In passato ogni elezione è stata un terno al lotto, ma questa rischia di esserlo anche di più. Perché se Mario Draghi non viene eletto al primo colpo, può succedere l’imponderabile.
Nella storia repubblicana sono pochi i capi dello Stato eletti con un solo scrutinio. Se si esclude Enrico De Nicola, che divenne presidente della Repubblica quando la Repubblica ancora non c’era, restano solo due nomi, ossia quelli di Francesco Cossiga e di Carlo Azeglio Ciampi, entrambi votati da una larga maggioranza. Per tutti gli altri l’elezione fu complicata da trattative e tradimenti, con le correnti e i franchi tiratori a farla da padrone.
La più complessa delle scelte fu quella che portò al Quirinale Giovanni Leone, nel 1971. Ci vollero ben 23 scrutini per consentirgli di salire al Colle, ma prima di lui il suo partito, la Dc, sfogliò una margherita con diversi candidati. Il predestinato pareva Amintore Fanfani, all’epoca presidente del Senato, ma all’uomo che Indro Montanelli soprannominò «Rieccolo» per la capacità di risorgere da ogni sconfitta, compresa quella del referendum sull’aborto, mancarono i voti dei suoi e degli alleati. Così, all’undicesimo scrutinio fu tolto di mezzo.
Nella classifica delle elezioni più sofferte, oltre a quella di Leone ci fu la precedente, che portò alla nomina di Giuseppe Saragat. Anche all’epoca il candidato di bandiera dei democristiani era Fanfani, sostituito dopo dieci votazioni da Giovanni Leone, ma alla quindicesima si capì che neanche il giurista napoletano sarebbe passato e dunque i democristiani virarono su Saragat, l’unico che avrebbe potuto avere il voto dei socialisti. Tuttavia, per eleggerlo ci vollero 21 scrutini.
Più semplice la scelta di Sandro Pertini, che richiese «solo» 16 votazioni, in cui i partiti bruciarono tutte le candidature possibili, da quelle di Benigno Zaccagnini (Dc) e Giorgio Amendola (Pci) a quelle di Guido Gonnella (Dc) e di Ugo La Malfa (Pri), passando per Antonio Giolitti e Giuliano Vassalli (Psi). Sì, ci fu un gran dispendio di padri della patria prima di scegliere l’ex partigiano socialista, che riteneva di essere fuori dai giochi al punto da aver organizzato una vacanza in Francia, alla quale fu costretto precipitosamente a rinunciare.
In effetti, l’elezione del presidente della Repubblica è stata quasi sempre accompagnata da sorprese, come fu con Giorgio Napolitano, che non doveva essere eletto, ma bruciato nelle prime chiamate, e che alla fine si trovò non solo nominato una prima volta ma, a causa dei franchi tiratori che fecero secchi Franco Marini (Pd) e Romano Prodi (altro Pd), anche una seconda. Oscar Luigi Scalfaro fu un altro capo dello Stato inaspettato. La Dc lo aveva sistemato alla Camera, nominandolo presidente dopo un cursus honorum che lo aveva visto parecchie volte ministro, l’ultima al Viminale con Bettino Craxi presidente del Consiglio.
Quando Francesco Cossiga si dimise due mesi prima della fine del mandato, i democristiani candidarono Arnaldo Forlani, che della Dc era il segretario, mentre a sinistra si puntò su Giuliano Vassalli. Alla fine, a decidere il capo dello Stato fu la strage di Capaci. La morte di Giovanni Falcone, della moglie e della sua scorta diede uno scossone al Paese e alla politica. L’Italia non poteva rimanere con un governo dimissionario e senza un presidente della Repubblica in un momento del genere. Marco Pannella lanciò la proposta di Scalfaro e lo scudocrociato non poteva certo dire di no a uno dei suoi uomini più in vista. Dunque, contro ogni previsione, colui che poi sarebbe stato soprannominato «il Campanaro», per la sua vicinanza al mondo cattolico, al sedicesimo scrutinio divenne il nono presidente della Repubblica.
Con queste premesse, immaginare chi, dalla seconda metà di gennaio in poi, ricoprirà la carica di tredicesimo capo dello Stato non è cosa facile. Anche perché alle ambizioni dei leader che si sentono titolati a salire al Quirinale, si sommano non solo le trame delle correnti e dei franchi tiratori, come sempre è stato, ma pure un ingorgo istituzionale senza precedenti. I nomi di chi aspira a salire al Colle circolano da settimane. Della lista fa parte Pier Ferdinando Casini, politico che ha navigato in tutti i mari, dalla prima alla seconda Repubblica, e in tutti gli schieramenti, passando dal centro al centrodestra per finire nel centrosinistra.
Insieme al suo, circola il curriculum di un altro reduce del Caf, ossia Giuliano Amato, per due volte presidente del Consiglio e per quattro ministro, oltre che ex presidente dell’Antitrust e attuale vicepresidente della Corte costituzionale. In lizza ci sono poi Marta Cartabia, Guardasigilli nel governo Draghi e presidente emerito della Consulta; Silvio Berlusconi, il cui curriculum diamo per acquisito, Paola Severino, anch’ella con trascorsi in via Arenula, alla guida della giustizia e, per finire restando ai più quirinabili, Paolo Gentiloni, ex premier e attuale commissario europeo, il quale ha fatto sapere di non essere interessato: un’excusatio non petita che ovviamente è parsa a tutti la conferma della candidatura.
Tuttavia, nonostante la folla che si accalca per conquistare la poltrona più importante della Repubblica, il vero candidato resta Mario Draghi, il quale dalla sua sembra avere il supporto di tutti i partiti, ma come sempre accade, il più applaudito non è detto che poi sia, nel segreto dell’urna, anche il più votato. Infatti, contro di lui gioca un ingorgo istituzionale che rischia di farlo entrare in conclave come papa per uscirne da cardinale. Il problema principale è che mai nella storia della Repubblica il Parlamento ha eletto capo dello Stato un presidente del Consiglio in carica.
Naturalmente, c’è sempre una prima volta, ma adesso si sommano anche altri fattori che remano contro. Il più importante è che se Draghi lasciasse Palazzo Chigi per il Quirinale, al momento nessuno saprebbe come rimpiazzarlo. Qualcuno ha fatto il nome dell’attuale ministro dell’Economia, Daniele Franco, che sarebbe un po’ come mantenere l’ex governatore della Bce al proprio posto. Tuttavia, Franco, ex Banca d’Italia ed ex ragioniere dello Stato, ha l’animo del contabile, non certo del politico e se Draghi riesce a domare il circo Barnum dei partiti, non è detto che il mite capo di via XX Settembre faccia altrettanto.
Soprattutto, la maggioranza degli onorevoli teme che una volta spedito Draghi al Colle, Pd, Lega e Fratelli d’Italia ne approfittino per andare al voto, in modo da regolare i conti interni e soprattutto da sciogliersi dall’abbraccio che li costringe oggi nello stesso governo (Enrico Letta e Matteo Salvini) o nella stessa coalizione (Salvini e Giorgia Meloni).
Tuttavia, il voto per il nuovo inquilino del Quirinale non coincide solo con la tenuta della legislatura, che ormai si avvia alla fine, ma anche con la riduzione dei parlamentari, che al prossimo giro saranno 300 in meno. Insomma, tutto concorre a rendere la situazione più incerta che mai. Nel passato ogni elezione del presidente della Repubblica è stata un terno al lotto, ma questa rischia di esserlo anche di più, perché se Draghi non viene eletto al primo colpo, con una maggioranza ampia, tutto può succedere. Anche l’imponderabile.
