Una ragazza di Napoli vuol risalire a chi ha postato sue foto non autorizzate. Ma il social network fa sapere che quel reato non è così «grave». E il magistrato deve archiviare il caso. Intanto, negli Stati Uniti…
Non è forse lontano il tempo del «giudice social». Dell’algoritmo togato che decide che cosa è giusto o sbagliato, che assolve o commina condanne. Un anticipo di quel che potrebbe essere la giurisdizione social arriva dalla Procura di Napoli Nord (Caserta) dove una querela per diffamazione è stata archiviata non da un magistrato ma da Facebook che ha deciso – insindacabilmente – di non offrire collaborazione alla magistratura italiana perché quel tipo di reato, agli occhi della piattaforma web, non sarebbe tanto grave. E così il pm Paolo Napolitano ha dovuto arrendersi. Senza i «file log» – che indicano a chi appartiene un profilo – non è possibile risalire all’ipotetico autore della condotta illecita.
L’indagine era partita dall’esposto di una ragazza che si era ritrovata su Facebook una pagina a lei intestata con foto in cui era in abiti molto «ridotti». Sospettando che si trattasse della vendetta dell’ex fidanzato, aveva denunciato tutto alla polizia postale. Per scoprire a chi fosse riconducibile la pagina incriminata, il pubblico ministero aveva quindi chiesto aiuto all’azienda di Mark Zuckerberg. Che però ha risposto picche. «La società riferiva» si legge nella richiesta di archiviazione «che evade i relativi decreti di acquisizione dei file log, mediante Mutual legal assistance treat, esclusivamente nei casi reati più gravi». Dunque, per l’algoritmo di Facebook la diffusione di immagini compromettenti o denigratorie o semplicemente intime, che non possono essere alla mercé del pubblico, è una sciocchezza. Una bagattella.
Il che significa anche che l’intermediazione tra le libertà dei cittadini non tocca più allo Stato – come 300 anni di filosofia politica hanno finora imposto – ma a una stringa di programmazione. Di fatto, una multinazionale ha dimostrato di avere più potere di quello di una nazione sovrana che in questo caso non ha potuto individuare e punire il colpevole di un reato previsto dal codice penale.
E non si tratta di una criticità solo italiana. Tanto che negli Stati Uniti – patria delle big tech – si stanno organizzando alla resistenza. In Texas la Corte d’appello del quinto distretto ha riabilitato la legge Hb20, precedentemente bocciata, che consente agli iscritti ai social di denunciare le società se ritengono di essere stati censurati o di aver subìto la sospensione del profilo senza un valido motivo. Lo stesso si appresta a fare la Florida che ha inoltrato alla Corte suprema degli States la richiesta di una legge federale per impedire ai social il diritto di veto sulle discussioni politiche sulle piattaforme da parte dei candidati o dei loro supporter.
In America, l’ex presidente Donald Trump è ancora al «confino digitale»: Twitter lo ha espulso a vita il 9 gennaio 2021 dopo i disordini di Capitol Hill per un presunto «incitamento alla violenza» (che però le indagini dell’Fbi finora hanno escluso, e quindi non si capisce di cosa debba rispondere). Facebook, invece, dovrebbe riammetterlo – salvo sorprese – il prossimo anno, a scadenza dei 24 mesi di condanna al silenzio. Ma The Donald dovrà dare dimostrazione di buona condotta. Insomma, come si fa con i galeotti da rimettere in libertà vigilata.
L’algoritmo intanto sbaglia molto, troppo. L’intelligenza artificiale di Menlo Park è incredibilmente stupida. Una città francese di nome «Bitche» (5 mila anime nel dipartimento della Mosella, al confine con la Germania) è stata cancellata dalle mappe geografiche di Facebook perché forse il suono (pronunciato con la «e» muta) assomiglia a un insulto sessista in inglese. La religione del politicamente corretto ha poi imposto la censura di quattro opere di Courbet, Giorgione e Canova perché ritenute volgari e pornografiche, ritraendo nudi di donne (come appunto il celeberrimo quadro di Gustave Courbet L’origine del mondo).
Finanche la dichiarazione di indipendenza americana è stata oscurata sul social per il riferimento agli «spietati selvaggi indiani». Vogliamo parlare poi del controllo esercitato sull’informazione durante la fase più acuta della pandemia? Post, commenti, link e semplici condivisioni di articoli non allineati sono stati cancellati con un colpo di spugna; e i loro autori bannati per settimane. E che Facebook in particolare ragioni ormai da super tribunale lo dimostra la costituzione di un «Oversight board», sorta di Cassazione digitale composta da giudici selezionati e finanziati dallo stesso social per «supportare il diritto alla libertà di espressione delle persone» sulla piattaforma. Una mossa che non significa riduzione o allentamento dei rigidi paletti ma solo lo studio di pochi casi ad alto valore simbolico, e di elevata complessità, per creare una «giurisprudenza» interna all’azienda alla quale rifarsi in caso di contestazioni. Insomma, quando accendiamo il pc e ci colleghiamo ai nostri profili non possiamo fare altro che rimetterci alla clemenza della corte.
