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Onida: «Perché voto Sì al referendum»

Onida: «Perché voto Sì al referendum»

Il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida mette in guardia gli elettori, invitandoli a non cedere a umori momentanei. E spiega: «Ridurre il numero dei componenti delle assemblee non introduce squilibri nei rapporti fra organi costituzionali e non ne altera la rappresentatività».


«Andiamo a votare con razionalità, badando alle argomentazioni. Anche perché ridurre il numero dei componenti delle assemblee non introduce squilibri nei rapporti fra organi costituzionali e non ne altera la rappresentatività». Il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida invita gli elettori a non cedere a umori momentanei. Professore emerito di Diritto costituzionale, Onida divenne presidente della Corte costituzionale il 22 settembre 2004. Candidato alle primarie del centrosinistra alla carica di sindaco di Milano nel 2010, raccolse il 13,41% dei voti. Già alla guida dell’ Associazione italiana dei costituzionalisti, è una presenza carismatica nel dibattito intorno alla nostra Carta fondamentale. Panorama.it ha conversato con Onida a pochi giorni dall’appuntamento referendario del 20 e 21 settembre, indetto per approvare o respingere la legge di revisione costituzionale in materia di riduzione del numero dei parlamentari. Il testo di legge, approvato in via definitiva dalla Camera l’8 ottobre 2019, prevede il taglio del 36,5% dei componenti di entrambi i rami del Parlamento: da 630 a 400 seggi alla Camera, da 315 a 200 seggi elettivi al Senato.

Professor Onida, in quanto Presidente emerito della Corte costituzionale lei ha un punto di vista privilegiato?

«No, e perché mai? Si tratta di una scelta rimessa a tutti gli elettori. A mio avviso, premesso che il contenuto della riforma non mette in gioco valori costituzionali come la democraticità del sistema, il ruolo del Parlamento e il suo processo di rappresentatività, darei rilievo al fatto che non si tratta di dire “sì” o “no” a una qualsiasi proposta proveniente dal di fuori delle istituzioni, ma di confermare o smentire una decisione legislativa adottata dal Parlamento, con quattro deliberazioni successive delle due Camere, succedutesi nel corso del 2019».

La riforma su cui saremo chiamati ad esprimerci aveva potuto contare su un ampio consenso trasversale.

«Nella seconda votazione della Camera dei deputati, essa raccolse non solo il voto di oltre i due terzi dei deputati (circostanza che se si fosse verificata anche al Senato nella precedente votazione avrebbe addirittura impedito l’indizione di questo referendum “confermativo”), ma la quasi totalità dei voti espressi (553 su 567 votanti), manifestando il consenso sulla riforma da parte di pressoché tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento».

In pratica, la via maestra per ogni riforma costituzionale.

«Si tratta di un esempio raro di riforma non decisa a maggioranza, ma assistita dal consenso di tutti: come auspicabilmente dovrebbe essere sempre quando si tratta di incidere sulla Costituzione, che rappresenta il terreno comune a tutti e non dovrebbe possibilmente mai essere cambiata a colpi di questa o quella maggioranza di governo».

Lei ha dichiarato che, con il taglio dei parlamentari, le Camere potrebbero funzionare meglio.

«Non c’è una vera e propria garanzia di ciò, ma indubbiamente il varo della riforma potrebbe essere l’occasione che induca il Parlamento a mettere allo studio e a realizzare altre modifiche, soprattutto dei regolamenti e delle prassi parlamentari, tali da migliorare l’efficienza delle Camere».

Ci faccia un esempio.

«Penso a modifiche dirette a ridurre i tempi dei dibattiti e degli interventi, a combattere meglio l’assenteismo, a sviluppare il ricorso a commissioni bicamerali che istruiscano certi temi. Così la Commissione bicamerale per le questioni regionali, prevista già dalla Costituzione, potrebbe essere integrata da rappresentanti delle Regioni e incaricata di esprimere pareri su certe leggi con effetto parzialmente vincolante per le assemblee, secondo una previsione già contenuta nella legge costituzionale del 2001 di riforma del Titolo V della Costituzione, ma mai attuata».

Nessun rischio, in caso di vittoria del sì, di «squilibrio costituzionale»?

«Quale squilibrio? Ridurre di un terzo il numero dei componenti delle assemblee non introduce nessuno squilibrio nei rapporti fra organi costituzionali, né altera la rappresentatività di queste. Certo, con meno eletti si alza di un poco la “soglia minima implicita” perché una forza politica che ottiene un consenso molto limitato possa aspirare ad accedere alle Camere».

Nessuna controindicazione, allora?

«Anzi, nella elezione delle Camere, come ha chiarito anche la Corte costituzionale, è giusto perseguire un giusto equilibrio fra principio di rappresentanza e principio di “governabilità”. Questo attraverso strumenti che tendano a favorire la formazione di una maggioranza politica di governo, come sono le soglie esplicite di accesso alle Camere (il 5% per cento “tedesco” di cui si parla, o altra) o l’introduzione di elementi maggioritari nel sistema elettorale. Il tema riguarda essenzialmente la legislazione elettorale».

