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​L’inconsistenza di Di Maio sull’Afghanistan

​L’inconsistenza di Di Maio sull’Afghanistan

Sul dossier afghano il nostro ministro degli Esteri (che comunque ha passato il ferragosto al mare) ha manifestato una completa assenza di prospettiva strategica: un problema non di poco conto per l’Italia


La premessa è d’obbligo: su un dossier come quello afghano l’Italia avrebbe avuto un margine di manovra ridotto, indipendentemente dal governo in carica e dai vertici della Farnesina. Non è mai quindi stato verosimile attendersi da Roma, su un tale fronte, una posizione dissonante dalle scelte di Washington. Ciò detto e riconosciuto, bisogna però anche vedere in che modo la nostra politica estera reagisce a svolte epocali come il ritiro dall’Afghanistan e la caduta di Kabul. Questo essenzialmente per capire se il nostro Paese abbia un minimo di visione strategica o si limiti pedissequamente a seguire decisioni prese altrove.

Ecco: è proprio la visione strategica ad essere mancata a Luigi Di Maio in questa drammatica occasione. Per carità: che le sue opzioni fossero limitate davanti alla decisione dell’amministrazione Biden di ritirarsi dall’Afghanistan, è un dato di fatto. E nessuno pretendeva chissà quali eclatanti prese di posizione dal nostro ministro degli Esteri. Il problema risiede semmai nella vacuità delle sue analisi, nella mancanza – lo abbiamo accennato – di una visione strategica sul futuro delle dinamiche internazionali e – conseguentemente – della stessa Italia. Sotto questo aspetto, è apparsa decisamente desolante una recente intervista al Corriere della Sera, in cui il capo della Farnesina ha inanellato una serie di dichiarazioni aleatorie, oltre a considerazioni di circostanza prive di concretezza. Ma entriamo maggiormente nel dettaglio.

“È doloroso vedere quello che sta succedendo, ancor più doloroso è pensare a tutte le vittime che ha causato questa guerra. Ma non dobbiamo dimenticare il contributo che i nostri militari hanno dato in questi 20 anni a sostegno delle comunità afghane”, ha dichiarato. Il che è anche vero, soprattutto alla luce dei nostri soldati caduti e delle iniziative umanitarie che avevamo portato avanti in Afghanistan. Peccato che, in queste parole, manchi un’analisi delle cause. Quanto sta accadendo in Afghanistan non è una fatalità, ma il risultato di un ritiro precipitoso e disorganizzato attuato dall’amministrazione Biden. Un’amministrazione che non solo ha subìto lo smacco di vedere una riconquista talebana tanto rapida, ma che – nonostante l’allerta lanciata a giugno dall’intelligence statunitense sulla forza dei miliziani islamisti – ha comunque deciso di procedere con questo addio rocambolesco (anche probabilmente in forza di dinamiche interne). Ecco: è questo passaggio che decisamente manca nelle parole di Di Maio: un Di Maio che, negli scorsi mesi, ostentava grandissima sintonia con l’attuale segretario di Stato americano, Tony Blinken. L’ alto esponente di un’amministrazione americana – quella di Joe Biden – che, secondo molti, avrebbe dovuto rilanciare i rapporti transatlantici. E che invece, nel suo precipitoso ritiro afghano, ha di fatto gettato alle ortiche anni di impegno europeo (in particolare italiano).

“Non ci sarà un nuovo impegno militare, ma non possiamo pensare di abbandonare dopo 20 anni il popolo afghano”, ha poi proseguito il nostro ministro degli Esteri. Strana affermazione. Da una parte, esclude un nuovo impegno militare e dall’altra dice che il popolo afghano non può essere abbandonato: un evidente ossimoro, perché non è granché chiaro in che modo si possa tutelare il popolo afghano da eventuali (e probabili) persecuzioni da parte del nuovo governo talebano. “Adesso”, ha chiosato Di Maio, “dovremo lavorare con tutte le forze affinché i talebani diano le dovute garanzie sul rispetto dei diritti acquisiti. La comunità internazionale dovrà riflettere sul futuro dell’Afghanistan anche in un’ottica regionale, facendo leva su un maggiore coinvolgimento dei Paesi della regione che possono influire per riportare stabilità e pace”. Spiace sottolinearlo, ma si tratta di ulteriore vacuità. Come spera Di Maio di ottenere garanzie da parte dei talebani sul rispetto dei diritti acquisiti? Quali Paesi vorrebbe esattamente coinvolgere? E per fare specificamente che cosa? Riemerge – purtroppo – quel vago (e inutile) invito al dialogo che tanto segnò la sua azione di ministro in riferimento al dossier libico ai tempi del governo Conte bis. “Adesso l’Europa dovrà recitare un ruolo di primo piano e porsi come interlocutore credibile sullo scacchiere geopolitico. Serve una politica estera e di difesa comune”, ha aggiunto il capo della Farnesina. Anche qui il principio è giusto in teoria, ma è arcinoto che l’Unione europea non abbia mai presentato nei fatti una politica estera comune. Non si capisce quindi in virtù di che cosa si speri concretamente che possa iniziare ad averla ora.

Insomma, qui c’è un problema ben più grave delle (pur non edificanti) foto vacanziere del ministro, scattate mentre si consumava la tragedia afghana. Il nodo è strutturale e chiama in causa – lo ribadiamo – la visione strategica del capo della Farnesina. Dirsi contemporaneamente a favore dei diritti umani e contrari alla forza militare è semplicemente un controsenso logico (oltreché politico), buono soltanto per esigenze di comunicazione a breve termine. Invocare poi un ruolo europeo quando si sa perfettamente che Bruxelles non ha alcuna politica estera unitaria, è una pia illusione o – peggio – un tentativo di gettare fumo negli occhi. E’ questo il problema che emerge dalle parole di Di Maio. Un equilibrismo nebuloso che evita di imboccare strade chiare: in un senso o nell’altro. Una maggiore e coraggiosa chiarezza sarebbe stata doverosa non solo per la memoria dei nostri caduti, ma anche come bussola strategica per l’Italia. Perché queste ambiguità in politica estera prima o poi – purtroppo – si pagano.

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