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Irpinia 1980: storia del più costoso terremoto d’Italia

Irpinia 1980: storia del più costoso terremoto d’Italia

A quarant’anni dalla scossa che provocò quasi 3 mila vittime e rase al suolo 50 mila palazzi, danneggiandone altri 30 mila, ancora non è chiaro dove si è inabissato il fiume di miliardi che lo Stato ha previsto per la ricostruzione. E che continuiamo ancora ad alimentare tutte le volte che facciamo benzina al distributore.

Prima, il fragore della morte ma, subito dopo, il furore della speculazione. Quella dell’Irpinia può essere considerata la madre delle disgrazie che si sono abbattute sull’Italia e che, insieme al bilancio di un dolore inestimabile, hanno dovuto fare i conti con il saccheggio delle risorse pubbliche messe a disposizione per riparare i danni. Da lì, fino al disastro di Amatrice del 2016 compreso, sembra che il copione si riproduca in fotocopia, con le stesse modalità operative e gli identici risultati.

Le sciagure arrivano senza preavviso. Il 23 novembre 1980 cadeva di domenica. La gente era rincasata e le famiglie si stavano preparando per la cena del giorno di festa. I sismografi – con ineccepibile puntualità – registrarono che il terremoto si fece sentire alle 19,34 e 53 secondi. La scossa, muovendo da 10 chilometri di profondità, agitò suolo e sottosuolo per 92 secondi che parvero interminabili. Le ondulazioni toccarono il «grado 10» della scala Mercalli e investirono un triangolo compreso fra le province di Avellino, Salerno e Potenza.

Irpinia 1980: storia del più costoso terremoto d’Italia
Una ruspa dei Vigili del Fuoco al lavoro tra le macerie di Sant’Angelo dei Lombardi (Michael Ward/Getty Images)
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I soccorsi a Sant’Angelo dei Lombardi, uno dei centri maggiormente colpiti dal sisma del 1980 (Ansa)
Irpinia 1980: storia del più costoso terremoto d’Italia
Il drammatico recupero di una vittima del terremoto in Irpinia che causò quasi 3.000 morti (Ansa)
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Quel che resta della strada principale di uno dei paesi dell’Irpinia rasi al suolo dal sisma (Evening Standard/Getty Images)
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Una famiglia accompagna alla sepoltura un parente la cui bara è fissata al tetto dell’auto per la mancanza di carri funebri dovuta alle molte vittime del sisma (Henri Bureau/Corbis/ Getty Images)
Irpinia 1980: storia del più costoso terremoto d’Italia
Funerali collettivi delle vittime del terremoto sotto la pioggia battente che imperversò nei giorni successivi alla catastrofe (Toronto Star/Getty Images)
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Napoli, notte del 23 novembre 1980: una famiglia in auto dopo aver lasciato la propria abitazione a causa del terremoto che causò ingenti danni anche nella città partenopea (François Lochon/Gamma/Getty Images)
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Una donna irpina con i suoi sette figli in un ricovero di fortuna dopo il terremoto del 1980 (Calle Hesslefors/ullstein bild/ Getty Images)
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Veduta aerea della devastazione del terremoto del 23 novembre 1980 (V.Rastelli/Corbis/Getty Images)
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Sant’Angelo dei Lombardi: si scava per cercare di recuperare oggetti sepolti dalle macerie delle abitazioni crollate (V.Rastelli/Corbis/Getty Images)

In quei due minuti (scarsi) si mescolarono il rombo cupo della terra che si apriva con il frastuono torbido dei palazzi che si sbriciolavano. Poi soltanto i gemiti strozzati di chi implorava aiuto e gli echi di disperazione di chi l’aveva scampata ma si sentiva piegato sotto quell’enorme rovina.

Al tornare della normalità, 17 mila chilometri quadrati erano stati sconvolti e alcuni paesi (Conza, Laviano, Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Senerchia, Calabritto, Teora) fisicamente cancellati. A Balvano, il soffitto della chiesa si staccò come fosse un coperchio e seppellì 77 persone, fra le quali 66 adolescenti, che stavano ascoltando la messa. Non si salvò nessuno dei 15 chierichetti e del coro di voci bianche che cantavano le lodi al Padreterno.

Le macerie sotterrarono altre 2.914 persone e ne ferirono 8.848. Il resoconto tracciò le dimensioni di un’autentica catastrofe. Cinquantamila palazzi vennero rasi al suolo e altri 30 mila subirono danni tali da renderli comunque inagibili. Rimasero per strada almeno 280 mila persone che – il tempo della lancetta di compiere un giro d’orologio – avevano perso tutto quello che possedevano.

L’entità drammatica del terremoto non venne immediatamente percepita. I primi resoconti riferirono, genericamente, di una «scossa tellurica in Campania» senza altri dettagli, ma lasciando intendere che non poteva trattarsi di un evento particolarmente grave. In effetti, il terremoto aveva trascinato tutto quello che aveva incontrato compresi gli impianti di comunicazione. Le vittime rimasero senza voce. Gli allarmi arrivarono con lentezza e scontando le approssimazioni provocate dal passaparola. Il Mattino di Napoli uscì dedicando alla catastrofe l’intera prima pagina, intitolando. «Un minuto di terrore. I morti sono centinaia».