Presidente, si sente dire che il referendum si collocherebbe sostanzialmente sul crinale politico piuttosto che su quello della teoria costituzionale pura.

«Non è questione di teoria costituzionale, ma si tratta di vedere se vi sono ragioni di merito che possano indurre a smentire – lo ripeto – una decisione da ultimo pressoché unanime delle forze politiche parlamentari. A mio parere non ci sono».

Professore, il suo pensiero arriverà ad addetti ai lavori e cittadini della porta accanto: vogliamo semplificare questo referendum?

»È già molto semplice, a differenza di altri referendum del passato che coinvolgevano temi assai diversi. Qui si tratta della riduzione secca, di circa un terzo, del numero dei componenti delle due Camere, restando intatto, per il resto, il quadro delle funzioni e dei rapporti fra organi».

Capisce bene che è mutato il modo di comunicare la politica.

«Oggi la comunicazione politica passa essenzialmente non più attraverso sedi fisiche di riunione degli elettori, ma attraverso i grandi mezzi di informazione e la rete, onde anche il rapporto fra gli elettori e il “loro” deputato ha caratteristiche assai diverse dal passato».

Invadiamo il terreno della comparazione costituzionale…

«Nei vari ordinamenti sono state fatte scelte molto diverse in tema di numero degli eletti, e oggi in diversi Paesi simili al nostro sono in corso proposte di riduzione. Ciò è, d’altra parte, pure coerente con il fatto che in regime di suffragio universale la rappresentatività delle assemblee non può nascere da rapporti quasi personali fra piccoli gruppi di elettori e gli eletti, ma passa essenzialmente attraverso il ruolo dei partiti politici e delle grandi organizzazioni sociali».

Andiamo a scomodare il principio di rappresentanza…

«L’ho già detto: il principio di rappresentanza non passa oggi essenzialmente attraverso un legame personale fra elettori ed eletti, ma attraverso il ruolo necessario dei partiti e delle grandi organizzazioni sociali».

Ma cosa significa, in fondo?

«La rappresentanza politica non presuppone un controllo stretto da parte degli elettori sull’esecuzione di un preciso “mandato” elettorale vincolante, che fra l’altro impedirebbe di fatto gli incontri e gli accordi politici necessari per governare e per decidere. Non a caso, vige il principio costituzionale dell’assenza di vincolo di mandato. Passa attraverso la capacità dei rappresentanti di farsi interpreti della “domanda” politica della società e degli indirizzi politici che ne emergono».

Detto sinceramente, con questo taglio tale principio sarebbe in pericolo?

«Non direi. Nell’elezione della Camera, la rappresentanza sarebbe sempre legata alle circoscrizioni e ai collegi, più o meno ampi, ma sempre in proporzione alla popolazione; nell’elezione del Senato varrebbe sempre la regola per cui anche le collettività regionali più piccole debbono avere una loro distinta rappresentanza, attraverso la garanzia di un numero minimo di senatori eletti (tre, invece dei sette attuali), indipendentemente dalla popolazione».

Professore, si è appassionato a questo referendum?

«Se intende dire che l’argomento coinvolge grandi temi e valori costituzionali, la risposta è no».

Sistema elettorale obsoleto: che ne pensa?

«I sistemi elettorali devono adattarsi non tanto al numero dei rappresentanti da eleggere, quanto alle caratteristiche del sistema politico, cioè al numero e alle caratteristiche delle forze in campo e alle loro attitudini e propensioni a trovare punti di incontro reciproci per dare vita a maggioranze relativamente omogenee e relativamente stabili».

Il referendum per il quale voteremo non prevede un quorum, a differenza di quello abrogativo: come mai i padri costituenti decisero così?

«Questo è dovuto probabilmente al fatto che qui gli elettori sono solo chiamati a confermare o meno una deliberazione già presa in Parlamento. Certo, ci potrebbe essere il rischio che una piccola minoranza attiva di “no” sopravanzi una maggioranza di favorevoli o di elettori fondamentalmente indifferenti, che non si esprimano, così paralizzando la decisione del Parlamento».

La riduzione del numero dei parlamentari potrebbe compromettere la possibilità di discussione delle leggi?

«E perché mai? Semmai, al contrario, con Camere meno numerose e un dibattito meglio organizzato, la discussione potrebbe essere migliore e durare di meno…»

E del bicameralismo perfetto cosa ci dice? Da cinquant’anni nessuno è stato in grado di superarlo…

«Questo è un tema serio che potrebbe utilmente essere affrontato, ma questa riforma non lo intacca».

Presidente, come andrà a finire la partita del referendum?

«Non faccio il sondaggista».

In conclusione?

«Andiamo a votare con razionalità, non cedendo agli umori ma badando alle argomentazioni».

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