Il Consiglio superiore della magistratura è un organo che pretende di farsi le leggi, di nominare i suoi vertici e pure di valutarli in caso di errori o manchevolezze.
C’era una volta il Porto delle nebbie, un buco nero che a Roma inghiottiva i processi più scottanti della Repubblica. Erano gli anni Settanta e il sistema per far sparire inchieste che potevano mettere in imbarazzo il Potere (sì, proprio quello con la P maiuscola) era costituito dall’«avocazione».
I giudici della capitale avocavano a sé le indagini, sottraendole ad altri uffici giudiziari. Così si insabbiarono scandali che riguardavano la Rai, l’Anas, le infiltrazioni mafiose nelle Regioni, le intercettazioni abusive, i presunti golpe e via. Un bel giorno si scoprì che alcuni importanti magistrati erano addirittura iscritti alla loggia P2, l’associazione segreta fondata da Licio Gelli e qualche giornale scrisse che «la giustizia romana era divenuta un covo di crimini se non di criminali».
Oggi il Porto delle nebbie non c’è più, ma c’è il Porto delle guerre, che, pur non avendo i retroscena scabrosi e illegali di 50 anni fa, certo non contribuisce a dare fiducia al cittadino che si rivolge alla giustizia. Maurizio Tortorella a pagina 16 ricostruisce lo scontro fra le toghe in corso a Milano. Un magistrato, Paolo Storari, incaricato di interrogare un testimone, sostiene che gli sia stato impedito di indagare e per questo si rivolge a un collega, all’epoca membro del Csm, per denunciare l’inattività del suo ufficio.
Una mossa che mette in circolo una serie di veleni, con i verbali secretati che passano di bocca in bocca e riguardano proprio un’associazione segreta, la Loggia Ungheria, di cui farebbero parte anche alcuni magistrati. A un certo punto le carte finiscono sulle scrivanie delle redazioni e di qui in Procura, con l’apertura di un fascicolo per fuga di notizie. Alla fine, si scopre la talpa, ma anche quanti hanno avuto in mano le carte o ne sono stati informati circa il contenuto, ma che guarda caso non hanno fatto nulla. Finisce con il pm, Storari, accusato di violazione del segreto istruttorio e con un’azione disciplinare, con tanto di richiesta di trasferimento.
Ma quella che sembra la banale storia di un magistrato che vìola la legge, sentendosi incaricato di una missione da compiere a prescindere dalle regole e dalle procedure, a un certo punto diventa un caso che alza il sipario sul Porto delle guerre, il luogo dove si dovrebbe amministrare la giustizia in nome del popolo italiano e invece sembra essere guidato da altri scopi. Sessanta pm su 64 in servizio nella Procura del capoluogo lombardo, 29 giudici per le indagini preliminari su 32, senza contare i giudici delle Corti d’appello, penali e civili, si schierano con il pubblico ministero reo di aver scavalcato il suo capo e passato le carte all’esponente del Csm. Una rivolta che, partita dal Tribunale di Milano, si estende a tutto il distretto giudiziario e anche ad altri tribunali.
Sullo sfondo, la strana storia di un processo, quello Eni, con falsi pentiti, con accuse che arrivano fino al presidente del collegio che deve emettere la sentenza, con prove che forse sono state sottratte alla difesa, ma alla fine con un verdetto che assolve gli imputati e censura la Procura. Già in passato a Milano, il Porto delle guerre, si era assistito a un «aggiunto» che aveva denunciato il suo capo, accusandolo di aver tenuto troppo a lungo un’inchiesta nel cassetto, ma la storia si era risolta rimuovendo il procuratore ribelle ed esiliandolo a Torino.
Questa volta il conflitto è diverso e non coinvolge solo il capoluogo lombardo, ma arriva fino a Roma, lambisce il Consiglio superiore della magistratura, il Procuratore generale di Cassazione, dando la sensazione che il regolamento di conti cominciato con il caso Palamara non sia finito, ma sia solo all’inizio. Il «Sistema» denunciato dall’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, un caso che qualcuno riteneva chiuso con la radiazione di Luca Palamara e con la pubblicazione delle manovre per influenzare le nomine degli uffici giudiziari, in realtà è più aperto di prima e, a 30 anni di Mani pulite, si capisce che è arrivata l’ora di Toghe pulite.
Certo, questo non lo possono fare i magistrati, ai quali, pur se composti in massima parte da persone rigorose, non si può chiedere di essere giudici di sé stessi. Nessun sistema si può reggere a lungo sull’autogestione, perché questo è il Consiglio superiore della magistratura, un organo che pretende di farsi le leggi, di nominare i suoi vertici e pure di valutarli in caso di errori o manchevolezze. Il «Sistema» si regge sulla spartizione, sul clientelismo, sulle correnti, sui rapporti di potere e di forza. Si fa carriera così: non per merito, per appartenenza. E ci si salva da una sanzione non per l’inesistenza del fatto, ma per la sussistenza di un patto, quello tacito che consente a ogni corrente di «salvare» i propri iscritti, di promuovere i propri associati.
La giustizia, l’indipendenza, l’autonomia non c’entrano nulla con questo «Sistema»: sono solo il paravento dietro cui si nasconde la gestione del potere, la garanzia dell’impunità. Il caso Storari, più ancora di quelli di Luca Palamara o di Stefano Fava (magistrato in servizio a Roma che osò denunciare i vertici della Procura per conflitto di interessi nella vicenda Amara, lo stesso pentito che ha messo nei guai Storari, e per questo fu rimosso), ma ancor di più del caso Robledo (il pm rimosso ed esiliato a Torino), a prescindere dai torti e dalle ragioni, dagli errori o dalla correttezza dell’operato del pm milanese, apre la strada a una riflessione.
Ovvero se i giudici debbano essere giudicati da altri giudici. Il proverbio recita: cane non mangia cane. Mai come in questa occasione è urgente una riforma del Csm, per impedire che le toghe assolvano sé stesse e condannino sempre tutti gli altri. Piercamillo Davigo tempo fa sostenne che l’Italia andava rivoltata come un calzino. Forse è giunta l’ora di rivoltare come un calzino anche la magistratura. A tutela della magistratura stessa.
