Calabrese, dagli anni Ottanta è un protagonista della scena creativa. Con un talento da mago che, continuamente, sperimenta tecniche e dà forma nuova alla materia.
Come corpi viventi, le sedie di Giuseppe Gallo camminano. Il loro equilibrio è instabile così da produrre l’effetto della «nazzicata», il passo dei fedeli nella processione del venerdì santo a Taranto. Come in un ballo o nel ritmo di una cerimonia le sue sedie si muovono. È un problema di passo quello che importa a Gallo, instabile e inquieto nella invenzione, come raramente accade a un artista contemporaneo. La meraviglia dell’arte antica è nella varietà, la normalità commerciale dell’arte moderna è nella ripetitività necessaria per essere riconoscibili e riconosciuti. Non è il caso di Gallo che, negli anni della mia giovinezza, riconoscevo all’ olfatto, per l’odore di cera delle sue superfici dipinte. E non era una mia reazione esclusiva. Arturo Carlo Quintavalle, che lo vide fra i primi, gli fece dire: «Amo la cera, la sporchi, la lavi, torna pura». Tra i giovani di quegli anni Ottanta, la scuola romana di Gianfranco Notargiacomo, Nunzio, Piero Pizzi Cannella, Gallo si distingueva per la sua natura d’ape, a fianco di orgogliosi e consapevoli giovani maestri, Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Marco Tirelli, tutti rigorosamente inodori, attori della Nuova Scuola Romana o Scuola di San Lorenzo. Lì Gallo volle il suo laboratorio, nel nome del padre, artigiano restauratore calabrese, nell’ex stabilimento industriale Pastificio Cerere. Vai a cercarlo e trovi un artista mobile, pittore e scultore, ma forse stregone, che impasta e disegna, muove la materia, costruisce la forma.
Abbiamo scritto, presentandolo di recente al Mart di Rovereto, che Gallo, «in opposizione alla smaterializzazione dell’arte degli anni Settanta, riscopre il valore estetico e simbolico degli oggetti e dei materiali. Nelle sue opere intreccia linguaggi provenienti da mondi diversi attingendo alla filosofia, alla matematica, alla cosmologia e alla letteratura. I suoi lavori appaiono sospesi tra diversi tempi storici e donano consistenza a pensieri sfuggenti e domande insolute». Forse lo ha suggerito lui, ma è abbastanza vero. C’è in Gallo lo spirito dell’alchimista che trasforma la materia in altro. La trasmutazione dei metalli di base in oro (per esempio con la pietra filosofale o grande elisir o quintessenza o pietra dei filosofi o tintura rossa) esprime il tentativo di arrivare alla perfezione e superare i limiti dell’esistenza.
Gli alchimisti credevano che l’intero universo tendesse a uno stato di perfezione, e l’oro, per la sua intrinseca natura di incorruttibilità, era considerato la sostanza che più si avvicinava alla perfezione. Era anche logico pensare che riuscendo a svelare il segreto dell’immutabilità dell’oro si sarebbe ottenuta la chiave per vincere le malattie ed il decadimento organico; da ciò l’intrecciarsi di tematiche chimiche, spirituali ed astrologiche che furono caratteristiche dell’alchimia medievale. Gallo crea paradigmi, inventa geroglifici, disegna astrolabi.

Costante è solo il ritmo della sua mobilità, la necessità della ricerca, di cui non trovi la formula per decifrare il mistero. La mente di Gallo è impaziente, instabile, asimmetrica, irregolare: ne escono forme impreviste, che possono organizzarsi in serie, per poi convertirsi in altre, secondo lo schema del caleidoscopio. Sentiamo che c’è un ordine in quelle variazioni, ma Gallo non ci consente di condividerlo e di riconoscerlo. Deve spostarsi, evitare rigorosamente di riprodurre la realtà, cercarne l’essenza, che è nella mente, non nelle cose. I colori non servono a dipingere quello che si vede, i colori si fanno cose, assumono la propria forma, si intersecano in un arabesco che corrisponde al movimento del pensiero di Gallo. Non si giustificherebbe altrimenti la pittura astratta, che per lui non è una scelta ma un destino, una natura.
Si era avvicinato a questo livello di comprensione del mondo dialogando con l’arte classica, ma senza arrivare ai greci e a Sumeri, semplicemente sentendo l’attualità dei maestri moderni: «Per me il dialogo col tempo, passato, presente e futuro, è fondamentale, l’arte contemporanea non sempre lo possiede. Prendi i monocromi di Mark Rothko, quelle sono opere valide ancora oggi, lo sarebbero state anche prima di lui e lo saranno nel futuro. Io l’uomo lo vedo contemporaneamente sia nel passato che nel futuro. La mia prima mostra si chiamava Giovanni Bellini, ti racconta molto su questo tipo di impostazione del lavoro; ho amato molto la scuola ferrarese, ma anche Antonello da Messina: le sue opere più piccole sono in grado di reggerti una parete intera, perché c’è lo “sguardo”, non del momento ma lo sguardo verso gli dèi, verso l’eternità. È quello che ha provato a fare Gino De Dominicis, ma non è stato capito fino in fondo».
Gallo è un artista saggio, colto, avvertito, ma ha un istinto incontenibile, una tradizione che gli vive dentro, forte, essenziale, dolente: è calabrese. Irriducibile, testardo, contadino. Ma artista, che vuol dire estroso, folle, ribelle: «In realtà diventare pazzo è più una aspirazione. Mi piacque molto la filosofia di Tommaso Campanella, che evitò di fare la fine di Giordano Bruno fingendosi pazzo; poi lessi a lungo il libro di Marco Cavallo sui manicomi. Nelle culture africane i pazzi erano i diversi in senso positivo, venivano rispettati. I giullari anche, erano gli unici che potevano dire qualsiasi cosa al re evitando la forca. Mi piacerebbe essere uno di quei pazzi sani che non vedono i bisogni della vita, le cose più volgari, che riescono a poetare senza sentire altre necessità. Forse non ci sono ancora riuscito, forse sono ancora lontano. Il pazzo si affoga nel suo lavoro, e io nel mio mi ci sono affogato in diversi momenti, ma poi come forma di autodifesa ho sempre recuperato il distacco. Magari facevo un quadro, andavo a dormire pensando di essere bravissimo e, quando mi risvegliavo, lo cancellavo». Esigenza, severità, carattere sono le virtù che rendono originale la ricerca di Gallo. E così lontana da cifre e formule dei pittori cui è stato vicino, sigillati in modellini ripetitivi e scolastici.
Nella pittura di Gallo c’è vita. C’è un’anima che agita le forme. Ed esse vivono.
