Né il Pd né i grillini appoggeranno il nome di Draghi. Assisteremo a una girandola di nomi, da quello di Dario Franceschini a quello di Paolo Gentiloni, per finire al solito Romano Prodi. Ma a spuntarla, alla fine, potrebbe essere Pier Ferdinando Casini.
La scorsa settimana Sergio Mattarella ha detto che non ha intenzione di correre per un secondo mandato presidenziale. «Io sono vecchio e tra otto mesi, quando lascerò il Quirinale, potrò riposarmi». L’annuncio in teoria rende più chiaro il quadro politico perché, se l’attuale capo dello Stato non è disponibile a un bis, cioè a restare sul Colle ancora un paio d’anni allo scopo di consentire la regolare fine della legislatura, non resta che trovare il successore. Il passo indietro di Mattarella, tuttavia, invece di semplificare la situazione, rischia di complicarla, perché la rinuncia a un secondo mandato stile Giorgio Napolitano apre per le forze politiche un bel problema.
Il più quirinabile fra i tanti che aspirano al Colle è ovviamente Mario Draghi. Come accadde per altri governatori della Banca d’Italia, avrebbe le carte in regola per il ruolo. Il suo passaggio a Palazzo Chigi e l’esperienza alla Bce lo rendono perfetto a guidare e rappresentare il Paese in un difficile momento di transizione, perché l’attuale presidente del Consiglio non solo avrebbe l’esperienza politica, ma anche quella internazionale. Tuttavia, nonostante Draghi abbia il physique du rôle, sarà difficile che le forze politiche lo votino. O meglio: qualcuno, soprattutto nel centrodestra, si dichiara pronto a farlo, ma designare l’ex governatore della Bce capo dello Stato significa trovare un suo sostituto alla guida dell’esecutivo e questo complica un po’ le cose. Innanzitutto, se Draghi lascia Palazzo Chigi, chi prenderà l’interim del governo? Quando un ministro si dimette, è il premier che in attesa di indicare il successore prende su di sé la responsabilità del ministero. Ma se è il presidente del Consiglio a lasciare, l’interim a chi va?
Nella storia della Repubblica non ci sono precedenti: se il premier si dimette, resta in carica per gli affari ordinari e il Parlamento sceglie chi gli deve subentrare e, se non ci riesce, si va a nuove elezioni. Ecco: questo è il punto. Chi, come Matteo Salvini, spinge per Draghi al posto di Mattarella, lo fa oltre che per le innegabili qualità dell’ex governatore, anche per calcolo, convinto che dopo di lui non ci sia la possibilità di trovare un altro uomo delle istituzioni che possa tenere insieme destra e sinistra. Se Draghi sale al Colle, dunque, il Parlamento si scioglie e si va al voto. Per Salvini, ma anche per Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi, sarebbe la scelta ottimale, in quanto nel centrodestra sono convinti che i Cinque stelle si dissolveranno e alla loro coalizione spetterà il governo del Paese. Ma è proprio per questo, per la paura di dover mollare le comode poltrone parlamentari e ministeriali, che né i grillini né gli altri componenti dell’ex maggioranza giallorossa, hanno intenzione di assecondare il progetto. Per molti onorevoli rappresenterebbe la fine della loro carriera politica e dovrebbero cercarsi un lavoro che, va da sé, difficilmente sarebbe retribuito nella stessa misura. Certo, alla scadenza naturale della legislatura avrebbero lo stesso problema, ma un conto è anticipare di un anno l’uscita di scena, un altro è avere a disposizione altri 12 mesi di mandato e di retribuzione.
Ho citato gli esponenti dei Cinque stelle e del Pd e il loro problema di ricollocazione non a caso. La legge che ha ridotto da mille a 600 il numero di parlamentari farà strage tra le loro fila. Per quanto riguarda i grillini è chiaro: nel 2018, alle elezioni presero il 33 per cento e oggi i sondaggi più generosi attribuiscono loro il 18. Dunque, già questo significa che alle prossime elezioni solo la metà degli attuali deputati e senatori pentastellati verrebbero rieletti. Se poi si considera che i posti si sono ridotti di un terzo e nel Movimento è in vigore il divieto di un terzo mandato, vuol dire che tra i colonnelli di Beppe Grillo sarebbe una strage. Questo a prescindere dal caos in cui versa il partito, che al momento non ha neppure una leadership. Diversa, ma non molto, la questione dentro il Pd. A oggi, le truppe di Camera e Senato sono zeppe di renziani ed ex renziani, ma le liste per le prossime elezioni nel Partito democratico non le farà il senatore semplice di Scandicci, bensì Enrico Letta, il quale ovviamente non vede l’ora di piazzare in Parlamento uomini e donne che rispondano a lui e non a quell’altro. Dunque, anche nel Pd non hanno alcuna voglia di accorciare la legislatura.
Risultato, né il Pd né i grillini appoggeranno il nome di Draghi perché a Natale nessun cappone muore dalla voglia di saltare in pentola. Penso che assisteremo a una girandola di nomi, da quello di Dario Franceschini (che strizza l’occhio ai grillini) a quello di Paolo Gentiloni (che però ha un acerrimo nemico di nome Renzi), per finire al solito Romano Prodi (che è un po’ come quei capi di vestiario che si tengono nell’armadio: pronti all’occasione anche se non si indossano mai). Alla fine, però, potrebbe spuntarla un vecchio democristiano, uno che ha attraversato tutti gli schieramenti, passando dal centro alla destra per poi finire a sinistra. A chi penso? A Pier Ferdinando Casini detto Pierfurby, uno che se ne sta acquattato in Parlamento da circa 40 anni e conosce tutti. Un grande vecchio della politica, anche se ha solo 65 anni, uno che ha fatto il presidente della Camera con Berlusconi e il presidente della commissione parlamentare sulle banche con Renzi, ossia un uomo per tutte le stagioni. Soprattutto per questa.
