Trent’anni dopo, siamo passati da Mani pulite a Toghe rotte. Ossia alla fine di un sistema che aveva eletto i magistrati a sovrani del rispetto della legge.
Quando ho tempo e non devo né scrivere né partecipare a qualche dibattito tv, mi concedo una pausa nella sala riunioni della redazione, che è arredata con una libreria su due pareti. Gli scaffali sono occupati dalle raccolte di Panorama, con i numeri degli ultimi 59 anni (il nostro settimanale nacque nell’ottobre del 1962) rilegati mese per mese. Così, l’altra sera mi sono messo a sfogliare il volume del novembre di trent’anni fa.
Mentre passavo in rassegna le pagine, gli occhi mi sono caduti su una copertina disegnata da Giorgio Forattini, che per anni con le sue vignette ha raccontato la politica italiana meglio di centinaia di editorialisti e cronisti parlamentari. Con la sua matita, Giorgio aveva ritratto Enrico Berlinguer alla guida di una vettura con la falce e martello sulla portiera, mentre sul sedile posteriore appariva Mikhail Gorbaciov con una mazzetta di denaro in mano che si sporgeva dal finestrino. Il padre della Perestrojka offriva il denaro ad Achille Occhetto e Massimo D’Alema, entrambi vestiti da prostitute e con in mano le copie di Paese sera e dell’Unità. Il titolo era il seguente: «Io rublo. E tu?». Sommario: «Inchiesta/Ecco come i finanziamenti da Est a Ovest hanno condizionato quarant’anni di politica italiana».
Il numero, che ho ritrovato nella collezione del nostro archivio, è datato 10 novembre 1991. Vale a dire che da allora sono trascorsi trent’anni e proprio trent’anni fa, cioè poche settimane dopo quella copertina di Panorama, a Milano scoppiava Mani pulite, l’inchiesta che avrebbe scoperchiato il sistema di finanziamento della politica, svelando affari e corruzione. Curiosamente però, mentre l’inchiesta del nostro settimanale seguiva la traccia dei rubli, cioè dei soldi che l’Unione sovietica versava nelle casse del Pci per mantenere la struttura organizzativa del più grande partito comunista d’Occidente e tenere in scacco gli americani in un Paese strategico per l’alleanza atlantica, l’indagine del Pool partì dai socialisti e si estese ai democristiani.
Fatta eccezione per qualche pesce piccolo, Tangentopoli non colpì la sinistra, ma solo i partiti di governo, quelli che avevano garantito 40 anni di democrazia, evitando all’Italia di finire a far parte del blocco sovietico. Eppure, che a Botteghe Oscure si campasse con i soldi di Mosca e non certo con quelli delle salamelle vendute ai compagni durante le feste dell’Unità, era il segreto di Pulcinella.
Pino Buongiorno, storico inviato di Panorama, scriveva: «Dalla Russia con odio. I finanziamenti ai comunisti italiani continuano ad arrivare ancora oggi, seppure di malavoglia. Interrotto il canale diretto con il Pcus, dopo lo scioglimento del partito (nel 1984 Enrico Berlinguer era morto e, caduto il muro di Berlino, il suo successore, Achille Occhetto aveva impresso la svolta della Bolognina, trasformando il Pci nel Pds, ndr), nelle casse di Botteghe Oscure affluiscono le royalty versate dalle società di intermediazione italo-sovietiche messe in piedi negli ultimi 45 anni dai dirigenti comunisti dei due Paesi».
Stalin prima, Nikita Kruscev poi, quindi Leoníd Il’íč Breznev e infine Gorbaciov, per anni avevano finanziato il partito, ma quando i magistrati decisero di fare piazza pulita, arrestando Mario Chiesa, un «mariuolo» socialista che da presidente della Baggina faceva la cresta sugli appalti per l’assistenza degli anziani, le indagini si indirizzarono in una sola direzione. I vertici del Psi e della Dc, ma anche quelli del Pri e del Pli, non potevano non sapere del sistema di finanziamento illegale, mentre quelli del Pci evidentemente potevano, nonostante una volta caduta l’Urss, Alexei Surkov, magistrato a capo della commissione d’indagine sul tesoro del Pcus, spiegasse che quanto si era detto a proposito dei fondi ai partiti europei fosse «solo la punta dell’iceberg», e fossero stati erogati fino all’inizio del 1991, cioè fino a un anno prima di Mani pulite.
Ma l’inchiesta realizzata da Panorama trent’anni fa, a poche settimane dall’ascesa di Antonio Di Pietro in veste di «giustiziere del popolo» contro una classe politica corrotta e inefficiente, contiene anche un’autentica chicca, ossia un commento a firma di Enzo Biagi. Il popolare e prolifico conduttore de Il Fatto, oltre a scrivere per il Corriere della Sera teneva una rubrica sul nostro settimanale e quel 10 novembre del 1991 ne vergò una illuminante, dal titolo «Così facevano tutti». Riassumo alcuni brani di quell’articolo perché credo che rileggerlo oggi aiuti a capire tante cose e, soprattutto, ci consenta di comprendere come la storia abbia preso la piega sbagliata o, per lo meno, quella che nessuno si sarebbe aspettato.
