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Il parolaio rosa

Il parolaio rosa

L’editoriale del direttore

Così Giampaolo Pansa, scomparso un anno fa, avrebbe sarcasticamente definito Giuseppe Conte.


È passato un anno dalla morte di Giampaolo Pansa, 12 mesi trascorsi senza le sarcastiche definizioni con cui, da grande cronista parlamentare, l’autore del Bestiario marchiava e ridicolizzava i protagonisti della politica. Ripensando al Coniglio mannaro (Arnaldo Forlani), al Parolaio rosso (Fausto Bertinotti), alle Truppe mastellate (fu la definizione con cui liquidò il nuovo partito dell’allora ex ministro di Berlusconi e oggi sindaco di Benevento), nei giorni scorsi ho cercato di immaginare come Giampaolo avrebbe chiamato Giuseppe Conte.

Forse lo avrebbe definito un Parolaio bianco, oppure avrebbe preferirlo battezzarlo come il Parolaio giallo, per via della provenienza grillina e per l’abilità di sfuggire alle domande, svicolando grazie a formule fumose? A prescindere dal colore, di certo il presidente del Consiglio nel Bestiario sarebbe stato etichettato come parolaio, tante sono le frasi con cui ogni giorno sotterra ogni richiesta, evitando di decidere. Paolo Armaroli, costituzionalista ed ex parlamentare, in un libro lo ha descritto così: «Parla, parla, parla… e si direbbe che lo fa per diluire il pensiero, ridurlo a coriandoli e disperderlo. Il motto che gli si addice è loquor ergo sum». Parlo, dunque sono. Se per Renato Cartesio pensare era qualche cosa che dimostrava l’esistenza, per Conte parlare è la prova del suo successo, del suo potere, della sua capacità di resistere a qualsiasi sollecitazione.

Anche Silvio Berlusconi è un leader che non lesina le parole. Tuttavia, mentre il Cavaliere cerca di convincere e conquistare il consenso dei propri interlocutori, Conte parla solo per anestetizzarli e disarmarli. La sua è la furbizia del temporeggiatore: l’abilità di non rispondere mai usando l’avvocatorum, ossia un linguaggio metagiuridico, pomposamente ridondante e tuttavia non vincolante. Quando il 6 giugno del 2018 si presentò a Palazzo Madama per chiedere la fiducia per il suo primo governo, si capì dai preamboli che la cosa sarebbe andata per le lunghe. Conte esordì con un inchino verbale che strideva con le parole pronunciate in quella stessa aula anni prima da Matteo Renzi.

Mentre il Rottamatore si rivolse ai senatori con una mano in tasca e promettendo che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe chiesto la loro fiducia perché li avrebbe presto aboliti, la «Pochette con le unghie» (copyright Roberto D’Agostino) lisciò il pelo ai presenti: «Entrando per la prima volta in quest’aula e nel parlarvi oggi, avverto pesante la responsabilità per ciò che questo luogo rappresenta». Risultato, una concione destinata a finire negli annali come il più lungo discorso della storia repubblicana: un’ora e 11 minuti netti. Un profluvio di parole – 5.934 per l’esattezza – da cui ne emerse una più di altre: «cambiamento», ripetuta ben 14 volte. Rileggendo il discorso, vi si trova tutto lo scibile: «Metteremo fine al business dell’immigrazione», «combatteremo la corruzione», «rescinderemo il legame tra politica e sanità», «aumenteremo fondi, mezzi e dotazioni per garantire la sicurezza in ogni città», «contrasteremo con ogni mezzo le mafie», «potenzieremo la legittima difesa». La sola cosa che manca è l’indicazione di come e quando.

E infatti, due anni e sette mesi dopo, con una pandemia e 75.000 morti in più, nessuno sa quando le promesse verranno mantenute. Inarrivabile è «la caducazione della concessione» offerta in pasto a un’opinione pubblica scossa per la strage del Ponte Morandi. «Non possiamo attendere i tempi della giustizia penale» assicurò il 16 agosto del 2018, annunciando un’azione contro i Benetton per la revoca della gestione di Autostrade. A due anni e cinque mesi di distanza, anche di quella promessa rimane solo l’uso di un sostantivo preso a prestito dal codice civile: caducazione.

Del resto, il premier ricorre spesso alle parole meno note, nascondendo dietro termini inusuali le proprie intenzioni. Quando per esempio già si preparava a fare il salto della quaglia e da presidente del Consiglio gialloverde meditava di diventare presidente del Consiglio di un governo giallorosso, Conte sfoderò «logomachia», spiegando a grillini e leghisti ormai ai ferri corti che «disegnare il futuro del Paese è cosa un po’ diversa dal soddisfare le piazze infotelematiche, dal collezionare like nella moderna agorà digitale».

La sofisticata verbosità del giurista di Volturara Appula ci ha spesso riservato autentiche trovate semantiche. Per fare gli auguri alla senatrice a vita Liliana Segre, Conte nel giorno del suo ottantanovesimo compleanno, arriverà a parlare di genetliaco e al momento del reincarico a Palazzo Chigi, invece, annuncerà di farsi «latore» dell’Osservatorio contro l’istigazione dell’odio razziale. A seguire, nel lessico dell’ex avvocato del popolo farà il suo ingresso la «monade», concetto preso a prestito dal filosofo tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz, per ribadire la necessità di aprirsi e di collaborare.

Poi, dopo aver annunciato di voler mettere fine al business dell’immigrazione, parlando dell’Africa la definirà «un territorio di feraci prospettive». Ossia, fertile. E quando un mormorio si diffonderà tra i banchi di Palazzo Madama, il professore, risalendo in cattedra, inviterà i senatori «a non avere paura delle parole». Già: Conte di certo delle parole non ha paura, ma anzi le usa per stordire alleati e avversari, nascondendo dietro una cortina fumogena di sostantivi e aggettivi le vere intenzioni. Sì, a Giampaolo (di cui, a pagina 44, la moglie, Adele Grisendi, racconta gli ultimi 30 anni) rimarrebbe solo la scelta del colore. Bianco, Giallo o forse Rosa, per un premier evanescente come la cipria.

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