L’annuncio – inevitabilmente riassuntivo – non consentì di comprendere l’entità delle conseguenze. Però i giornalisti furono i primi ad arrivare sul luogo del disastro e cominciarono col raccontare che non c’erano né mezzi di soccorso né personale capace di aiutare quei poveri diavoli. Solo a distanza di tre giorni arrivarono i primi volontari, armati di badili e di encomiabili intenzioni ma senza un’organizzazione e con nessuna esperienza su quei terreni e in quelle circostanze. La Protezione civile nacque proprio dalla constatazione che quelle tragedie non potevano essere affrontate con l’entusiasmo dell’altruismo ma occorrevano squadre specializzate che si preparavano appositamente per far fronte a quel tipo di emergenze.

La solidarietà internazionale si manifestò con ampiezza. Gli Stati Uniti misero a disposizione 70 milioni di dollari parte per finanziare una spedizione di 136 uomini e sei elicotteri e il resto da destinare alla ricostruzione. La Germania Ovest (non ancora unificata) partecipò con 36 milioni di dollari. Dieci furono offerti dall’Arabia Saudita, 3 dall’Iraq e uno dall’Algeria. Lì – esaurito il capitolo del dolore – cominciò quello delle ruberie. Perché solo una minima parte di quei fondi venne destinata per lo scopo per cui era stata stanziata. Di fatto, quelle popolazioni martoriate dovettero arrangiarsi. A Laviano, per esempio, un centro dove fra i 1.500 abitanti si registrarono 303 morti, solo nel febbraio 1981 arrivarono una ventina di case di legno. La gente trascorse l’inverno come le fu possibile. In quella zona, solo nell’aprile 1981, a 153 giorni dal terremoto, il gruppo industriale Rubner inviò un altro centinaio di chalet prefabbricati.

Si arriva anche al surreale di oggi con una sessantina di famiglie sfollate dal sisma che sono tuttora accampate in tre piani dell’ex manicomio di Napoli.La cosiddetta ricostruzione rappresenta ancora uno dei peggiori esempi di speculazione sulle disgrazie altrui. Le inchieste successive della magistratura consentirono di utilizzare espressioni come «Irpiniagate», «Terremotopoli». E, tuttavia, gli inquirenti seguitarono ad aggiungere testimonianze e resoconti senza venire a capo della «cupola» che aveva gestito il malaffare e intascato alcune centinaia di miliardi di lire di allora.

Di fatto, gli inquirenti s’infilarono in un vicolo cieco. Nell’inchiesta «Mani sul terremoto», vennero coinvolte 87 persone alcune delle quali con un curriculum politico di qualche rilevanza (Ciriaco De Mita, Vincenzo Scotti, Antonio Gava, Giulio Di Donato, Giuseppe Zamberletti) che, alla fine, finirono prosciolte. La vicenda resta un rosario di malaffare.

Intanto, cominciarono con il dilatare a dismisura la circonferenza del cratere tanto che i 339 paesi «sinistrati» raddoppiarono in un anno. Nel maggio 1981, un decreto dell’allora presidente del Consiglio Arnaldo Forlani ne elencò 643. Ma l’anno dopo ancora raggiunsero la cifra di 687. Gli interessi «politici» ebbero la meglio. Poiché le zone terremotate potevano godere di contributi e agevolazioni, fu un’autentica corsa per allargare l’area dei benefici su cui speculare. Inizialmente, destinati alla ricostruzione del tessuto industriale, vennero messi a disposizione 7.762 miliardi di lire (sarebbero 8 miliardi di euro di oggi). Ma a ogni legge di Bilancio la cifra venne corretta, aumentata e proporzionalmente accresciuta.

Secondo la relazione della Corte dei conti, i contributi finali furono 12 volte superiori al previsto nella provincia di Avellino e 17 volte in quella di Salerno. Il costo del terremoto arrivò a toccare i 60 mila miliardi di lire di allora, che fanno 32 miliardi di euro attuali. La Commissione d’inchiesta (presieduta da Oscar Luigi Scalfaro, poi capo dello Stato) istituita per comprendere come erano stati usati quei fondi, fu costretta a concludere che il contesto in cui si svolse la cosiddetta ricostruzione era un autentico «porto delle nebbie». Quei miliardi fruttarono un discreto guadagno per camorristi, gente di malaffare e profittatori di varie estrazioni politiche e sociali.

Certo, i risultati finali furono deprimenti. A proposito dei cospicui contributi per rivitalizzare gli impianti industriali, nel 48 per cento dei casi le concessioni vennero revocate. Dell’altra metà di aziende che beneficiarono di aiuti statali, 76 definirono il loro fallimento. Negli uni e negli altri casi – manco a dirlo – non fu possibile recuperare il contributo loro destinato che era andato sprecato. Risultati pratici? Irrilevanti. A Torre Annunziata i due quartieri massacrati dal terremoto – Penniniello e Quadrilatero – come erano, sono. Li descrivono come una roccaforte della camorra dove i ruderi offrono ricovero al quartier generale dello spaccio della droga.

Ma non finisce la spesa e non terminano i contributi. Ancora oggi, il litro di benzina è gravato da un’accisa che, trent’anni fa, valeva 75 lire, diventate ora 4 centesimi. Ultimi spiccioli per una ricostruzione che non c’è mai stata.

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