Non fanno in tempo a emergere come eroi della lotta senza quartiere a Cosa nostra, che finiscono nelle maglie della giustizia. Accusati di quelle nefandezze che pubblicamente combattevano. E il recente caso di Antonino Candela dimostra come in Sicilia anche il Covid-19 diventi occasione di truffa.
Alla fine, sempre lì si torna. Su quel bilico dove continuano a incontrarsi impunemente i due arcinoti lampi letterari che, da sempre, raccontano la Sicilia. Da una parte, i professionisti dell’antimafia di Leonardo Sciascia. Dall’altra, il «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. E, in mezzo, quel connubio tra sedicenti paladini e irredimibile uso del potere.
Dall’olimpo dell’ultralegalità l’ultimo caduto è Antonino Candela. Autoproclamatosi nelle intercettazioni «capo condomino della sanità» e fresco coordinatore della task force regionale sull’emergenza Covid. La Procura di Palermo l’ha arrestato, assieme a tanti altri bei nomi, per corruzione: si sarebbe intascato 260 mila euro di tangenti.
Ai continentali il nome dice poco. Ma Candela, in Sicilia, ha fatto e disfatto per anni. Nominato direttore generale dell’Asp di Palermo, a dicembre 2014 riceve perfino il pubblico encomio di Rosario Crocetta, re dei campionissimi dell’antimafia: «È fervido auspicio che il suo metodo di gestione ispirato ai valori di massima legalità diventi il modello condiviso in ogni settore dell’amministrazione regionale» scrive l’allora governatore siciliano. Candela, nel 2016, viene decorato perfino dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. È un eroe. Anzi, «il supereroe dei pannoloni»: l’intrepido che, con le sue temerarie denunce, ha smascherato la truffa delle forniture nell’azienda sanitaria del capoluogo. Coraggio che gli costa molte minacce e gli garantisce una scorta.
Adesso lo scudiero che doveva difendere l’isola dal virus venuto da Nord è finito in prigione. Ma è solo l’ennesina stella del firmamento tirata giù dalla magistratura. Lo stesso Crocetta, che sverna in Tunisia, resta bersaglio di perigliose investigazioni. L’ultima è quella sull’armatore trapanese Ettore Morace. Lo scorso novembre i gup di Palermo hanno rinviato a giudizio per corruzione l’ex presidente della Regione. Il suo movimento, RiparteSicilia, avrebbe avuto un finanziamento di circa 5 mila euro dall’imprenditore.
Ma le accuse più roboanti sono in fieri. Crocetta è indagato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e al finanziamento illecito dei partiti nella seconda tranche dell’inchiesta su Antonello Montante. Nel primo filone, intanto, l’ex vicepresidente di Confindustria con delega alla legalità, due settimane fa è stato condannato a 14 anni di carcere. Il Gup di Caltanissetta, Graziella Luparello, nella sentenza scrive: «È stato il motore immobile di un meccanismo perverso di conquista e gestione occulta del potere che, sotto le insegne di un’antimafia iconografica, ha sostanzialmente occupato, mediante la corruzione sistematica e le raffinate operazioni di dossieraggio, molte istituzioni regionali e nazionali».
Non mafia bianca, ma «trasparente». Montante, dalla sua elegante villa di Serradifalco, entroterra siculo, accumulava faldoni grazie a rara scaltrezza e buonissimi uffici nella magistratura. Da qui, ha mosso i fili nella lunga stagione degli sceriffi al potere. Come lui, l’ex senatore Beppe Lumia. Mente fina, regista oscuro e ideatore della candidatura di Crocetta nel 2012. Già presidente della Commissione parlamentare antimafia, è tirato in ballo in indagini e intercettazioni: spesso evocato, resta giudiziariamente illeso.
Nemesi della nemesi, l’impostura viene però delegittimata da un’altra commissione antimafia: quella siciliana, guidata da Claudio Fava, figlio del giornalista Giuseppe, illustre vittima di Cosa nostra. Ed ecco, dunque, cosa scrivono i nuovi paladini dei vecchi: «Una lunga stagione di anarchia istituzionale, una deregulation perfino ostentata, una promiscuità malata fra interessi privati e privati». E l’antimafia che diventa arma acuminata: «Agitata come una scimitarra per tagliare teste disobbedienti e adoperata come salvacondotto per se stessi attraverso un sillogismo furbo e malato: chi era contro di loro, era per ciò stesso complice di Cosa nostra». Ed è sempre una relazione della commissione guidata da Fava che, lo scorso ottobre, oscura il bagliore di un’altra stella del firmamento: Giuseppe Antoci, ex presidente del Parco dei Nebrodi, vittima di un attentato a maggio 2016. E, da quel momento, indiscussa e attivissima icona del movimento. Tanto da meritare perfino l’onorificenza di Sergio Mattarella. Attentato? Mica tanto, riformula però l’antimafia siciliana lo scorso ottobre. Più probabili, piuttosto, altre ipotesi: l’«atto puramente dimostrativo» o la «simulazione». Interpretazione che ha scatenato l’ennesima guerra tra eroi.
Com’è successo, d’altronde, nel caso del giornalista Paolo Borrometi, sotto scorta per le minacce dei boss e insignito, anche lui, dal presidente della Repubblica. Il suo sito d’inchiesta, La Spia, nel 2015 inizia a denunciare infiltrazioni di Cosa nostra nell’amministrazione di Scicli, nel Ragusano. Gli arieti sono il solito Lumia e il senatore Mario Giarrusso, ex Cinque stelle ora nel Gruppo misto. Il Comune viene sciolto. Ma nel 2016 Franco Susino, l’ex sindaco della città di Montalbano costretto alle dimissioni, è assolto. Pure l’antimafia siciliana, nel 2019, approfondisce il «caso Scicli». Un’audizione dopo l’altra. E ai dubbi seminati dalla commissione sul suo operato, Borrometi replica tacciando «di falsità nei suoi confronti». Segue, un mese fa, querela. E dichiarazione finale di Fava: «Definirsi un giornalista antimafia, come fa Borrometi, è un’idea aberrante. I giornalisti cercano umilmente la verità. Le autocertificazioni e le patenti antimafia hanno prodotto equivoci a tutti i livelli, basti ricordare il caso di Montante». Sillogismo impegnativo: Borrometi per la giustizia è una vittima. E lo stesso vale per Antoci.
Presunta carnefice in attesa di giudizio è invece Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. È sua la mistificazione più sbalorditiva. Un’ossequiata sacerdotessa dell’antimafia, accusata di gestire come cosa propria i beni confiscati a Cosa nostra. Lo scorso febbraio i pm di Caltanissetta hanno chiesto 15 anni e 10 mesi. Già condannato in appello a 3 anni e otto mesi per estorsione Roberto Helg, ex presidente della Camera di commercio di Palermo. Tuonava contro il pizzo. Nel frattempo, chiedeva tangenti per fare aprire un negozietto nell’aeroporto di Punta Raisi, gestito dalla Gesap, di cui era vicepresidente. Pure lui, ovviamente, in splendidi rapporti con Montante.
Già, perché sempre lì si ritorna: all’ex presidente di Confindustria Sicilia. Certo, partendo da lui per arrivare all’ultimo arrestato, il ragionamento è lo stesso: tutti innocentissimi fino all’ultimissimo grado di giudizio. Se non fosse, appunto, per quella montagna di imposture. Continuo ossequio all’anatema scagliato trent’anni fa da Leoluca Orlando, già cavaliere senza macchia e sempiterno sindaco di Palermo: «Il sospetto è l’anticamera della verità». E, spesso, della carriera.
