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I 100 anni del Vittoriale di D’Annunzio

I 100 anni del Vittoriale di D’Annunzio

Nella dimora a Gardone Riviera, il Vate realizza l’immagine perfetta di se stesso. Immersa nella luce del lago, ma affollata di oggetti e stanze nell’ombra.


Come nessun altro luogo, il Vittoriale di Gardone traduce in pietra l’anima di Gabriele D’Annunzio che, abitandolo, lo modellò e lo arredò seguendo l’istinto estetico di un innamorato del bello. Ci arrivò in un momento difficile. L’impresa di Fiume si era consumata sotto le cannonate, alla vigilia del «Natale di sangue» del 1920. E lui – il Comandante di quel progetto andato in rovina – si sentiva svuotato di energie.

Come se, in quell’angolo di Dalmazia che aveva governato per 16 mesi, avesse speso ogni risorsa anche fisica. Si sentiva «come smemorato e trasognato». Persino gli amici più intimi lo vedevano «invecchiato e stanco» ed erano costretti ad ammettere che il suo spirito battagliero si era ripiegato su stesso. Anche i grandi condottieri necessitano di momenti di pausa per raccogliere le idee.

Lo stesso D’Annunzio confessò: «Venivo a cercare silenzio? Ritrovare alcune delle mie arti? O fare un breve sonno prima di ricominciare la lotta?». Imbacuccato nella sua pelliccia grigia, aveva lasciato Fiume a bordo di un motoscafo con il quale aveva potuto approdare a San Giuliano, sulla laguna.

A Venezia, tempo prima, il pittore Egisto Massone gli aveva affittato una casa dove D’Annunzio non aveva mai abitato e dove – servendosene come una specie di deposito – aveva traslocato tutte le cose che custodiva in un altro suo appartamento, a Parigi. Intollerabile disordine per uno come lui. Il giorno dopo, gli amici ebbero il compito di cercargli una residenza che gli fosse appropriata e a Tom Antongini – il più fidato – affidò l’incarico di cercare sul Garda «perché sento che il mio destino sta là».

In quei giorni di fine gennaio 1921 cominciò la storia di una villa che, a dispetto delle condizioni «assai dimesse», diventava il luogo dove il Vate avrebbe custodito «i ricordi dei naufragi» di una vita. Cento anni di storia del Vittoriale è la pubblicazione che, per Silvana editrice, racconta un secolo di trasformazioni strutturali e di immagini estetiche. Non a caso, il sottotitolo precisa che si è trattato di «un incantevole sogno». Il volume è firmato da Valentina Raimondo (studiosa dell’arte del XX secolo) e impreziosita dall’introduzione di Giordano Bruno Guerri (che della Fondazione del Vittoriale è il presidente).

Quasi all’incrocio di tre strade che si avvicinavano per incontrarsi, la costruzione stava a Cargnacco: origini settecentesche, 19 vani in un’area di 18 metri per 12, una macina per le olive, la legnaia e un rustico sul lato. Era stata sequestrata ai coniugi Henry Thode e Hertha Tegner in obbedienza alla legge che prevedeva la requisizione delle proprietà dei cittadini stranieri di Paesi in guerra con l’Italia. Il contratto d’affitto a D’Annunzio (1° febbraio 1921) venne firmato dal funzionario di governo Giovanni Ubertazzi, il curatore dell’esproprio che fissò un canone di 600 lire mensili.

Qualche mese dopo la decisione di comprarla, investendo 360.000 lire che non aveva. Il Comandante se ne fece prestare 380.000 dal Banco di Roma, cui lasciò in garanzia una cambiale che mai si curò di onorare. Quel foglietto di carta deve essere ancora da qualche parte negli archivi storici dell’istituto che, nel frattempo, con altra dimensione sociale, era diventato Banca di Roma.

All’inizio si trattò di sostituire 200 tegole del tetto, «racconciare spigoli e crepe», disporre due travi per sostenere la terrazza e lucidare i pavimenti in legno della biblioteca. Poi si dette avvio alla trasformazione vera e propria. L’architetto (scelto su consiglio di un legionario di Fiume, Giuseppe Piffer) fu Gian Carlo Maroni che riuscì a interpretare nel dettaglio i desideri di D’Annunzio. Il quale, del resto, fin dall’inizio mise in chiaro che la sua volontà non poteva essere «né discussa né contraddetta».

Ne venne fuori una composizione poetica costruita con mattoni che qualcuno giudica «estrema» ma che riproduce la storia personale di un personaggio capace di segnare il suo tempo come poeta, «operaio della parola», combattente, politico, comandante. Sempre sulla linea d’orizzonte dell’eccesso e quasi sempre sul confine dell’impossibile. A bordo di un aereo in volo sopra Vienna o a cavallo di un siluro per speronare le navi austriache.

Dopo qualche tempo quel complesso che stava assumendo dimensioni monumentali divenne il Vittoriale. E anche questa – se vogliamo – è una storia curiosa. El Victorial era una pubblicazione che raccoglieva una serie di cronache cavalleresche scritte da un autore con un nome sterminato: Pedro Niño de Gutierre Diaz de Gármez. D’Annunzio lo conosceva perché ne possedeva un’edizione in francese e gli risultava gradito quel titolo che si portava dentro i germi bellicosi del trionfo.

Il cuore dell’intero complesso era l’edificio più antico battezzato «prioria», immaginando di un convento il luogo abitato, per l’appunto, dal priore. E per sgombrare qualunque equivoco che quello fosse proprio il riferimento voluto, la scritta in latino: «silentium et clausura». I simboli e i richiami – ora religiosi ora mitologici – compaiono ovunque. La stanza «del mascheraio», per esempio, destinata ad anticamera per i visitatori in delegazioni ufficiali; attendevano fra scaffali con 900 volumi, una ricca collezione di grammofoni e un lampadario in vetro di Murano. Sopra lo specchio del camino i versi: «Al visitatore / Teco porti lo specchio di Narciso? / Questo è piombato a vetro, o mascheraio / aggiusta le tue maschere al tuo viso/ ma pensa che sei vetro contro acciaio».

O la stanza «della zambracca» che in provenzale antico era il guardaroba. La «veranda dell’Apollonio», tra la casa e i giardini, utilizzata per schermare la luce troppo forte e ospitare le ore dedicate alla lettura leggera. La «stanza del lebbroso» – pelli di daino alle pareti e cassettoni dorati – ospitava i simboli del martirio di Cristo inframmezzati da figure eteree di sante ed era destinata alla meditazione del poeta. Invece l’alcova (oggetto di pettegolezzi anche amplificati) non poteva che ispirarsi alla mitologia greca, quando Zeus per sedurre Leda si trasformò in un cigno. Il percorso è un tuffo fra sciccherie così ricercate da sembrare, talvolta, stucchevoli.

Del resto D’Annunzio, scrivendo al direttore della Tribuna Matteo Sciarra, era stato esplicito. «Avrei potuto vivere in una casa modesta, sedere su seggiole di Vienna, mangiare in piatti comuni e bere in tazze da tre soldi». Invece «fatalmente ho voluto stoffe preziose, tappeti di Persia, piatti giapponesi, bronzi, avori, ninnoli: cose inutili e belle che amo con passione rovinosa». Senza tralasciare un dettaglio. Il Comandante beveva acqua Fiuggi che, marca abbastanza popolare, andava nobilitata. «Voglio tre cilindri d’argento con scanalatura sottili come le colonne doriche» per metterci dentro le bottiglie e trasformare un oggetto comune in una preziosità.

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