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Il nostro inno alla speranza

Il nostro inno alla speranza

L’editoriale

«Tu qua’ Natale…Pasca e Ppifania!!!
T”o vuoi mettere ‘ncapo…’int’a cervella
Che stajie malato ancora è fantasia?…
‘A morte ‘o ssaje ched”e?… è una livella».


La poesia di Totò è del 1964. Antonio De Curtis l’aveva scritta per la ricorrenza del 2 novembre, immaginando il dialogo tra un marchese e un netturbino, sepolti l’uno accanto all’altro. Al primo che si lamenta perché la salma dello spazzino non sia stata seppellita nella spazzatura, risponde l’altro, che pur «fetente e cu ‘nascopa mmano», ricorda al nobile che giunti alla fine dei nostri giorni siamo tutti uguali, perché la morte è una livella.

Vi chiedete perché vada a ripescare questa vecchia poesia in napoletano e perché parli di morte in un momento così nero della nostra storia? Mi spiego subito. In questi giorni di arresti domiciliari, costretto a leggere più di quanto già non faccia, riflettevo sul fatto che il coronavirus non fa distinzione fra ricchi e poveri, tra potenti e derelitti, come non fa differenze fra vecchi e giovani.

Rispondendo a una lettrice sul tema se sia giusto curare le persone oltre una certa età e non sia doveroso privilegiare i ragazzi, in uno dei numeri scorsi di Panorama spiegavo che la possibilità di scegliere chi curare apre la porta all’eugenetica. Ma a chiarire ancora meglio di me perché non si possa decidere chi debba vivere e chi morire ci ha pensato la malattia che, come si è visto, al contrario di quanto dicevano esperti e politici in cerca di rassicurazioni, colpisce senza richiedere il certificato anagrafico.

All’ospedale sono finiti intubati anche i ventenni, e trentenni apparentemente in salute non ce l’hanno fatta. Il contagio non ha risparmiato i potenti. Capi di Stato, ministri, principi e monsignori sono uguali davanti al coronavirus, perché l’unica differenza la fanno il distanziamento sociale, le mani pulite, le precauzioni. Ho letto che a Mosca gli oligarchi hanno provato a fare incetta di respiratori artificiali, forse intenzionati a farsi in casa un piccolo reparto di terapia intensiva. Ma alla fine, se ci si ammala, l’ospedale pubblico, quello che ha visto sfilare il maggior numero di pazienti, poveri e ricchi, potenti e signori nessuno, è la migliore garanzia di trovare mani esperte che ti sappiano curare.

Sì, questa pandemia arrivata all’improvviso dalla Cina ci ha fatto riscoprire alcune cose. Non solo che la morte e la malattia sono una livella, ma anche che la sanità pubblica ha dei vantaggi. Infatti, nei Paesi in cui è stata smantellata e privatizzata oggi si fa fatica a reggere il peso di migliaia di persone in cerca di cure. I posti letto sono calcolati da un algoritmo e pure i medicinali. Come in una catena di montaggio, dove le scorte di magazzino devono essere ridotte al minimo e tutto, anche gli impianti, deve essere efficiente, quando un ingranaggio manca, si ferma ogni cosa.

Peccato che un ospedale non sia una fabbrica, ma un posto dove si salvano persone e se manca qualcosa non si blocca una macchina, ma una vita. Sì, il coronavirus ci ha riportato all’essenza delle cose. Puoi avere l’ultimo modello del cellulare, il gadget elettronico più figo di tutti, ma se non hai una mascherina di pezza, dei guanti di lattice e un disinfettante per le mani rischi di ammalarti. La quarantena ci ha anche insegnato che la scienza e la tecnologia possono molto, ma non possono tutto. Il Covid-19 è un virus minuscolo eppure non esiste un vaccino in grado di debellarlo. Forse prima o poi un laboratorio riuscirà a trovare «l’antidoto», ma ci vorranno mesi, forse un anno e nel frattempo dovremo cambiare le nostre abitudini, frequentare meno, stare lontano dagli altri, rimanere a casa.

Sì, la prospettiva non è incoraggiante, soprattutto per coloro che vivono in quattro in un bilocale. Ma ce la faremo. Sì, nonostante gli scenari peggiori ne verremo fuori e ricominceremo a ricostruire questo Paese, restituendo fiducia a chi ce l’ha fatta e a chi è appena venuto al mondo. La copertina di questo Panorama è dedicata a un neonato, perché finita l’emergenza sarà un po’ come rinascere. L’idea me l’ha data la bambina nata in piena quarantena a Moncenisio, nell’alta Val di Susa, in uno dei paesi più piccoli d’Italia, appena 39 abitanti. Sì, anche se c’è il coronavirus si può andare avanti e si può vivere. Certo, sarà un’Italia diversa, che rimpiangerà le sue vittime, ma sarà anche un’Italia che si rimbocca le maniche per ricostruire la nostra serenità e il nostro benessere. Imparando dagli errori e dai nostri ritardi. Quello di Panorama è dunque un inno di speranza. Ce la faremo.

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