, i giornali e il ministero della Giustizia avevano gridato al miracolo, e tre successivi Guardasigilli avevano proclamato che la «formula Tarfusser» andava applicata a tutte le 140 procure d’Italia. Ovviamente né quei ministri né altri dopo di loro si sono mai sognati di farlo.Ecco, se volete capire perché la giustizia italiana è ridotta al disastro, il «caso Tarfusser» è il più solido filo d’Arianna per orientarsi nel suo labirinto fatto d’inefficienze, paradossi e storture. Se oggi Palamara incarna, suo malgrado, il prototipo del magistrato obliquo che sa come fare carriera e come farla fare agli altri, e a dimostrarlo restano le sue chat telefoniche, zeppe di richieste, raccomandazioni e scambi di favori, Tarfusser è il modello opposto.

Sarà forse la cultura austroungarica, ma è il tipico magistrato che lavora e non ha né tempo né testa per brigare o giocare partite personalistiche. Anche soltanto aderire a una corrente, dice a Panorama, avrebbe minato la sua indipendenza: «Ovviamente ho le mie idee e preferenze» aggiunge «ma ho deciso di restarne fuori e sono sicuro di avere fatto la scelta giusta. Purtroppo la deriva del correntismo, con la perdita di credibilità dell’intera magistratura che è sotto gli occhi di tutti, mi dà ragione».

Insomma, Tarfusser è del tutto estraneo al «sistema», anche se non è certo uno sprovveduto: «Dello scandalo Palamara non m’ha stupito il fatto, legittimo, che alla base delle nomine del Csm ci fossero trattative tra consiglieri, o che ci fosse una concertazione correntizia. Prima, però, m’illudevo che alla base di ogni nomina, per quanto pilotata, ci fosse comunque l’interesse pubblico e istituzionale. Dello scandalo, invece, m’ha fatto rabbrividire il basso livello di mercimonio, l’assenza di etica, l’interesse correntizio elevato a sistema».

Quel sistema però l’ha respinto con la stessa ottusa inflessibilità di un muro di gomma. Nel 2019, prima di tornare in Italia dall’Olanda, Tarfusser si era candidato per altri sette uffici direttivi. Alla Corte penale internazionale, del resto, aveva cogestito una complessa struttura giudiziaria, diplomatica e amministrativa, con mille dipendenti in 123 Paesi e un bilancio da 150 milioni l’anno. Non sono molti i magistrati italiani con esperienze manageriali e direttive di quel tipo. «Avrei voluto metterle a frutto al mio rientro in Italia» dice Tarfusser «e visto lo stato del sistema, forse, qualche valore aggiunto sarebbe stato utile…».

Invece, com’era accaduto per le procure di Milano e della capitale, il Csm non lo ha ritenuto idoneo neanche per quella di Trieste, né per le procure generali di Genova, Milano e Roma. «In commissione non ho ottenuto un solo voto» sorride Tarfusser. «Possibile che tutti abbiano sempre un curriculum migliore del mio?». Da ultimo, nel dicembre 2019, il Csm lo ha respinto anche per la procura generale di Brescia, sede cruciale perché ha giurisdizione sui reati che riguardano i giudici milanesi. Gli è stato preferito un candidato che aveva gestito (di certo alla perfezione) la procura generale di Campobasso: cinque magistrati in tutto, più 20 addetti amministrativi.

Così Tarfusser ora fa il magistrato di Corte d’appello, a Milano, e attende la risposta del Csm per le ultime due candidature ancora pendenti: a capo della procura di Trapani o di quella generale di Venezia. Intanto, però, ha scoperto di essere sotto inchiesta da più di due anni e mezzo, e proprio a Bolzano. Il procuratore Giancarlo Bramante e il sostituto Igor Secco, in un’indagine addirittura «secretata», cioè posta sotto particolare vincolo di riservatezza, hanno svolto accertamenti e controlli telefonici, perquisizioni, sequestri e interrogatori. L’indagine ha prodotto quasi 11 mila pagine in totale. Il presunto reato è un peculato. Tarfusser nel 2017 aveva accettato da un amico, ufficiale dei carabinieri, un passaggio su un’auto di servizio per andare a mangiare assieme una pizza. In tutto un chilometro di strada. Un mese fa la procura aveva chiesto il proscioglimento dell’indagato per «particolare tenuità del fatto», ma Tarfusser s’è opposto: respingendo con sdegno ogni addebito, ha ricordato che la giurisprudenza della Cassazione esclude il peculato «nell’uso episodico di un’auto di servizio, quando la condotta non abbia leso la funzionalità della pubblica amministrazione e non abbia causato un danno patrimoniale apprezzabile». Nel suo ricorso, oltre a chiedere l’archiviazione piena, Tarfusser ha accusato i suoi accusatori di essere andati alla ricerca di reati «a tutti i costi», e di aver «speso inutilmente un’enormità di risorse umane e finanziarie».per inutilmente cercare ciò che non si sarebbe mai trovato Ha avuto ragione: il 17 novembre il giudice ha archiviato per «totale infondatezza della notizia di reato». Due anni e mezzo d’indagini per nulla, insomma. Ma perché tanto accanimento? Tarfusser si dice certo che, «a partire dalla mia iscrizione a registro delle notizie di reato, l’1 febbraio 2019, i miei indagatori hanno provveduto a informare dell’indagine il Csm e il ministro della Giustizia e il procuratore generale della Cassazione». La segnalazione, pur trattandosi di un reato «di particolare tenuità» se non inesistente, è bastata per bloccare ogni promozione.

Nel ricorso, Tarfusser riproduce anche una chat di Palamara, utile per accendere un’ultima luce inquietante sulla vicenda: nell’aprile 2018, il procuratore Bramante scrive al leader di Unicost segnalandogli che gli risulta che Tarfusser, dall’Aia, aspiri a un incarico direttivo, ma aggiunge che nel frattempo lui, a Bolzano, gli ha «decapitato gli uomini della polizia giudiziaria e gli amministrativi». Palamara risponde: «Per qualsiasi cosa sono con te, se necessario anche pubblicamente. Dimmi in che modo posso darti sostegno». Questa è la «giustizia» italiana che blocca i Tarfusser. Ed è peggio di un muro di gomma.

© Riproduzione Riservata