«Non è il caso di scandalizzarsi» scriveva Biagi. «Chi li prendeva dall’Est, chi dall’Ovest, e c’era anche chi non aveva bisogno di allungare le mani: gli arrivavano in casa, già pronti all’uso, da simpatizzanti del posto. Elargiva la Confindustria e offriva la Confagricoltori, dava l’onorevole Bonomi e distribuiva Mattei. A tutti, anche ai missini. Vecchio partigiano (Enrico Mattei, ndr), si giustificava: li uso come un taxi; e quando voglio scendo. Ma intanto la vettura, che aveva fatto il pieno, proseguiva il viaggio. Il fondatore dell’Eni non faceva sottili distinzioni fra destra e sinistra: quando il suo aereo cadde a Bascapè, andò in frantumi anche l’avanzato progetto di un quotidiano della sera, che doveva essere diretto da Fortebraccio, l’indimenticabile corsivista dell’Unità. C’erano parlamentari che, senza tenere conto del partito, votavano per i suoi progetti: la “lobby” non è un’invenzione recente».
Biagi, in pratica, raccontava che le tangenti le pagavano tutti. La Russia, l’America, le grandi aziende e le grandi organizzazioni degli imprenditori, industriali e agricoli. Democristiani, socialisti e comunisti uniti nella lotta, in competizione oltre che per ottenere voti anche per incassare di più. Ma il grande giornalista non si fermava a descrivere il passato e un sistema di corruzione che si spingeva fino a utilizzare i giornali come merce di scambio. Nel suo editoriale aggiungeva una previsione, ipotizzando che la campagna elettorale alle porte (si sarebbe votato all’inizio di aprile del 1992) sarebbe stata sotto il segno dello scandalo dei fondi neri.
«La polemica su questi finanziamenti internazionali è appena un anticipo delle “rivelazioni” che accompagneranno la prossima campagna elettorale e la elezione del presidente della Repubblica (di lì a qualche mese Francesco Cossiga sarebbe stato sostituito da Oscar Luigi Scalfaro, quello dell’io non ci sto, cioè non ci sto a passare per uno che incassava le buste del Viminale con 100 milioni al mese, ndr). Chissà quanto materiale c’è da tirar fuori dagli archivi di piazza Dzerzinskij (più nota come piazza Lubjanka, sede del Kgb, la famigerata polizia sovietica, ndr) e dal Pentagono: quanta gente si è compromessa dando, e soprattutto ricevendo. Tra i problemi che Occhetto deve affrontare c’è soprattutto questa eredità, e viene da sorridere pensando che buona parte delle somme straniere andavano a finire nella carta stampata. L’Usis pubblicava centinaia di migliaia di copie di un rotocalco che veniva mandato gratis agli operai».
Alla fine, Biagi concludeva: «Personalmente, non credo a questa funzione missionaria: il lettore cerca conferme alle sue convinzioni, e discute solo con chi è d’accordo con lui. Gli errori del passato non ci garantiranno da quelli che si stanno preparando». Tuttavia, il conduttore de Il Fatto si sbagliava, il fiume di denaro arrivato da Mosca non mise in imbarazzo Achille Occhetto, all’epoca segretario del Pds, perché nessuno si chiese dove per anni i comunisti avessero trovato i soldi per mantenere la propria stampa e l’imponente apparato propagandistico fatto di capi, capetti, funzionari e attacchini.
Non se lo chiesero i giornali che si scatenarono di lì a pochi mesi contro democristiani e socialisti beccati con la mazzetta in mano e non si interrogò neppure la magistratura. Ad accompagnare la campagna elettorale non furono le polemiche sull’oro di Mosca, come lo chiamò anni dopo Gianni Cervetti, un comunista che se ne intendeva, ma quelle sulle tangenti del pentapartito, che infatti in pochi mesi fu spazzato via.
Dal titolo di Panorama, «Io rublo», si passò con rapidità a «Essi rubano» e nel mirino finì l’intera classe politica che aveva governato negli ultimi quarant’anni. Con il marchio infamante di essere ladri, democristiani e socialisti, insieme con i loro partner di minoranza, furono cacciati a furor di popolo, proprio come accadde al Raphaël a Bettino Craxi, che per sfuggire alle patrie galere fu costretto all’esilio ad Hammamet. Per gli eredi del Pci, diventato Pds, fu l’occasione per presentarsi come gli unici con le mani pulite, benché fossero sporche dei soldi di un Paese ritenuto nemico, e che comunque altro non era se non una dittatura. Del proletariato, ma pur sempre una dittatura.
Fra qualche settimana naturalmente tutti i giornali celebreranno l’epopea di Mani pulite, la rivoluzione giudiziaria che ha spazzato via un’intera generazione politica, ma ovviamente solo quella di una parte, lasciando intatta l’altra. E però, mentre scoccano i trent’anni della caccia al Cinghialone, scocca anche la fine del Pool. Certo, molti di quei magistrati sono andati in pensione, altri sono scomparsi, ma a trent’anni esatti siamo alla caduta degli dèi, alla fine di un sistema che aveva eletto i giudici a sovrani del rispetto della legge.
L’anniversario coincide infatti con una Procura di Milano a pezzi e con alcuni dei protagonisti di quella stagione indagati, altri nella veste di accusatori di quegli stessi colleghi con cui a lungo hanno lavorato fianco a fianco. Qualcuno è già a processo, qualcun altro non ci finirà, ma appenderà la toga al chiodo. Una cosa è certa. Più che la profezia di Biagi, si è avverata quella di Francesco Cossiga: «Alla fine i magistrati finiranno per arrestarsi fra loro». Ci sono voluti trent’anni, ma da Mani pulite siamo passati a Toghe rotte.
