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IL caso Morisi e quelli invece «silenziati»

IL caso Morisi e quelli invece «silenziati»

L’editoriale del direttore

Il rinvio a giudizio del padre di Matteo Renzi per traffico d’influenze e l’avvocato Luca Di Donna, socio e stretto collaboratore di Giuseppe Conte, finito nel mirino dell’antiriciclaggio sarebbero notizie di maggior interesse, perché riguardano appalti e incarichi pubblici, ma i quotidiani gli dedicano al massimo qualche breve


Morisi, Morisi, Morisi… Lo confesso, se 15 giorni fa mi avessero chiesto chi fosse costui, cioè chi si nascondesse dietro questo cognome, non avrei saputo che rispondere. Pur facendo il giornalista da poco meno di mezzo secolo e dirigendo giornali da quasi una trentina di anni, ho alcune fortissime lacune e una di queste è non aver mai avuto a che fare con Luca Morisi, che grazie a un’inchiesta giudiziaria, ho scoperto essere l’artefice del successo di Matteo Salvini. O per lo meno questo è stato dato a intendere all’opinione pubblica. Sì, ammetto, sapevo che il capo della Lega ed ex ministro dell’Interno aveva nascosto, prima in uno scantinato del Viminale e poi in qualche cantina del partito, una Bestia, ossia un gruppo di «smanettoni», cioè di ragazzi capaci di far crescere i «like» sui social, ma chi fosse il loro «guru» mi era ignoto.

Poi, due settimane fa, ho appreso in rapida successione che il genio della comunicazione leghista aveva deciso di dimettersi e di lì a un paio di giorni ho letto come voi che il tizio, appunto Luca Morisi, era finito in una brutta faccenda di festini a base di droga. Ed essendoci di mezzo un leader politico che contro gli stupefacenti e gli spacciatori ha fatto una gran battaglia, arrivando anche a citofonare a casa di un presunto pusher, la notizia prima ha fatto il giro del web e poi ha campeggiato sulle prime pagine dei quotidiani per giorni, come molto probabilmente era inevitabile che succedesse. Se nel Dna del tuo partito ci sono i geni della lotta alla liberalizzazione dei narcotici e la ragione sociale della ditta include la difesa dei confini contro l’invasione degli immigrati, oltre che il contrasto a leggi bavaglio dettate dall’Arcigay, è inevitabile che se trovano uno dei tuoi che si diletta in festini a base di cocaina con dei ragazzi rumeni la storia finisca in prima pagina. Comprendo l’imbarazzo di Matteo Salvini e apprezzo la solidarietà umana offerta all’ormai ex collaboratore della Bestia, ossia della macchina social della Lega, ma era scontato che la questione non passasse sotto silenzio come un fatto privato, come in realtà è.

Il procuratore della Repubblica di Verona, provincia in cui si sarebbero svolti i fatti, rispondendo alle accuse di strumentalizzazione politica dell’indagine (la notizia è uscita a ridosso del voto per le Amministrative), non solo ha respinto qualsiasi responsabilità nella fuga di notizie, negando l’ipotesi di una giustizia a orologeria, ma ha anche precisato che il fatto «è banale». Tradotto, mi pare di capire che quel che faceva questo signor Morisi con i rumeni è affar suo, così come è affar suo se «pippava» cocaina a uso personale. Il problema semmai è se è vero o no che ha ceduto ai compagni di festini qualche dose. Il che non configura l’ipotesi di spaccio di stupefacenti, ma appunto la «cessione» di sostanze vietate.

Vi chiedete perché la faccia tanto lunga con una vicenda tutto sommato «banale» (uso il termine del pm di Verona) e per di più forse anche umanamente un po’ sordida? Lo spiego subito. Benché il caso sia interessante per le sue contraddizioni (stai in un partito che è contro le droghe, ma ne fai uso; sei contro l’invasione dei migranti, ma non nel tuo letto), dal punto di vista politico vale zero. Primo perché Morisi non è un parlamentare, né ha un ruolo di rilievo nelle scelte politiche. E secondo perché la vicenda si apre e si chiude all’interno della sfera personale. Per dirla con Papa Francesco quando ha parlato di un cardinale negazionista che ha contratto il coronavirus, si tratta dell’«ironia della vita». Tuttavia, pur riconoscendo che a volte le contraddizioni di chi ha un ruolo pubblico (anche se non è conosciuto come Morisi) suscitano l’attenzione dei media, mi domando perché altre notizie non abbiano avuto la stessa eco nei giorni in cui è scoppiato il caso dell’uomo che gestiva la Bestia di Salvini. A che cosa alludo? Beh, per esempio al rinvio a giudizio del padre di Matteo Renzi per traffico d’influenze.

Dopo mesi in cui si era detto che il celebre genitore era vittima di un complotto, il giudice per le indagini preliminari ha disposto il giudizio, all’interno di un’inchiesta in cui si discuteva di appalti e manager pubblici, cioè dove c’erano in gioco i denari dei contribuenti. Niente droga o comportamenti sessuali privati e relazioni con personaggi dubbi: c’erano i nostri quattrini. Nonostante ciò, alla stampa «mainstream» è importato meno che di quello che accadeva in una cascina della Bassa veronese a un tizio di nome Morisi. Non solo: la scorsa settimana Panorama ha dedicato la copertina a un’indagine che riguarda uno dei più stretti collaboratori di Giuseppe Conte, l’avvocato Luca Di Donna, un socio di studio dell’ex presidente del Consiglio (avrebbe anche contribuito a scrivere lo Statuto dei Cinque stelle) che è finito nel mirino dell’antiriciclaggio ed è tirato in ballo per alcuni incarichi professionali da un pentito di nome Amara. Di sicuro, per la collettività, i casi Renzi e Di Donna sono di maggior interesse, perché riguardano appalti e incarichi pubblici. Però a Morisi sono stati dedicati titoli di prima pagina, agli altri due, nel migliore dei casi, alcune brevi. Giudicate voi, a questo punto, perché i quotidiani vendano ogni giorno sempre di meno.

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