L’Occidente non può accettare che Putin invada uno Stato indipendente, bombardandone la capitale e massacrando militari e civili.
A nessuno piace l’idea di un conflitto sull’uscio di casa. Anche perché è vero che la guerra si combatte a centinaia di chilometri dall’Italia, ma gli effetti di quel che succede in Ucraina sono molto più vicini di quanto ci si immagini e lo abbiamo misurato con l’incremento dei prezzi dell’energia e la caduta delle Borse, spaventate dall’eco delle esplosioni. Dal 1945 a oggi, l’Europa è vissuta in pace e sebbene le armi si siano fatte sentire nell’ex Jugoslavia, in Bosnia e in Kosovo, cioè proprio ai confini del nostro Paese, in fondo abbiamo sempre ritenuto quei mattatoi come fatti che non ci riguardassero da vicino. Mentre i serbi stringevano d’assedio Sarajevo e le truppe del generale Ratko Mladić trucidavano gli abitanti di Srebrenica, noi guardavamo dall’altra parte. Anzi, tutta l’Europa rivolgeva lo sguardo altrove, quasi che quello in corso fosse un regolamento di conti interno, in cui non mettere bocca. In Kosovo, dove si registravano scontri fra due fazioni, Uck contro truppe regolari, con massacri dall’una e dall’altra parte, la Nato scelse di intervenire, ma solo perché si trattava di vincere facile, senza rischiare perdite e senza impegnarsi troppo. Sganciando un po’ di bombe e lanciando qualche missile, le forze armate occidentali piegarono il regime di Slobodan Milošević in pochi mesi. I terribili Tomahawk furono sparati contro Belgrado da aerei, navi e sottomarini senza perdere un solo uomo. In dieci settimane i bombardieri della Nato compirono 38 mila missioni, costringendo i serbi alla resa e a rinunciare a un territorio da loro considerato un lembo di madre patria.
In quell’occasione, l’Europa mostrò i muscoli. Fatta eccezione per la Grecia, che confina con la Serbia, tutti i Paesi della Nato diedero il loro contributo. Ma, come dicevo, si rischiava solo di vincere, anche perché gli storici alleati di Milošević, ossia i russi, non avevano alcuna intenzione di essere coinvolti in un conflitto dagli esiti e dai vantaggi incerti. La guerra in corso in Ucraina è ovviamente un’altra faccenda, che nulla ha a che spartire con quelle cui abbiamo assistito negli anni Novanta. E la forza militare di Mosca, come abbiamo visto, non è paragonabile neppure lontanamente a quella di Belgrado. Dunque, se i conflitti nell’ex Jugoslavia li abbiamo ignorati oppure ce ne siamo occupati, ma solo quando abbiamo capito che non c’era nulla da perdere, in questo caso la situazione è diversa. E non soltanto perché l’orso russo è molto più minaccioso di quello serbo e la guerra potrebbe allargarsi, ma perché gli effetti sull’economia del nostro Paese, dell’Europa e perfino del mondo, sono molto più pericolosi.
Certo, l’Occidente non può accettare che Putin invada uno Stato indipendente, bombardandone la capitale e massacrando militari e civili. Questa volta no, non ci si può voltare da un’altra parte, facendo finta che la faccenda non ci riguardi. E infatti sia gli Stati Uniti che l’Europa hanno alzato i toni, minacciato sanzioni e annunciato dure reazioni. Tuttavia, bisogna raccontarci la verità: nessuno ha intenzione di morire per Kiev. Proprio come trent’anni fa nessuno aveva intenzione di sacrificare i propri soldati per Sarajevo, ora nessuno ha voglia di combattere per l’Ucraina. La guerra la facciamo a parole, usando l’Iban invece delle bombe. Al posto dei carri armati, degli aerei, dei missili, si schiera il codice Swift delle transazioni internazionali, bloccando i conti correnti e cercando di colpire Vladimir Putin e i suoi oligarchi nel portafogli. Ma il capo del Cremlino replica punendo gli europei nei loro interessi, ossia al cuore del sistema, con le forniture di gas e di materie prime. Cioè, mentre in Ucraina si combatte armi in pugno, la democratica Europa e l’ancor più democratica America combattono un conflitto economico. A Kiev si muore e si contano le perdite di vite umane, a Londra, Mosca, Washington, Parigi, Berlino e Roma si contano le perdite in Borsa e quelle del Pil.
Naturalmente possiamo assolverci, pensare che non ci siano altre soluzioni per fermare la follia di Putin. Tuttavia, se vogliamo essere onesti dobbiamo riconoscere che un po’ questa guerra l’abbiamo armata anche noi. O meglio, l’hanno armata Stati Uniti ed Europa, sostenendo le aspettative e i desideri d’indipendenza dell’Ucraina, e incoraggiando le sue truppe. La colpa sta proprio qui. Dalla crisi del 2013, invece di raffreddare gli animi li abbiamo surriscaldati. In Donbass era in corso una di quelle guerre che chiamano «a bassa intensità», che però ha fatto 13 mila morti, ma noi non ci siamo preoccupati. Anzi, abbiamo incoraggiato Kiev sulla strada dell’Alleanza atlantica e della Ue, cercando di allontanarla sempre più da Mosca. Usa e Ue hanno provato a usare l’Ucraina per isolare la Russia, accerchiandola con Paesi dell’ex cortina di ferro entrati ormai nell’orbita occidentale.
Come dicevo, non fa piacere a nessuno una guerra alle porte di casa. Ma non può certo piacere neppure a Putin l’idea di un arsenale piazzato dal nemico storico nel cortile del suo palazzo. Kiev nella Nato per Mosca equivale a questo: essere assediata dal suo storico avversario. Una partita a scacchi in cui l’autocrate del Cremlino ha reagito a modo suo, da ex agente del Kgb, cioè con le armi, nel tentativo, certo disperato, di sottrarsi allo scacco matto. Non intendo con questo difendere le ragioni di Putin: l’invasione dell’Ucraina è inaccettabile. Però l’Occidente non può sentirsi con la coscienza a posto, perché un po’ dei morti che vediamo per le strade delle città e dei paesi ucraini gravano anche su di noi. Abbiamo illuso un Paese, dicendoci pronti ad accoglierlo. Lo abbiamo spinto a rompere le catene che lo legavano alla Russia. E adesso, di fronte alle conseguenze, andiamo in battaglia impugnando l’Iban, convinti che basti quello per vincere la guerra. Purtroppo non tutti i conflitti si combattono, e si vincono, con il libretto degli assegni. Soprattutto non basta il conto corrente per evitare lacrime e sangue.
