Cosa insegna il caso Amara? L’obbligatorietà dell’azione penale prevede che un magistrato, una volta avuta notizia di un reato, indaghi e non dimentichi.
A qualcuno la faccenda potrà sembrare cosa da addetti ai lavori, anche perché i nomi dei protagonisti non sono famosi. Tuttavia, la storia che lega Piero Amara e Vincenzo Armanna, due che già quasi si confondono, è argomento che va al di là di un problema tra avvocati e magistrati, perché ha a che fare con alcune questioni chiave che riguardano la giustizia, l’obbligatorietà dell’azione penale, l’uso dei testimoni, la discrezionalità delle procure. Vale a dire, in poche parole: l’uso e l’abuso che si fa della legge.
Amara & Armanna sono rispettivamente un avvocato e un manager. Il primo con un passato da legale esterno dell’Eni, il secondo come dirigente da funzionario del cane a sei zampe. Nel 2014, i due entrano di prepotenza in un’inchiesta per corruzione internazionale, raccontando alla Procura di Milano di una tangente miliardaria che il gruppo petrolifero italiano avrebbe pagato a politici nigeriani pur di ottenere la concessione per estrarre l’oro nero. I pm indagano e mettono sotto accusa tutti i vertici dell’Eni, a cominciare dall’amministratore delegato Claudio Descalzi per finire al suo predecessore, Paolo Scaroni. La faccenda è ghiotta, gli inquisiti sono di primo piano e i pubblici ministeri si gettano nell’indagine senza risparmio di energie, arrivando al rinvio a giudizio degli indagati. Ma la coppia di testimoni non si ferma ai verbali che inguaiano la più grande azienda italiana nel settore dell’energia. Davanti ai magistrati arrivano anche le rivelazioni che riguardano una presunta loggia massonica di cui farebbero parte alti funzionari dello Stato e perfino delle toghe: insomma, un buco nero della democrazia, capace di influenzare processi e anche nomine ai vertici delle istituzioni.
Amara & Armanna paiono la chiave per aprire lo scrigno di alcuni misteri della Repubblica, dalla madre di tutte le tangenti al padre di tutti gli intrighi. Ma il problema è che prima di tutto, prima di penetrare nel mondo di ombre che è stato raccontato ai pm, serve capire se i due dicono il vero, se cioè sono testimoni attendibili o millantatori. Se stanno raccontando fatti realmente accaduti o se, per ragioni insondabili, stanno inquinando i pozzi, depistando le indagini, infangando delle persone per destabilizzare aziende e uomini dello Stato. I magistrati della Procura di Milano (ma non solo loro) scelgono di credere alle versioni messe a verbale dai due e, come detto, si va a processo per il caso Eni, un procedimento che dopo sette anni di indagine, tre di dibattimento, 74 udienze e 62 milioni di spese legali, si rivela però una disfatta, perché i giudici smontano pezzo dopo pezzo le testimonianze di A&A. Il fatto non sussiste.
Però sussistono tanti indizi che avrebbero dovuto indurre a dubitare dei due: innanzitutto, alcune ricostruzioni e citazioni sgangherate, poi una serie di interessi privati che forse avrebbero dovuto essere approfonditi. Un paio di fatti appaiono certi. Il primo è contenuto nella sentenza con cui il Tribunale di Milano ha assolto i vertici dell’Eni: una registrazione sin dal principio avrebbe potuto scagionare gli imputati, svelando la volontà di Armanna e forse anche di Amara di accusare i capi del gruppo petrolifero perché intralciavano i loro affari. Peccato che quel video non sia stato portato a conoscenza della difesa e nemmeno dei giudici e sia stato casualmente scoperto dall’avvocato di uno dei manager finito a processo. Dimenticare una prova non è cosa da poco, soprattutto se si tratta di una prova decisiva che può invalidare una testimonianza e dare una svolta al processo. Ma non è tutto, c’è altro di cui a Milano si sono scordati ed è il verbale della famosa loggia massonica, che stranamente non viene verificato, ma resta per un po’ a dormire, al punto che un magistrato, dopo mesi, decide di consegnarlo, violando in apparenza ogni regola di segretezza istruttoria, a un esponente del Csm, ossia a quel Piercamillo Davigo che in tv si erge sempre a paladino della giustizia, a integerrimo amministratore della legge. Il verbale, invece di essere materia d’indagine, comincia a essere materia di discussione fra esponenti del Csm, ma non solo. Per una via non proprio limpidissima giunge anche nelle mani di qualche giornalista e di qui ritorna alla magistratura, che alla fine apre un’inchiesta per fuga di notizie.
Vi chiedete perché vi abbia raccontato questa tortuosa storia? Perché si tratta di una delle peggiori che mi sia toccato descrivere, con verbali spariti e verbali che appaiono troppo, ma non nelle aule di giustizia. L’obbligatorietà dell’azione penale prevede che un magistrato, una volta avuta notizia di un reato, indaghi e non dimentichi. Si può indagare a carico dei sospettati ma, se non ci sono riscontri chiari o invece ci sono in senso opposto, si deve indagare per calunnia il denunciante. Non si possono mettere sul banco degli imputati solo i soggetti noti: se è necessario, ci devono finire anche gli sconosciuti, soprattutto se vogliono con le loro accuse trarne un beneficio. Ma tutto ciò non è accaduto e il processo lo hanno subito altri. Ecco, poche faccende sono losche come questa, con di mezzo magistrati, petrolio, soldi e un clima di pressioni per non dire di ricatti. Non sappiamo come finirà tutto questo, ma sappiamo che se c’era un presupposto per sostenere le ragioni di una profonda riforma della giustizia, beh, A&A hanno trovato il modo migliore.
